pizzi08.txt

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I RE SASSANIDI
(seguito)

I. Principio del regno di Khusrev-Pervîz.

(Ed. Calc. p. 1866-1867).

Rapidamente allor con due destrieri
Mandava Gustehèm d’Azergashàspe
Al tempio un uom, per ch'egli andasse tosto
Appo Khusrèv per l’ombre de la notte,
Andasse a lui con quel novello annunzio
Da l’iranico suol. Giunse quel messo
Dal nuovo sire quando già trascorsa
Era la notte fosca e tenebrosa
Perchè novella era la luna, e aperto
Ciò che vide e ascoltò, con ansia e affanno,
Posesi a raccontar. Si fe’ il garzone .
Pallido in volto quale è pur del fiore
Del fiengreco la foglia, e così disse:

Di chi per manco di saper, nell'ira,
Lungi sen va da la diritta via
Ch’è di prudenza, nè ha timor dell’opre
Del ciel sublime, inutil cosa rendesi
Tutta la vita. Che se tal sventura
Che tu dicesti a me, tornami a bene,


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_ 6 —

Davver! che il cibo mio, che i sonni miei
Cangiansi in vampa che mi strugge! Allora
Che stese il padre al sangue mio la destra,
Loco non féi di mio soggiorno in quella
Irania terra. Or io gli son qual servo,

A parola ch'ei dice, obbediente.

Con uno stuol d’eroci, trafitto al core,
Venne per la sua via nell'ora istessa
Quale un rapido fuoco. Ei sì temea
Che pria di lui giugnesse ambizioso
Behràm guerrier d'altero capo, e intanto
Da Bèrda e d'Ardebil si distendea
Quell’esercito suo, ratto ei venia
Con un inclito stuol di cavalieri.

Anche d'Armenia esercito discese,

Qual tempesta correndo per la via

Con quel figlio di re. Come novella

In Bagdàd ne arrivò, ch’egli ascendea
Competitor del trono imperiale,

Tutta ebbe pace la città per quello
Annunzio fausto, e per tal pace e quiete
Toccò il fin di sue brame il valoroso
Che ambia possanza. Vennero a incontrarlo
Del castello i magnati e quelli tutti

Che parte si prendean di tanta gioia,
Vennero dalla via fino alla tenda
Imperiale, favellando a lui

Di molte cose. Molte cose invero

Ei là dicean, Khusrèv sì gli ascoltava

E de' prenci segula nobil consiglio

Nel cor devoto. Ma sovra un tappeto
Posero intanto in bianco avorio un trono
E di gran prezzo un serto e una collana
Di fulgid’or, quale recata un giorno
Molti regnanti avean, quale già molti
Monarchi visti avea su quel tappeto;


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— 7

E re Khusrèv nel suo dolor frattanto,
Entrando alla città, venia dinanzi
Al padre suo con sospirosi accenti.

Or che dirò di questa che si muove
Rapidamente nè giammai si posa
Dall’opre sue, vòlta del ciel sereno?

Ella porge a qualcun reale un serto,

Altri abbandona al mar, quale a’ suoi pesci
Esca segnata. E quegli ha nudo il piede,
Vuota la man, scoverto il capo, e loco

Di riposo non ha, non di quiete.

Ella porge a tal altro un miel soave

Ed un latte purissimo e di seta

Anche il riveste e di broccati. Alfine,
Ambo sen vanno de la terra al grembo,
Ambo vanno a cader nel tenebroso

Laccio di morte. Che se l’'uom ch'è saggio, .
Nato non fosse mai, giorno di guerra

Mai per lui non sarebbe, e se veduto
Nulla del mondo egli s’avesse, cosa

Miglior saria veracemente, grande

Sia ch’ei si mostri o picciolo fra gli altri.

Ed or, per l’opre di Khusrèv, novella
Fatica porterem, nuovo racconto
Apprestando a lettor di queste carte.

II. Colloquio di Khusrev col padre.

(Ed. Calc. p. 1867-1869).

Come sedette su quell’aureo trono
Prence Khusrèv, ne andò ciascun che avea
Nobile ingegno. Elli invitàr quanti erano
D'inclito pregio e sul novello serto
Sparsero gemme. Così disse allora


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_ 8_

A’ sacerdoti il re: Questa corona

E l'aureo trono maì non tocca alcuno

Se non d'inclita sorte. Oh! mai non sia

Arte alcuna di me fuor che giustizia,

Chè iattura pur sempre arreca a noi

Ogni ingiusto operar, sì che si volge

Al bene ognor nostro regal consiglio

Con ciascuno quaggiù, sciolta è la mente

D'opere prave dal pensier. Frattanto,

Io da l'Eterno il mio novello trono

Ricevo sì, la mia novella sorte

Splendida e ricca di gran pregio. Voi,

Voi pur ponete al mio comando il core,

In ogni opra ver noì con tre impromesse.

E in pria l’uom saggio non si offenda; ancora

Non volgasi ribelle al re la fronte;

Al terzo loco, da cose d’altrui

Lungi si resti, chè cotesto adduce

Duolo a chi ’l fa. Sovente altri in tal voglia

In buona ora s’accende o intempestiva ;

Anche per cosa che non ha valore,

Il cor d’alcuno arde sovente. Intanto,

Vuolsi ritrar da quest'arma fallace

Pronta la mano e la diritta via

Di giustizia cercar. Qual è poi cosa

Che ad uman senso accordisi, cotesta

Accetti la ragione. Odii o contese

Io non ho con alcun, s'anche qualcuno

Per sè cercava la corona mia

O l'anello regal. Ma chi ha per nobile

Lignaggio in terra nascimento illustre,

Non favella ad alcun fuor che in giustizia.

Sola vi resti sicurezza ch’io

All’opre d’AhrimàN non pongo il core.
Ciascun che udia del prence le parole,

Fe’ voti e auguri per il suo regale


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_9_

Trono e pel serto. Andavano gioiosi
Da quel seggio regal, benedicenti
Alla fortuna di tal re. Discese
L'inclito sire da quel trono ancora
Beato e lieto, ma d'Hormùzd ricordo
Fece costante per la notte intera.

Come sparì dell’atra notte il velo,
Negro qual scheggia d’ebano, e agli orecchi
Giunse cantar di galli da lontano,
Discese al padre suo quel re del mondo
Subitamente, al cor ferito e pieno
Di duol nell’alma. Come il vide, in gemiti
Ei sì proruppe e l’ossequiando intento
Stette lung'ora innanzi a lui. Del padre
Come vide Khusrèv disfatto il volto,

Per acerbo dolor mandò dal core

Un sospiro profondo. Ei ne baciava

Gli occhi e la testa e i piè, gonfio di duolo
Nel cor trafitto e lagrimoso in volto,

Fin che dir gli potè: Deh! padre un giorno
Sì fortunato, a Nushirvàn monarca

Erede in terra, ben sai tu che s'io

Stato qui fossi a te sostegno, alcuno
Trafitta non t'avria neppur con picciolo
Ago la punta d'un tuo dito. Or vedi

Qual comando mi dài; chè a te ne venne
Aspro dolor, m’è pien d’affanno il core.
Che se comando mi dài tu, qual servo,
Custode al capo tuo, qui resterommi

Alla tua porta, nè vogl’io d'armati

Una falange, nè mi chieggo un serto,

Ch'io medesmo dinanzi al seggio tuo
Recidere vorrei questo mio capo.

Dissegli Hormuzd: O saggio figlio mio,
Questo giorno di doglia e di rancura
Per me ancor passerà, nè lungamente


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— 10 —

Incolume sarà chi a me fe’ questo,

Chè passano per noi rapidamente

Dolori e gioie. Or io da te desire

Ho di tre cose, nè più in là da queste
E cerco e bramo; ed una è sì che ogn'alba,
Di gran mattin, con la tua cara voce
L'orecchio mio tu allegri, indi mi mandi
Un cavalier fra questi che levata

Han la cervice, qual di lunche guerre
Abbia ricordo e di battaglie e assalti
Faccia sermone ed aggia per i boschi
Cacciato ancor. M'invia pur anco un savio,
D'antica età, che favelli de’ prischi

Re della terra e portimi notato

Un libro suo, perchè m'’allevii almeno
Questa rancura e il mio dolor. Ma terzo
Desire è questo ancor che li tuoi zii
Servi, non pari, siano a te; non veggano
D'oggi in avanti con lor occhi il mondo,
E tu, pel mio dolor, l'alto tuo sdegno
Contr’essi muovi. — O re, gli rispondea
Khusrèv allora, incolume non resti

Chi non si duol per tue pupille spente;
E se alcuno v'è pur nell'alma trista

Che nemico a te sia, lungi da questa
Terra sen vada. Ma tu nota intanto

Col sereno tuo spirto esser de’ prodi
Behràm Ciubineh il capitano, esercito
Seco menar qual è più assai di computo,
Cavalieri ed eroi che vibran spade.

Che se la man stendiamo a Gustehemme
Per castigarlo, non avremo in terra
Loco tranquillo ad abitar. Ma intanto,
Perchè qui sia per te un antico scriba
Che legga al mio signor d'antichi eventi
La storia, e seco un cavalier nutrito


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Nelle battaglie, quale ancor le leggi

De’ banchetti conosca e de’ conviti,

Un nuovo in ogni tempo io d'inviarti
Avrò pensiero, e tu dolente e mesto
Pel dolor tuo non ti mostrar. Tal duolo
Non dir che ti venia da Gustehemme,
Ch'esso è da Dio, per opere e per detti
Non conformi a ragion. S'allieti adunque
In tale affanno il tuo bel cor, congiunta
Sia pazienza al senno tuo. Ma poi,

S'io dalla sorte toccherò mio dritto,

La mia vendetta piglierò su questi,
Gustehemme e Bendùy tristi ed indegni,
Senza lenzuolo funeral gittandoli

Esca de’ cani. E tu beato sii,

Figliuol di Nushirvàn; l'anima tua
Eternamente giovane si resti!

Dicea cotesto e lagrimando uscia
Dal cospetto di lui; non però schiuse
Ad alcuno quaggiù quel suo secreto.

Più assai del suo signor pieno d'amore
Era quel figlio, ed un antico saggio
Sentenza disse in ciò: « Giovane amico
Di sermon dolce ed eloquente assai
È di vecchio miglior, cadente e stanco.
Eppur, l’uom stolto e il sapiente ancora
Avranno un giorno da la stessa terra
Coperto il capo. Non è scampo mai
Dall'apprender cotesto, e chi diria
Che pari son fra lor l’uom saggio e dotto
E lo stolto e l’ignaro? In sapienza
Nobile meta di te sta; tua pace
Ti darà il cielo in paradiso. Intanto,
Come sostien la fragile persona
L'alimento quaggiù, di sapienza
L'alma abbisogna, e non è scampo. Iddio


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— 12

Tu chiama vincitor, santo e possente,
In tutte l’opre, e non temer di cosa
Che altri stimi quaggiù picciola o grande ».

III. Venuta di Behràm Ci@bîneh

(Ed. Calc. p. 1869-1872).

Come intese Behràm quale incogliea,
Per avverso destin, trista sventura
L’inclito sire (avergli altri ne' fulgidi
Occhi confitto arroventato ferro,

Onde s'erano estinte ambo coteste
Lampade chiare, come bei narcisi

In ameno giardin, sedersi il figlio

Sul trono suo regal, riversa al suolo
Della fortuna la grandezza), questo

In ascoltar, stupia Behràm guerriero

E impallidia. Ne' suoi pensieri assorto,
Così dicea: Giunse per me stagione
D'armi e d'assalti, e recheremci in pugno
Del mondo signorìa col valor nostro.

E comandò che fuori altri recasse
I timpani sonanti e alla campagna
Si traesse il vessil di sua grandezza.
Le provvigioni egli apprestò, l’esercito
In ordin pose e favellò di sua
Vicina guerra con Khusréèv. Si mosse
Quell’esercito allor quale un gran monte
Che via cammina, fin che ardito e presto
Di Nahrevàn alle sponde giungea.

Dell’opre di costui come novella
Ebbe prence Khusrèv, molto si dolse
Di questa impresa impetuosa e tosto
Vigili attorno esploratori suoi



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— 13 —-

Mandò le cose a investigar del mondo.
Disse a cotesti: Primamente è d’uopo
Accertar de l’esercito nemico

Qual sia secreta voglia, e se fra l'armi
Con Behràm battaglier que’ prodi suoi
Saran concordi; ovver, cotesta impresa
Lunga sarà per noi. Veggasi ancora

Se Behràm si fa duce al medio loco
Dell'esercito suo, se ad un de' corni,
Come si asside allor che in sua presenza
Accoglie altrui, se ne’ viaggi suoi

Cerca la caccia. — Uscian dalla regale
Magion di lui gli esploratori, e niuno
Dell’esercito suo di tal secreto

Conscio fu allora. Andaron tutti e videro
E ritornàr; secretamente ci vennero
Appo lor prence e dissero: L'esercito

In ogn'opera sua col duce accordasi,
Giovinetti sian elli o sian degl'incliti
Principi suoi. Nell'ora che le armigere
Schiere egli mena per la via, nel mezzo
Dell'ampio stuolo ei sta per alcun tempo,
Volge talor verso diritta e a manca
Talvolta ancor, tal’ altra ove s'accolgono
Le provvigioni. Ed egli è tal che lungi
Vede con gli occhi de la mente e cercasi
Ardite imprese. Anche il vedemmo noi
Eroe prudente e cavalier. Ma sempre

Ei la sua gente serbasi secreta

Nè d'uopo egli ha di gente estrana, e al tempo
Ch'altri egli accoglie, come i re pur fanno,
In trono asside, cercasi la caccia

Per la campagna con segugi e nulla

Ei vede o sa fuor che di re battaglie,

E leggesi pur sempre di Kalila

E di Dimna il volume. — Al consigliero


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— 14 —

Così disse Khusrèv: Lunga una impresa
Ecco! innanzi ci vien. Quando il destriero
Behràm sospinge contro al suo nemico,
Anche de’ mostri nel profondo mare
L'alma si frange. Imperial costume
Dai re del mondo egli si apprese, e allora
Ch'egli ha, qual dì’, per consigliero il libro
Di Kalila, davver! che niun si vanta,
Com’ ei fa, uno scrittor che dia consigli!
Indi a Bendùy e a Gustehemme ei disse:
A. fatica e a dolore oggi siam noi
Davver! congiunti. — Ma Gherdùy frattanto,
Endimàn e Shapùr, Darmàn, signore
D'’Armenia, tutti, con l'iranio prence,
In secreto sedean, principi tutti
D'inclito senno e bellicosi, e a questi
Principi re Khusrèv così dicea:
O valorosi da l'eretta fronte
E belligeri miei, quegli che chiaro
Senno possiede nella mente sua,
Per saper ch'egli vanta, ha intorno al corpo
Una lorica, nè la spezza alcuna
Punta nemica fuor che de la morte
L'acuta spada. Ogni casco d'acciaio
Molle si fa dinanzi al mortal ferro
Qual molle cera. Ed or, d'anni minore
Son io di voi, nè già poss'io la terra
Di gioventù col debile consiglio
Attorno camminar. Dite qual sia
Arte sottile in ciò, dite chi senta
Maggior dolore in quest'alta ferita.
Dissegli allora il sacerdote: Lieto,
Lieto vivi, o signor, lume e alimento
Di tal che ha parvo ingegno. Allor che in pria
Questo mistero del rotante cielo
Mostravasi, divisa in parti quattro


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— 15 —

Fu intelligenza. Parte ai re assegnata

D'essa è una parte, chè s'addice ai regi

Senno con maestà. Fu l’altra parte

Dell’uom prudente, e andò la terza ai servi

De’ regnanti quaggiù. Quando si trova

Appo il re de la terra un fido servo,

Ei non nasconde il senno suo. Restava

D'intelligenza picciola ed esìle

Anche una parte, e l'assegnava il saggio

All’uom che in villa nacque. Oh! ma l’ingrato

Non ha d'intelligenza alcun sentore,

Non ha colui che non conosce Iddio!

Che se tai detti il mio signore ascolta

Quali un giorno dicea vigile e accorto

Il saggio antico, s'ei con l'occhio puro

Del suo cor ciò considera pensando,

Frutto eletto n’avrà, tosto che forza

Dei saggi detti pènetri il suo core.
Dissegli '1 re: Se questi detti tuoi

Scrivessi in auro, degno ben sarìa

Di mio costume e dignità sovrana.

Il dir parole oneste è propria cosa

De’ sacerdoti; ma diverso in core

Un pensiero mi sta. Come di contro

Ambe si troveran le avverse schiere

E saliranno a’ Gemini nel cielo

Di lor aste le punte, a me non certo

Biasmo ed onta verrà s'io fuor balzando

Dell'esercito mio dal medio loco

Verrò, verrò dinanzi alle adunate

Falangi in guerra e chiamerò con alta

Voce Behràm, impuro capitano,

Duro nel suo desio. Pur della pace

Un vago aspetto additerògli e molte

Carezze gli farò lodando ancora.

E s’egli ascolta le parole mie.


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— 16 —

Cosa miglior sarà, chè veramente

Qual è gagliardo in questa reggia mia
Che gli sia pari? Ma se guerra ei cerca,
Io guerra cercherò, menando incontro
L'una dell'altra le falangi nostre..

In tal sentenza che il novello sire
Così dicea, tutti que’ saggi allora
S'accordàr tostamente. I prenci tutti
Benedissero a lui, re della terra
Festosi l'acclamàr, mentre ciascuno
Così dicea: Lungi da te rimanga,

Almo signor, della fortuna avversa
L’opra malvagia! Abbi vittoria sempre
E di re dignità, grandezza vera

E serto imperial sovra la fronte.

Così disse Khusrèv: Cotesto sia
Veracemente, alcun di noi non vegga
Iattura mai, non division d'amici!

Fuor di Bagdàd l’esercito ei traea
Subitamente, alla vasta pianura
Suoi recinti novelli egli traea.

Allor che per la via scendean vicine
Le schiere avverse, da una parte il duce,
Il re da l’altra, quando cadde presa,
Quale in un laccio, questa lampa fulgida

Ch'è luce al mondo, e le sue trecce sparse

La notte oscura, andavan le vedette
D'ambe le genti a custodir l'esercito
Da repente assalir di danno in via.

Ma tosto che la notte iva fuggendo
Dalla spada del dì, rapida in corsa
Qual è colui che con aride labbra
Fugge temendo in cor, d’ambo i recinti
Levossi di timballi alto un fragore

E il sol già si vedea qual de l'assalto
Guida secura. Fe’ comando il sire


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— 17

A Gustehemme ed a Bendùy che in fronte
Sì ponesser lor caschi alto ferrati,
E co' suoi prenci d’anima serena
Di Nahrevàn sino a le fonti ei venne.
Veniano allor senza frapporre indugio
Le vedette a Behràm. Venne, diceano,
A due tratti di frecce ampio un esercito.
Behràm, tosto che udì, trasse le schiere,
Tutti chiamando i prenci suoi già esperti
Delle battaglie, e montò in sella a un candido
Corsier che bruna avea la coda, rapido
Nel balzar, con eretta la cervice
E di bronzo con l’ugne. Avea per armi
Un ferro d'India, ch'era tal ne’ colpi
Qual fuoco che da nube si scoscende,
E il destriero ei spingea quale un baleno
Chiaro e lucente. Avea da man sinistra
Ized-gashàsp malvagio, Azergashàspe
E Yelan-sìineh ancor. Venian cotesti
Pieni al cor di vendetta e di contese,
E tre Turani ardimentosi, stirpe
Dei re di Cina, v'eran anco, accinti
Contro a Khusréèv in fiera giostra; ognuno
D'esti tre detto avea : Ratto che il volto
Dell’iranio signor vedrem da lungi
Dal medio loco di tue schiere, lui
O avvinto o ucciso t'addurrem. Davvero!
Che allor s'acqueterà la terra tua!
Da questa parte re Khusrèv, da l’altra
L'eroe, nel mezzo la fontana limpida
Di Nahrevàn. D'ambe le parti intanto
Stavansi a rimirar le accolte schiere
Come contro al suo re l'eroe n'andava.




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— 18—-

IV. Colloquio di Khusrev e di Behràm.

(Ha. Calc. p. 1872-1883).

E Behràm e Khusrév là s’incontravano,
L'un d’essi aperto il volto, oscuro e tristo
L'altro di contro. De la terra il prence
Candido come avorio un palafreno
Si cavalcava, d’oro in su la fronte
E di rubini un diadema e attorno
Un ammanto s’avea tessuto in oro,

Opra cinese. Gli era innanzi e guida
Prence Gherdùy, ma Gustehemme illustre .
E Bendùy del monarca erano a lato

Con quello, di Berzìn nobile figlio,
Kharràd, che un elmo d’or portava in fronte.
Tutti cotesti eran coperti d'oro

E d’argento e di ferro, e le cinture
Auri-fulgenti sotto da’ rubini

Non apparilan per la gran copia. Allora
Che di quel re di principi la fronte
Behràm scoverse, dalle gote sue

Sparve color per improvviso sdegno,

Ed egli ai duci si rivolse e disse:

Ve'! che questo figliuol di meretrice,
D'infausti segni, da viltà e bassezza
A valor si levava e si fea ricco
E cintura cingeva! E sì gli appare
Su quel volto d’avorio una lanugine
E rara e sparsa! Ve'! ch’egli diventa
Re Fredun con la clava e la corona!
Egli imparò costume imperiale,

Ma cesserà per lui rapidamente
Nel mondo signoria. Ve’! che il bastardo


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— 19 —

D'anima fosca guidasi l’esercito,

Di Nushirvàn qual è costume! Or voi

Da un capo all'altro le sue accolte schiere
Mirate sì, se v'è qualcun fra’ suoi

Di nome illustre. Un cavalier non veggo
Di pugne amante qual con me ne venga
Un solo istante a contrastar. Ma intanto
Quei si vedrà qual d’'uomini gagliardi

‘È l’opra vera, il correr de' cavalli,

De le spade il colpir, che sia la polve
Della battaglia, e de le ferree clave
Lo scender forte e di saette acute
L'orrida piova e il gridar degli eroi
« Piglia! dàlli! ritieni! ». In questo campo
Un elefante non resiste allora
Ch'io dal mio loco a contrastar con l’armi
Balzo fremendo. E caggiono scrollate
Alla mia voce le montagne ancora,
E fuggesi vigor di chi più mostra
Ardimento nell’alma. Or, con la spada
Possente una malìa su questo fiume
Avventerò, volgendo in sangue tutte
Quell’acque sue dall'una sponda all'altra.
Disse e dal loco suo quel suo destriero
Spronò di color bianco. Oh! detto avresti
Che un'aquila volante era il destriero
Veracemente. Angusto loco ei prese
A far battaglia e l’esercito intero
Di lui meravigliava. Ei così venne
Al Nahrevàn dal campo suo, dinanzi
Così fermossi a’ principi più illustri,
Ed erano con lui de’ prodi Irani
Alcuni inver, contro a Khusrèv dell'armi
Accinti già per contrastar con seco.
Così disse Khusrèv: Principi illustri,
Indizio chi ha di voi di quell’altero


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— 20 —

Behràm Ciubineh? — O re, Gherdùy rispose,
Guarda all’eroe che candido destriero
Là si cavalca. Bianca è la sua veste,
Neri i pendagli, e in mezzo all’altre schiere
Il bianco palafren ratto ei sospinge.
Come vide Behràm del mondo il sire,
Da tal principio l’esito conobbe
Rapidamente e così disse: Quello,
È quello sì che lunga ha la persona,
Di color fosco qual di fumo, assiso
Sovra bianco destrier dal capo eretto?
Ei sì, Gherdùy rispose, egli è colui
Che d’opre egregie non fe’ mai pensiero.
Se tu inchiedi colui dal dorso incurvo,
Khusrèv dicea, ben aspri a le risposte
Farà suoi detti. Quale adunco grifo
Ei reca un ceffo e gli occhi ha chiusi; è pieno
D'ira il cor suo, diresti ancor. Se il guardi
A que' tristi occhi suoi, maligno ei mostrasi,
Ch'egli è di Dio nemico in terra. Intanto,
. Pensier di sommission nella sua mente
Io non discopro, e niun d'obbedîenza
Avrà da lui ben che picciola prova.
A Bendùy poscia e a Gustehemme ei disse:
Questa sentenza mia dal cor secreto
Io scioglierò. « Quando a portar suo peso
Il giumento non vien, quel grave peso
Reca tu stesso del giumento al dorso ».
Ma poichè corrompea Behràm Ciubineh
Un tristo Devo, la diritta via
Di Dio, signor del mondo, in qual mai guisa
Potria veder? Quel cor ch'è corruccioso
Per trista ambizion, frutto non tocca
Da consiglio d’altrui. Che se tu scendi
Alla battaglia, ogni faccenda compiesi,
Ma vuolsi in pria dal suo principio al fine


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-—21

Ogni cosa osservar. Chi sa, in battaglia

Chi vittoria s'avrà, chi fia di doglia

Ricolmo e sazio e chi sarà la luce

Dell’esercito suo? Così dinanzi

Esercito ne sta già in ordin posto,

E n'è duce Behràm che le battaglie

‘Cercasi e agogna, un uom, qual Devo ardito,

Tristo e malvagio, con drappel d’armati

Qual di lupi ululanti è una caterva.

«Che se con me pur v’accordate, nulla

©Onta m’avrò da ciò ch'io dico. Primo

A favellar m'’avanzerò con lui,

E questo meglio fia che ne la guerra

Mostrar viltà. Che se da lui parole

Io m’otterrò dentro misura, antiche

E viete si faran per me sue colpe,

Ben che recenti e nuove. Io per la terra

Assegnerògli separato loco,

D'’animo grato gl'imponendo ufficio

Nel darlo a lui. Così, la nostra guerra

Volgerassi alla pace insiem col fiero

Proponimento in questo campo d'armi,

‘E dalla pace un dolce frutto ancora

Io sì m’avrò, sarà senza periglio

La mente mia, d'ogni sospetto reo

Libera e sciolta. Allor che da mercante

‘Opera il sire, il cor d'ogni più saggio

Lieto per lui sen va..— Dissegli allora

‘Gustehemme: O signor, vivi beato

Fin che tempo sarà! Ne' detti tuoi

Perle tu spandi; tu di noi più saggio

Sei veramente, ciò che più ti piace,

“ Tu fa. Nella giustizia, ecco! tu sei,

Ma ingiusto è il servo tuo; tu pien di senno,

Quei di superbia e di codardo vampo.
Khusrèv, come ascoltò, sua via percorse,


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— 22 —

Con fiero incesso de le squadre ei venne
Alla presenza e di Behràm guerriero
Fece inchiesta da lungi, ei che cercava
Di battaglia nel di feste e tripudi.

Così disse a Behràm: Fiero mortale
Che rechi altera la cervice, quale,
Qual l’'opra tua nel campo dell’assalto ?
Ornamento sei tu della mia reggia,
Gloria sei tu del trono mio regale
E del serto, sostegno a' prodi miei
Della pugna nel di, quale una lampa
Fulgida e bella in tempo che s'appresta
Convito genial. Cerchi possanza,

E se’ gagliardo e a Dio fedel. L'Eterno
Mai non tolga da te la mano sua!

Or però di tua sorte ebbi pensiero

E con bontà l’opere tue che festi,
Ebbi gradite, sì che te con questo
Drappello tuo farommi ospite e gioia
A questo spirto recherò nel dolce
Aspetto tuo. Con diritto verace
D'Irania ti dirò vassallo e duce,
Benedicendo in nome tuo l'Eterno.

Behràm eroe quelle parole sue
Ratto che intese, abbandonò le redini
Al suo bianco destrier che bruna avea
La’ coda irsuta, e salutò il suo prence
Dal dorso eretto del corsiero. Stette
Lungo tempo là innanzi, indi rispose
Quel cavalier dal candido cavallo:

Lieto e ‘allegro son io con la fortuna
Propizia e amica, ma per te non sia,
Deh! non sia mai della grandezza il giorno,
Chè ingiustizia non sai, non sai giustizia
Di tuo grado real! Quando si prende
Costume imperial chi degli Alani


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Principe è detto,. ogn’uom di trista sorte
Il soccorre ed aita. Ed io pur anco

Della tua sorte ebbi pensiero, e un laccio
Novellamente a torcere mi posi

Per te, chè tosto eleverò nel campo

Un alto legno e con quel laccio attorto
Ambe le man ti avvincerò. Da quello
Arbor degno di te ti farò appeso,

E amarezza per me vedrai del Fato.

Come Khusrèv cotal risposta intese
Da Behràm cavalier, quelle sue gote
Impallidîr qual di fiengreco è rosa.

Ben s’avvide che il cor mai non torrìa
Da pensier di corona o di regale
Seggio colui, non tornerebbe mai

A diritto sentier. Così rispose:

Deh! tu ingrato! Davver! che sì non parla
Quell’uom che Iddio conosce! Allor che viene
Alle tue case un ospite da lungi,

Del tripudio nell’ora imprechi a lui.

De' regnanti costume oh! non fu mai

Di questa foggia, non de’ cavalieri

Che alta reggon la fronte, e ciò non fece
Alcun d’Arabia, non di Persia alcuno,
Anche se a numerar trenta fiate

Anni cento vai tu. Di ciò vergogna

Ha l’uom ch'è saggio, e tu a la porta intorno
Non t'aggirar d'animo ingrato. Allora

Che un ospite gentil ti dà una voce,

Sol così come fai risposta rende

Malnato Devo; ond’io già temo assai

Che a te ne venga di tuo danno il giorno,
Chè tu stesso travolto il tuo consiglio
Conosci e vedi. Ogni tua aita è in mano
Di quel Re ch’è vivente in sempiterno,
Disciolto in suo voler. Del peccatore,


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— 24 —

Dell’uom ch'è ingrato, in biasmo è la persona,

Nello sgomento è il cor. Che se m'appelli

Re degli Alani, ad una parte sola

Ti apponi tu del nascer mio. Deh! forse

Che indegno son del grado imperiale ?

Forse ‘che a me della grandezza il serto

Più non s'addice? L’avo mio fu Kìsra,

Hormùzd il padre mio; chi vedi o sai

Di me più degno? — E Behràm gli dicea:
Deh! malnato, nell’opre e negli accenti

Qual forsennato, le parole apristi

D’ospiti in favellar. Ma tua natura

Novella è cosa, antiche le sentenze,

A cui tu corri! Che fai tu con quelle

De' monarchi parole? e tu non sei

Uom saggio, cavalier degno dell'armi

Non se’ davver! Tu degli Alani sire

Già fosti, or prence sei, ma veramente

Meno sei tu di tal ch’è servo ai servi.

Colpevole tu sei senza alcun frutto

Sopra la terra, non sei re, non degno

Di grandezza fra i prenci. Oh! ma qual sire

Me acclamàr tutti i prodi miei, ned io

Soffrirò mai che l’orme tue malvage

Tu stampi in terra. E s'io ti dissi ancora

Che infelice sei tu, che non s’addice

Grado a te di signore e di sovrano,

Questo diss’io (deh! tu monarca indegno,

Deh! tu non possa mai sopra regale

Trono posar!), perchè gl’Irani avversi

A te son tutti e te combatteranno,

Divelleranno la radice tua

Dall’imo fondo. Sulla tua persona

E cute e vene schianteranno e l’ossa

Fien date ai cani. —E a lui Khusrèv: Deh! tristo,

Perchè ti festi impetuoso e altero


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Di questa foggia ? Gran difetto all'uomo

Ree parole avventar, ma tal natura j

Da principio la tua! Dal tuo cerèbro

Già si partia splendido senno; oh! l'inclito

Prence beato che dal senno vero

Frutto raccoglie! Ma del tristo Devo

Di cui s'avanza del morir stagione,

Ratto s’allunga a dir parole stolte

La mala lingua. Eppur, già non vogl'io

Che un prode qual sei tu sè stesso annienti

Per ira e perda suo poter. Ben meglio

Sarà per te se via dal cor discacci

L'ira inconsulta, nè fremendo vai,

Ma su l'impeto getti una malia

Per raffrenarlo. Ti ricorda Iddio,

Giusto Signor, nella giustizia tua

Poni ragione a fondamento. Innanzi

Una montagna hai tu; se tu la miri,

Ell’è maggior di Bisutùn del monte.

Che se un prence di te mai si facesse,

Rovo infecondo tu saresti allora

Che a fruttar viene. Il core hai tu frattanto

Fermo in pensier di signoria, ma quale

Sarà consiglio dell’Eterno in questo,

Attendo di veder. Non so chi mai

Malvagia intenzion così t'apprese,

Chi t'addusse a tal fè bieca ed infausta

Ch’è d’Ahrimàne. Ma chi disse queste

Parole a te, con le parole sue

La tua morte sen va cercando attorno.
Disse cotesto e giù balzò dal suo

Candido palafren, la preziosa

Corona sua levossi da la fronte

E gemè sospirando e volse il viso

Al sol splendente, in Dio pien di speranza

Facendo il core. Così disse allora :


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Giudice giusto e splendiente, l'albero
Della speranza per te sol ne viene
Frutti a recar! Tu sai chi sia davvero
Cotesto servo innanzi a te, tu sai
Se per tal’onta piangere si dee
Sulla corona imperial. Se il regno
De’ Kay dal seme forza è pur che migri,
I fianchi io più non cingerò, ma quale
Fedele adorator n’andrò ad un tempio
Del vivo Fuoco, nè vorrò alimenti
Fuor che di latte e d'erbe verdi. Argento
Ed auro non avrò nel mio tesoro
E rozze lane vestirò a quel loco
Ove servesi a Dio. Ma se tal regno
È veramente il loco mio, se a Dio
Devoti siamo con giustizia vera,

Almo Signor, tu fa vincente questo
Esercito pugnace e la corona

E il trono mio diniega al servo. E s'io
Toccherò il fin della mia brama, al tempio
D'Azergashàspe menerò correndo

Il palafren con la corona mia,

Con la collana e i braccialetti e questi
Orecchini lucenti e questa ancora
Dorata veste che ha di gemme fregio.
Anche là, presso a quella in lapislazzuli
Cupola eretta del delùbro, cento
D'auree monete verserò sportelle

E dramme centomila a’ suoi devoti
Anche darò, tosto ch'io sia del mondo
Ampio signore. Le città che andarono
Per l’opre ingiuste desolate, ostello
Fatte d'onàgri e di leoni agresti,

Tanto farò che nuovamente a buono
Stato sian rese, nè vorrò che ingombre
Dimorino di spine e d’oziose


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—_ 27 —

Erbe vivaci. E manderò pur anche,
Tostochè da l'assalto iv mi ritorni,
Centomila monete; e qual captivo

Caggia d'esti a Behràm seguaci addetti,
Quando a me il tragga chi prigione il fea,
Farò che serva con devoto aspetto

Al sacro Fuoco, il cor de' suoi pontefici

E sacerdoti rallegrando sempre.

Disse cotesto e si levò dal suolo
Subitamente in piè. Quest'uom rizzavasi,
Ei che sofferta violenza avea,

Egli eloquente nel suo dir. Sen venne
Rapido sì dal loco di sue preci

Come nembo che corre, e a quell’ardito
Behràm Ciubineh fe’ tal voce e disse:

Infernal servo di malvagio Devo,

Che lungi vai da ogni saggezza, lungi
Mentre sen va da te regal costume

E dignità, fu tracotante Devo

Quei davver che con ira e violenza

In questa guisa ti fe' agli occhi cieco!
Di senno in loco, la vendetta e l’ira

Ti ritrovasti e laudi anche ottenesti

Dai tristi Devi. Una città ti parve

Ogni loco deserto ed un giardino

La dimora infernal. Così dinanzi

Al tuo cerèbro si spegnea del senno

La chiara lampa e tolta fu la luce

Di te all’alma ed al core. Altri non fue,
Fuor che pieno d’inganni un tristo mago,
Che in tua grandezza ti traea di negro
Abisso al fondo. E tu la man distendi
Oggi a tal ramo di cui son le foglie
Atro veleno e sono i frutti suoì

Amaro tosco. Alcun di tua famiglia
Cotesto non cercò, nè v'è a chi ’1 cerca



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Benedizione. Iddio cotal possanza,

Tal maestà dar non ti volle, e forse
Ricordanza non hai di quello antico
Gurghin figlio a Milàd ? Oh! sciagurato
E d’ingiustizia pieno, ardimentoso

A non possibil cosa il pensier tuo

Non volgere così, chè non ha l’ale
D’aquila il granchio, e l'aquila non vola
Del sol più in alto! Or qui giuro per Dio
Santo e pel trono e la regal corona

Che s’io te troverò senza qualcuno

Degli armigeri tuoi, sol ch'io ti soffi
Incontro alquanto, non vedraimi in guerra
D'allora in poi mai più. Parole udimmo
Acerbe molte, ma sostegno in Dio

Che dà vittoria, noi ci femmo. Indegno
Ov'io sarò di regal soglio, oh! mai,

Mai non sia che campar qual servo io deggia.

E Behràm gli rendea cotal risposta :
Stolto e malvagio che di Devo hai l’arti,
Il padre tuo, che governò la terra,

Amico della fè, che mai non disse

Contro alcun di quaggiù scortese accento,
Non conoscesti nel suo pregio e in guisa
E turpe e vil dal trono suo cacciasti! -
Or, dietro a lui, vuo’ tu regnar? prudente
E vigile esser vuoi? Ma tu se’ impuro

E nemico di Dio, nè, fuor che male,

Cosa tu ottieni da Lui sì, che-intorno
Spande sue grazie. Che se Hormùzd ancora
Stato ingiusto si fosse e il secol suo

E la terra al suo tempo avesser chiesta
Aita contro a lui, non però bello

Saria per te, che gli sei figlio, assiderti
In Irania e in Turania alto signore.

Non è pel trono la tua vita; appréstati,



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— 29 —

E ciò ti basti, oscuro avello, e lungi
Da lieta sorte va! Ma la vendetta

Di prence Hormuùzd io chiederò dapprima;
Indi in Irania re son io. Tu intanto
Chiara mi fa questa sentenza; e quale
De' giusti sì l’approva acconsentendo,
Che cioè tu dovessi a’ re negli occhi
Rovente un ferro conficcar, che altrui
Vel conficcasse, far precetto? Il regno
Or troverai che spetta a me, dal sole
Fino al drago che il mar regge e la terra.

Khusrèv dissegli allor: Deh! mai non sia
Che del padre al dolor gioisca il servo.
Scritto era questo, e ciò che avvenne, avvenne,
Ma tu parole su parole molte
Accumulando vai. Tu di te stesso
Re monarca far vuoi, ma se la morte
T'incoglie ratto, un lembo non avrai
Di benda funeral. Sul tuo destriero,
Con tal gualdrappa e con cotesti tuoi,
Un re sei tu, di cui desio non compiesi
In alcun tempo. Non hai casa o albergo,
Non inclito natal, non terra o suolo,
E re sei tu pieno di vampo. Oh! certo
Che splendor non avrai su regal seggio
Con tali arredi tuoi, con tal ricchezza
E tal nome bugiardo! E di te prima
Assai gagliardi già vivean, di gloria
Amanti sì, con ponderose clave;
Non però si cercàr, ch'egli eran servi,
Di regal seggio indegni e di corona,
Dignità imperial. Ma tu frattanto
Ad ogni tempo cresci in ira, e tinta
Ch'è di pudor, non sale agli occhi tuoi.
Davver! che il Fato ti disdegna, allora
Che ti si agita in cor nascostamente


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— 30 —

Pensier malvagio! Iddio creò suoi regi

Sol per giustizia ch'elli avean, per alto

Pregio e illustre natal. Dà il regno Iddio

A chi più il merta, a chi è più saggio e scevro

È più d’offesa inverso altrui. Mi fece
Re degli Alani il padre mio, chè appunto

Egli per me del traditor tuo laccio

Avea temenza. Ed or mi dava Iddio

Imperiale dignità, grandezza

E trono e serto di regnante. Il dono

Accettai sì da chi del mondo è Sire,

Conoscitor d'ogni celata cosa

E d’ogni aperta; e l’ebbi per decreto

D'Hormùzd regnante, che quel serto avea

Del genitor qual nobile retaggio,

L'ebbi dai saggi e dal primo signore

De’ sacerdoti, dai magnati illustri

E da’ prenci ch’esperti d'ogni cosa

Son di quaggiù. Per quella fede ancora

Che già recò di paradiso in terra

Zerdùsht, antico savio (allor ch’ei diede

A re Lobràspe il messaggio di Dio,

Ed ei l’accolse, indi a Gushtàspe il diede),

Ogni vivente di quaggiù, corruccio

Dato egli m'abbia o fulgidi tesori

Toccati io n’abbia, tutti insiem di sotto

Sono al mio schermo, ei sian nemici o amici.

Nelle città che fùr deserte attorno

Per l'ampia terra, dove stan celati

Poverelli e mendichi, io que’ mendichi,

Vadano erranti o in stabile dimora

Abbian soggiorno, farò ricchi. Intanto

Ogni loco di spine ricoperto

Qual paradiso renderò, di genti,

Di quadrupedi pieno anche farollo,

Nè lascierò che merto di qualcuno


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— 31 —

Celato resti, il compensando, in fino

Che da tal vita ad altra verrem noi,

E porremo in bilancia il core altrui

E peseremlo e trarrem forza ancora

Dal nostro braccio. Quando Hormùzd regnava

In sua giustizia, lieti eran per lui

La terra e il Fato. Il figlio suo, nè dubbio

È in ciò, dal genitore ebbesi il trono,

Ebbesi il cinto e la corona e s'ebbe

Sorte propizia. Ma, deh! tu colpevole

E ingannator che pria cercasti guerra

Contro a principe Hormùzd, non fu alcun male

Se non pel cenno tuo, per le tue frodi,

Pei tradimenti e per gl’inganni! Intanto,

Se il vuol l’Eterno, vendicando il prence

Io farò sì che questo sol che ha luce,

S'intenebri per te. Di chi frattanto

È degna cosa la corona? e s'io

Non ne son degno, chi n’è adunque degno ?
Behràm gli disse: O ardimentoso, quegli

N'è degno sì che ti togliea cotesta .

Regale dignità. Quando nascea

Di Babèk da la figlia Ardeshir prode,

Nel tempo che tumulto era e scompiglio

Fra gli Ashkàni monarchi, a morte forse

Che lo stesso Ardeshir non trasse allora

Il regnante Ardevàn, forte e gagliardo

Si fece ei sì, che vennegli il regale

Trono in poter? Ma più d’assai di cinque-

cento gli anni passàr, sì che omai caggiono

Corona e trono de’ Sassàni antichi

In un gelido obblio, chè questo è il giorno

Per noi del trono e della ricovrata

Nostra corona, e nostra impresa ardita

Congiunta ‘vassi a fortuna che vince.

Ratto che vedrem noi più da vicino


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_ 32 —

La fronte tua, la tua fortuna e il serto

E il trono e l'ampio stuol de’ tuoi guerrieri,

Qual leon che disciolto la feroce

Indole spiega, struggerò cotesto

Cadente impero de’ Sassàni. Il nome

Cancellarne vogl’io da’ libri nostri,

Calpestarne col piè l’altero capo

E la corona, chè real grandezza

Veracemente addicesi agli Ashkàni,

Se pur giusto m'ascolta un uom ch'è saggio.
O stolto che ami le contese, a lui

Diè risposta Khusrèv, se dalla stirpe

De’ Kay illustri vuol migrar la regia

Potestà, chi sei tu fra questa turba ?

Abitanti di Rey che sono mai

Nell’intimo del cor? Due volti egli hanno,

E qual mai senso hanno d'umani? E in pria

Picciolo stuol d’armigeri guerrieri

Uscia da Rey, qual si congiunse poi

Alle falangi d’Iskendèr. Si cinsero

L’armi coi Greci, ed improvvisi e audaci

Il trono si carpîr de’ Kay regnanti.

Ma del mondo al Signor ciò non piacea,

E sì grave iattura incolse a loro

Per lor medesmi, e allor sovra la fronte

D'’Ardeshir grande pose il diadema

De' Kay antichi il Giudice supremo

Che aita i forti. Egli era degno assai

De' Kay del serto, ben che privo ei fosse

E di tesori e di monete. Ed ora

Passaron l’opre di que’ prenci illustri,

E in aura lieve tutti si conversero

I nostri detti. Quando Iddio trascelse

Ardeshir per suo grado imperiale,

Altro non vide in lui che indole eletta

Quel Giudice verace. Or, chi è più degno


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_ 33 —

Di grado signoril? chi mai di questo

Instabil mondo è principe sovrano?

Sol per giustizia e verità mi rendi

La tua risposta, prenditi la via

Del ver, menzogne non cercando mai.
Come ascoltò parole di tal guisa

Behràm ardito, alla risposta pose

Altro principio. Oh sì! Behràm guerriero

Così disse a Khusrèv: Quello son io

Che de’ Kay svellerà da l'imo fondo

L'empia radice. — E re Khusrèv gli disse:
Questa sentenza che d'antichi tempi

Un saggio disse, udisti tu? « Non vuolsi

In alcun tempo mai l'armi concedere

Della grandezza ad uom ch'è abietto e ignaro

E la sua via smarrì. Dolce ei si mostra

Quando da te quell’armi prende, e allora

Che le richiedi, si sgomenta e turba ».

Il padre mio, già sospettoso e rapido

Nell’opre sue, discernere non seppe

Tuo secreto pensier dal manifesto,

Ei, che molti s'avea piccioli e grandi

Uomini seco; eppur l’armi de' Kay

Diede agli abietti. Allor che riaverle

Ei volle, in mano sua non ritornaro,

Chè chi le avea per ciò che avea, mostravasi

Da ebbrezza vinto. Or che dicea quel saggio

Dal soave parlar? « Se tu, dicea,

Ponì a seder chi non ha fondamento,

Al fin dell’opra ti verrà dolore

E col dolor rancura; e tu dattorno

Degl'ingrati alla porta oh! non andare! ».

Ma ben tu fosti impetiloso e ardito |

E d'animo superbo, e però vennero

Opere triste da tua rea natura

Veracemente. Duce di gagliardi




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— 34 —

Ti fece Hormùzd, ma tu prence ti festi
Nella terra de’ Kay, sì che per questo
Regal seggio d'argento e pel suggello
-Imperial la mente tua si fece

Ebbra d’un tratto e tu dalla via dritta
Andasti lungi. Ed or tuo proprio nome
Di Ciubìneh per te in Behràm si volse,
E intanto in laccio a te voltasi ancora
Questo trono d'argento. Ecco! per questo
Seggio regal più della luna in alto

Salir vuoi, chè di forti eri tu il duce,
Or monarca esser vuoi. Queste parole
L’uom ch'è saggio, non dice, ed io mi penso
Che a tristo Devo tu congiunto sii.

O malvagio, Behràm gli rispondea,
Davver! che soli esti rabbuffi tuoi
Bene ti stanno! E tu di Dio la legge
Mai non osservi e indegnamente cerchi
Questo seggio regal. Negli occhi bei
D'un re del mondo arroventato ferro
Conficchi; oh! come si potria cotesta
Cosa celar? Tutti gli amici intanto
Ti son nemici, e teco stan coi detti,
Ma del cor son con me. Di Cina il sire
In tale impresa m'è alleato, e amica
M'è ogni gente guerriera in Cina accolta
Ed in Irania, chè abbiam nostro dritto
E suggello regal, spada e possanza,

Nè però ci verrà da chi n’è avverso
Iattura alcuna. Or io l’imperiale
Grandezza a Rey trasporterò di Persia,
Nè lascierò che d'ora in poi rimanga
Nome de’ Kay. Solleverò giustizia

Per l'ampia terra ed il costume prisco
Ch'è di MilAd, rinnoverò; ch'io sono
D’Arìsh del seme glorioso, e allora


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— 35 —

Che reco assalti, una vampa rubesta
Veramente son io. Son io nipote

Di principe Gurghin, son io quel rapido
Di Berzin fuoco veemente. Un giorno,
Ebbe principe Sàveh un tal consiglio

In iranico suol, per ch'egli il trono

E la corona ed il regal suggello

Più non lasciasse incolumi e spianasse
Al tristo suol del Fuoco sacro i templi,
Del dì primo dell’anno anche togliendo
E di Sadéh la festa. Erano servi

Tutti gl’Irani allor per questi lochi,

Fin ch'io l’armi cingea. Con la saetta
Che fuor dall'arco via scagliai, cessava
Il dolce tempo a Sàveh re. Ma il novero
Se tu non sai di quelli tracotanti
Ch'erangli a lato, va, quattro fiate
Centomila ne conta e mille ancora

E dugento i belligeri elefanti
Annoverando poni. Oh! tu diresti

Che spazio in terra non rimane! Eppure,
Quell'esercito grande si prendea

Ratto la fuga, ed io stavagli a tergo
Alto gridando qual leone ardito.

Sappi tu adunque che nessuno in terra,
Quando pregi ei non ha, da folle e insano
Cerca il seggio dei re. Spira fragranza
Qual di corona la celata mia

E da questo pugnal verrammi un trono
Di bianco avorio. Che se in guerra scende
Teco un insetto esil, dal trono tuo
Caderne ei ti farà supino al suolo.

O sciagurato, re Khusrèv gli disse,
Perchè dunque là in Rey non ti ricordi
Di Gurghin prence ? Amica già non gli era
La fortuna quaggiù; non trono avea,


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Non grandezza o poter. Ma niuno in pria
Sapea tuo nome per la terra, e vile

Eri tu nel tuo covo. Allor che venne
Mihràn-Sitàd ricco di pregi e indizio

Al re del mondo diè di te, dal negro
Fango ei ti trasse, ed or dagli occhi tuoi
Memoria sparve di quel di. Ti diede
Tesori il prence e armati ancora ed armi
E quel vessillo, come luna fulgido,

Di Rùstem valoroso. Oh! già non era
Desiderio di Dio che il suol d’Irania
Turania gente che venìa di Cina,
Potesse devastar, sì ch’Egli fue

Contro quelli, in battaglia, a te alleato,
Onde poi si levò la tua celata
Superbamente a rasentar le nubi

Alte del ciel. Così, poi che volea

Quel Reggitor de le rotanti sfere

Che desio del signor d’Irania bella.
Compiuto fosse, tu a-te stesso apponi
Cotesto merto, tu che non vedesti
Grandezza mai, non buono stato. Intanto,
Se questo regno dalla stirpe eletta
Migrar debbe de' Kay, perchè dell'armi
Così ti cingi? Un Sikendèr fa d’uopo
Quaggiù nel mondo a intenebrar fortuna
Del re dei re! Ma tu, con questo grifo
Di Devo e tal color di trista polvere,
Possa quaggiù non rimaner che in loco
E basso e vil! Fu sol per l’opre tue,

Per tuo smarrir la tua diritta strada,
Che d'’Irania al signor fosco divenne

Il chiaro giorno. In su le dramme ancora
Scrivesti il nome mio, così cercando
Farmi sparir da questa terra; al male
Materia hai tu per l'ampia terra e in grado



<pb n="8.37"/>
-— 37 —

Peggior sei tu di tal che la sua via
Infelice perdè. Quel sangue poi

Che andò versato per la terra, tutto

Su te s'aggrava, nè tu mai ne’ sonni,

La notte oscura, il troverai, ma cercalo
Alla luce del sol nel giorno chiaro!

O infelice ed ingiusto! i giorni tuoi

Non menar con menzogne e stoltamente
Non far danno a te stesso. Al tuo dolore
Allor ti rimarrai con l’opre triste

Della ingiustizia. Fa pensier che almeno
Tu gratifichi a Dio, prendi costume

Di senno e verità, chè questa vita

Per te passa e per me, conta il destino
Il nostro respirar. Chi afferma e dice
Miglior di verità restar menzogna,

Poi che a menzogna già inclinasti il core?
Ma se tu cedi al voler mio, t'avrai

Ciò che più brami, parte avrai di questo
Ampio mio regno e qui sarai felice

In terra, forte di persona e lieto,

Lungi da mal che il tuo nemico ordisce.
Che se un dì migrerai da questa nostra
Dimora breve, non avrai rancura
Nell’ora del partir, nè far degg'io

Cosa maggior, cosa minor di quanto

Del Zendavesta su le carte dice
Zerdùusht profeta: « Allor che da la santa
Fede di Dio volgesi a dietro alcuno

E non have di Dio timor nel core,
Porger consigli a lui per tutto un anno
Vuolsi con cura, e se il consiglio tuo
Giovevole non gli è, del re per cenno
D’uopo è scannarlo, gittar sulla via

La colpevole spoglia. E se pensieri
Nutre malvagi contro al re del mondo,


<pb n="8.38"/>
— 38 —

Ratto e all'istante trucidarlo è d'uopo ».
Davver! davver! che spargeranno il tuo
Sangue pur anco, e ciò richiede e vuole
La fortuna tua rca! Così tua vita

Bella intanto non è; se tu morrai,
Soggiorno avrai nel fuoco ardente. S'anche
Di questa foggia rimarrai qui a lungo,
Ribelle al tuo signor, ribelle a quella

Di Dio giustizia, pentimento un giorno

Sì ti verrà de l’opre tue, dei detti

Non belli inver, di tuo costume. Un egro
Veramente sei tu, sono i consigli
Rimedio al tuo malor, sì ch'io m'adopro
Perchè tu sano ti ritorni. Allora

Che avranno signoria sovra il tuo core
Cupidigia ed invidia, una parola

Tu dimmi, ed io ben altro alle tue cure
Un medico addurrò. Medico tuo

È il mio consiglio ed è prudenza il balsamo,
Qual forse ti potrà scacciar dal core
Fiero desio della corona. In quella
Vittoria tua ti festi un uom, pel reo
Pensiero d’un tesor ti festi poi
Tracotante e superbo. Udisti ancora

Che irriverente era Dahàk, il mondo
Per Devi e maghi di sgomento pieno;
Ma quando sazio fu d'angoscia il core

A" prenci in terra, anche sai tu qual fece
Di lui governo re Fredùn illustre

E fortunato. Ma i tuoi prodi in armi
Servi son miei veracemente, in morte

E in vita ei son per me. Picciola parte
S'ebbero di splendor per te soltanto,

E però da giustizia in questa guisa

La fronte rivolgean. Ma quando aperti
Farò i tesori miei, pieno di gaudio


<pb n="8.39"/>
— 39 —

Il cor farò de' valorosi, e alcuno
Di coteste tue schiere a te d'accanto
Non rimarrà, chè nome tu non hai,
Non dignità, non cosa alcuna. Allora
Che di re Sàveh ottenesti vittoria,
Quell’esercito tuo fermossi in questa
Opinion che non vedesse mai
La sconfitta di sè, da che ricolmi,
Ebbri eran tutti per l’accolta preda.
Ma già non vuolsi che per mano mia
Cotesti prodi che non han timore,
Non sgomento nel cor, vadano a morte,
Chè non vogl’io che questa irania terra
Orba rimanga di cotesto esercito
Grande e pugnace, di cotestì eroi
Valorosi ed illustri, alta iattura
Toccando sì di mia grandezza al trono.
Ma tu dimmi chi mai regnava in terra
D’Arìsh al tempo, ove cessar pur voglia,
Per me, contrasto lungo di parole.
Behràm gli disse: Era a quel tempo sire
Minocihr con esercito e corona.
Khusréèv dissegli allor: Deh! tu malnato,
Poi che sai che del mondo era sovrano
Re Minocìhr, non sai però che servo
Eragli Arìsh, chinata in giù fronte
A cenno ed a voler di tal signore.
Quando poi re Khusrèv, d'una fatale
Vendetta esecutor, si avea per servo
Un Rùstem valoroso, ecco! potea
Prender la signoria dell’ampia terra
Rùstem guerriero e prendersi costume
Di regnanti sul trono. Ei però sempre
L'antica legge in osservar sì tenne
E al regal soglio non rivolse mai
Avido gli occhi. Perchè adunque niuna


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— 40 —

Inchiesta mi fai tu, nè, qual di prence,
Favelli di Khusrèv? Tu sei brutale
Ceffo di terra, tristo Devo, quale

È Ahriman veramente, e reo desio
Ti pone in cor de’ principi d'Irania
Con la corona l'alto seggio. — Disse
Behràm a lui: Per la tua giusta via
Della semenza di Sasàn tu sei,

O malnato; e Sasàn era pastore

E figlio di pastor, nè gli assegnava
Primo Babèk la pastorizia sua.

Disse Khusrèv: Superbo e tracotante,
Tu malvagio, non sei de la semenza
De' Sassàni però. Le tue parole
Menzogne sono veramente, e false
Parole dir, non è virtù. D’abietta
Stirpe tu sei, d’infausti segni ancora.
Non giugnesti a carpir tuo scarso pane
Per la semenza di Sasàn? — Rispose
Behràm allora: Di Sasàn pel mondo
Celar non puossi omai la pastorizia.

Dàra quando morì, Khusrèv gli disse,
Già non potè di sua grandezza il serto
A Sasàn aflidar. Ma se fortuna
Mancavagli, restava il natal suo
Inclito e regio, nè sen va giustizia
Per ingiusto parlar. Tu forse adunque,
Con tal senno e consiglio e dignitate,
Il seggio imperial cercando vai?

V. Consigli di Gordieh.

(Eà. Calc. p. 1883-1888).

Disse e sorrise e si voltò da lui
E sì diresse al campo suo. Ma intanto


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— 41 —

Eran pur là que’ tre Turani arditi,
Seme del re di Cina, avidi in guisa
D'agresti lupi. Detto avean cotesti
A Behràm cavalier: Della battaglia
Nel fatal giorno, per desio di gloria,
O viva o spenta la regal persona
Dell'esercito innanzi a te addurremo.
Or, di cotesti un cavalier che impuro,
Audace, iroso, e da timor disciolto
Era, avventossi di pugnar bramoso,
Cruccioso in volto, con un laggio al cubito
Con suoi nodi sessanta. Allor ch’ei giunse
Più assai vicino al candido cavallo
Di Khusréèv, dirizzandosi a quel serto
D'inclito pregio, via scagliò suo laccio
Più volte attorto e caddero in que’ nodi
La fronte e il serto dell’iranio prence.
Ma trasse Gustehèm di spada un colpo
Al lacciò sì, che nessun danno al capo
Venne del sire, e Bendùy valoroso
Tese all'arco la corda e all’aer sereno
Furò la luce con quel dardo. Contro
Al turanio guerrier quella fatale
Freccia di legno ben compatto ei trasse,
E colui che cercavasi battaglia,
Indietreggiò da lui. Behràm allora
Così disse al turanio infido e reo:
Albergo tuo l’oscura terra sola
Esser ti possa! Oh! chi ti disse: « Tenta
Col re un assalto? » Forse non vedesti
Ch'io stetti in piè dinanzi a lui? — Tornava
Indi al suo campo, e l’anima s'avea
Piena di doglia e la persona attrita.
La sirocchia che udì che si tornava
Per quel sentiero il fratel suo scendendo
Da quel campo d’armati, il diadema


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— 42 —

Inclito e bello via gittò, recavale
L'ancella il velo, ed ella al fratel suo
Venne correndo, d’un acerbo duolo
Al cor trafitta e l’alma fosca. A lui
Questi detti ella volse: Inclito duce
Che assalti agogni, dimmi tu in che guisa
A re Khusrèv ne andasti. E s'egli è iroso
E impetiioso per la verde etade,
Non rintuzzar valevole consiglio
Che alla pace ti mena. — Alla sirocchia
Behràm guerrier così rispose allora:
Fra i regnanti colui contar non vuolsi.
Ei non è battaglier, non cavaliero,
Non donator, non splendido, non saggio
Nella sua mente. Di natali illustri
Migliore è la virtù; regal persona
Ricca di pregi e di virtù si vuole!
Dissegli allor la suora sapiente:
O impetiloso, o prence che soverchio
Ami tua gloria, che dirò se niuna
Parola ascolti e l’ira tua sol meni
E l’ingegno perverso? A ciò che disse
L'uom facondo di Balkh, poni la mente.
« Parlar verace, ei disse, amaro torna,
Allor che tuo difetto alcun ti dice
Ed ogni ver fuor trae da loco ascoso ».
Or tu di disertar la terra tua
Non far consiglio, poi che già toccasti
La tua parte quaggiù. Tal, che cospicua
Parte s'avea di sapienza un giorno,
Acconcia storia in ciò dicea. « Già fue
Un giumento, ei narrò, che l’alte corna
Volea de’ tauri, e si perdè d'un tratto
Gli orecchi suoi da questa parte e quella ».
Deh! non cercarti per la terra attorno
Il biasmo tuo, chè non fu mai regnante


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— 43 —

Di tua famiglia alcun! Che se non fosse
In mezzo qui tal giovinetto sire,

Fosca l'anima mia già non sarebbe

Per acerbo dolor. Ma vive il padre

E incolume si sta suo regal soglio,

E tu innanzi ti fermi ai due nel mezzo
Ritto sui piè. Non so qual di cotesta
Impresa il fin sarà, sì che di pianto

In ogni notte son questi occhi miei

E pienì e gonfi. Ma tu cerchi solo

E biasimo e dolor, fiutando vai
Attossicato fior con mente insana.

E allor che si dirà: « Trista la fama

È di Ciubìneh, biasimo del nome

Or si fa di Behràm! », ne avrà disdegno
Iddio pur anco e in carcere d'inferno
L'anima tua sarà. Deh! fratel mio,

Non dura eterna per alcun la vita;
Nulla vi dura fuor d'un casto nome!
Vedi tu se qualcun per l'ampia terra
Te ricercò, se non fu Hormùzd regnante;
Ma quando in poter tuo sen venne il trono
Di Sàveh re con quella suppellettile,
Cingesti un serto, e quando per lui solo
Ti festi illustre per la terra, il trono
Del re dei re cercar volesti. Tutte

Le cose belle tu da Dio conosci,

Contro a costui ch'è prence incoronato,
Animo ingrato non mostrar. Per queste
Battaglie che facevi, oltracotante

Non mostrarti così; tu fosti saggio,

Or non essere altero. In cor ti festi
Amico un Devo e contro a Dio colpevole
Anche se’ fatto. Allor ch’ebbe disdegno
Principe Hormùzd e s’adirò pei detti
D'Ain-Gashàspe malvagio, era tuo ufficio


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— 44 —

Pazienza mostrar, chè di contese

Tempo quello non fu per tal ch’è servo.
E poichè al tuo signor grave sventura
Venne improvvisa, e il figlio suo discese
Da Bèrda a ricercar la sua vendetta,

Al novello signor tu andar dovevi
Subitamente e a suo desìo conforme
Nuovo seggio apprestargli. Il giovinetto
Nulla operato avria fuor che conforme
Al tuo consiglio, nè la ria sventura
Veduto avrian questi occhi tuoi. Tu fosti
Di persona aitante e lieto e sorte

Di vittoria ottenesti, oh! perchè adunque
Agognando rivolgi alla corona -

Ed al trono il pensier? Tu sai che ancora
Della semenza di Ardeshìr superstiti

Son prenci assai, vegliardi e giovinetti,
Quali han tesori e innumerevol schiera
Di prodi in armi. Or chi sarà di questi
Che te in Irania elegga re? Se alcuno, |
Se alcun potea per gente e per tesori
In Irania serbar grado reale,

Altri non era fuor di quel di Cina
Prence e signor, Sàveh gagliardo, quale
In iranico suol le genti sue

Tutte menava. Contro a lui ti pose
Iddio santo e verace, e dall'Irania

E dalle case de’ suoi vecchi eroi

Fuggiì ’1 mal ch'egli fea. Da che l'Eterno
Creò la terra e sopra lei distese
Quest'ampio ciel sublime, in terra mai,
Qual era Sam, fu visto un cavaliero,
Tal che di contro a lui muover le piante
Non ardiano i leoni anche feroci.
Quando, pel fato, volse all’opre ingiuste
Nèvdher monarca, rovesciando legge



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— 45 —

Del padre suo, d’Irania quando i prenci

Sam cercàr disiosi e il regal seggio

Sì gli apprestaro di turchesi adorno,

A que' prenci egli disse: « Oh! mai non sia

Che agogni al serto l'anima d'un duce

Di valorosi! È il trono mio la polve

Che Minocìhr calpesta, e m'è corona

L'umil grado del trono in che si asside

Nèvdher illustre ». Or io conosco e veggo

Che più forte di te Sam cavaliero

Fu veramente, nè cercò reale

Grado giammai, ch'egli non fu di rea

Natura o ingegno. Non Destàn, non certo

Rùstem, eroe fortissimo, in quel popolo

Il regno disiò. Diss'io cotesto,

O fratel mio, chè non ottien regale

Seggio se non colui che sorte ha lieta

E nascimento nobile e gagliarda

La mano e maestà, saggio si mostra

E d'anima serena e di giustizia

Pieno la mente. E già non so qual cosa

Toccar ti voglia, chè fuggissi omai

Da cotesto tuo cor l'antico senno!
Behràm le disse: È verità cotesta,

E in testimonio è Iddio santo e verace

A questa verità, ma troppo innanzi

Già le cose n’andàr, questo mio core

E questa mente di desio son egri.

O innanzi andrò vincendo, o il capo mio

Darò alla morte, chè la morte un elmo

Pur d'acciaio penétra. E s'io trafitto

Del nuovo re cadrò per mano, a lui

Il novello suo trono i prodi miei

Torranno a forza e un altro su quel trono

Vorranno assiso. É fosco il cor de’ forti

Per pensier di vendetta incontro a lui.


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— 46 —

Ma di rincontro il giovinetto sire,
Poi che lieto passò di là dal ponte
Sul Nahrevàn, tutti invitava i prenci
Dell'esercito suo, tutti poneali
Orrevolmente accanto al suo regale
Trono a seder. Così dicea dipoi :

Prenci d’eletto cor, del mondo esperti,
Duci che assai su questa terra opraste,
Questo è principio al regno mio che solo
Far prove io deggia e sperimenti. Alcuno
Essermi grato anche non può, se bene
Del bene io sia conoscitor, nè a voi
Da me ancor venne o beneficio o grazia,
Quando già vostra cura e vostro affanno
Augumentar per me si dee. Serviste
Gli avi miei e vedeste per la terra
Scompigli assai, cose vedeste amare
Ben molte volte. Ed ora un mio secreto
Vo' aprirvi, ma terronne ascoso il detto
All’esercito mio, chè non è d’uopo
Dir di cotesto agli altri Iranì tutti,

Per che il dir nostro spargano, all’intorno
Il divulgando. Per cotesto, andria
Sfatto un disegno mio, ratto che alcuno
All’esercito accolto il disvelasse.

Io, questa nolte, di balzar pensai
Correndo in armi e di menar le schiere
In fiera giostra. Chè Behràm vid’io

A parlamento. È cavalier colui
Incitator di palafreni, destro

In ogn'opera sua. Non però vidi

Nella sua mente di prudenza segno,
Non nella mente di quel suo famoso ‘
Esercito guerriero. Ei non favella

Che di sue pugne con re Sàveh, tutta
Per rinnovar quella fortuna antica



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— 47 —

Nel pensiero d’altrui. Me quale infante
Che non ha senno estima, e con la spada
E con la clava d'’atterrirmi tenta,

Nè sa però che in questa notte assalto
Repentino farògli e ch'io dal core,

In questa notte, caccerò paura.

Che se alleati in questo assalto mio
Voi mi sarete, quando l'atra notte,
Senza ch’io indugi, si farà più oscura,
Quando la notte tenebrosa il volto
Coprirà d'un color qual d’ambra grigia
Le brune trecce disciogliendo attorno,
Voi con l'armi di guerra alto salite
Sui palafreni, strette in pria le clave
E le spade lucenti in vostra mano.

Come tornossi alla regal sua chiostra
Prence Khusrèv, tutto sgombrò quel loco
Da ogni più estrano e fe’ cortese invito
A Gustehèmme ed a Bendùy, a quello
Eroe Gherdùy di molte cose esperto,

E favellò di suo notturno assalto
Apertamente, per veder se ancora
Volean essergli amici ed alleati.

Dissegli allora Gustehèm: Deh! sire,
Perchè tanto securo per cotesta
Vicina pugna? Con le tue falangi
Notturno assalto farai tu; deh! forse
Per cacciarne dal cor quell’amor tuo
Interamente ! Ma le tue falangi
Son già congiunte del nemico all’oste,
Son con quelli ad un cor, son veramente
A un sol corpo con essi. È da una parte
Il nipote e dall'altra è l’avo suo,

Come potria nella lor mente un odio
Scambievole covar? Da questa parte
Sta il fratello e da l’altra il padre suo,


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— 48 —

E l'uno all'altro fermamente ei sono
Congiunti a un patto. Contro al padre suo
Come pugnar può il figlio? Oh! del nemico
Non vellicar desìo con l’inconsulto
Disegno; nè dovéi queste parole
Ai prodi ricordar. Quel tuo disegno,
Poi che l'hai detto, rovinasti intanto.
Così disse Gherdùy: Passò di questo
Propizia occasion; poichè passava,
Inane vento restò in pugno. Intanto,
Nostro antico poter, la nostra brama
E il tesoro e l’esercito e la mente
De' nostri prodi giovinetti volgonsi
Dal diritto sentier. Ma tu, signore,
In questo campo non restar la notte,
Non aspettar che frughi altri pe’ tuoi
Ampi tesori e per le accolte squadre,
Chè in me dubbio non è che di cotesto
Nostro secreto e di tal nostro ascoso
Apparecchiarci non sia giunto un cenno
All’esercito avverso, e qui non vuolsi
Che te stesso abbandoni al tuo nemico.
Khusrèv come l’'udì, piacquegli assai
E giovevole al cor gli fu consiglio
Di questo savio. Fra que' prenci suoi
Alquanti ei scelse ch'erangli fedeli
E ne l’avversa e nell'amica sorte,
Gustehèm qual leon, Kharrad, rampollo
Di Berzin, e Shapùr e quell’ardente
Endiàn e Bendùy, Kharràd pur anco,
Luce de’ prodi, e quel, d'avverse genti
Distruggitor, Nestùh, d'ogni gagliardo
Sterminator, dopo cotesti ancora
Ciascun che gli era d’uopo, a' suoi tesori,
All’esercito suo, alla persona
Fidi custodi. E vennero ad un loco


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— 49 —

'Ve si mostrava un collicello, e dove,

D'una battaglia al levarsi improvviso,

Aita lor sorgea. D'erbe virenti

Eravi pieno un collicello, luogo

A feste acconcio, e quivi da lontano

Prence Khusrèv guardar potea l’esercito.
Ma di rincontro in sella si tenea

Behràm gagliardo assiso, e intorno a lui

S'erano accolti i principi di sua

Oste guerriera e i fantaccini. Il duce

A’ prenci dimandò: Forse che a voi

Annunzio venne de' congiunti vostri?

Mandi ciascun di voi che ha un suo congiunto,

Col quale ei sia d’ una favella sola

E d’un sol core e d'una fè. Se quelli

A noi verranno e obbediranno a noi

In ogni cenno e l'anima porranno

In testimonio a’ patti lor, col mio

Tesoro ei diverran possenti e ricchi,

E come siete voi, tutti ei saranno

Principi illustri. D'Ardebìl, di Bèrda

‘E d'Armeni codardi una falange

Di cavalieri o due sì rimarranno

Appo Khusrèv. Ma non di lor sgomento

Nell'assalto ci colga; oh! che son mai

. Di Bèrda i prodi fuor che una manata

Di polve abietta? — E intesero gli eroi

Queste parole che Behràm belligero

Lor proponea, sì che un ardito ei scelsero

Dalle falangi, un uom facondo e savio

E memore davver. Col core assorto

Nel secreto messaggio, ecco! sen venne

Un valoroso e camminò la notte

Lenta nell’avanzar. Ciò ch'egli intese

Da' prenci di Behràm, quivi ei ridisse

Nella presenza d’esti grandi illustri,




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— 50 —

D'esti gagliardi, e cotal dagli Irani
Risposta acconcia udì: Fin che non muovasi
Dell’esercito intero una battaglia,

Da re Khusrèv non volgeremci noi

A dietro mai. Temiam che nostra impresa
Lunga si faccia. Ma sicuri intanto

Al vostro vallo deh! non siate voi,

Chè re Khusrèv con le falangi sue
Notturno assalto vi darà. — Quel messo,
Come ascoltava tal risposta, ratto

Qual è tempesta ritornossi al campo

Del suo duce, e ridisse le già udite

Cose in secreto. Non aperto ei disse.

V. Assalto notturno di Behràm.

(Ed. Calc. p, 1888-1890).

Poi che intese Behràm ch'eragli amica
L'oste d’Irania, per quel vasto campo
Destaron fuochi e in ogni parte attorno
Acceser lampe. Ma Behràm guerriero,
Pari a leon, da l’esercito suo
Scelse drappello atto a pigliar la terra,
Ardimentoso e forte. Allor che il novero
Ne fean con lui gli scribi intenti, esercito
Era quel sì di seimila guerrieri
Dì spade armati, ed egli disse allora
A suoi gagliardi: Ratto che di timpani
Fragor si leverà, quando s'intendono
Galli intorno cantar, levate voi
Feroce un urlo e date dentro e ai duci
Serto di sangue ricingete al capo.

Rapidamente, al cenno dell'eroe,
L'esercito n’andava e i tre Turani,


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— 51 —

Alti del capo e ardimentosi, innanzi
N’erano i ducì. E vennero a quel campo
Dell’iranio signor, vennero intesi

A inganni e a frodi, con desio nell’alma
Di lor vendetta. Si levò fragore

Di clave e mazze e di cadenti spade,
Parve di ferro il suol, nubi di polvere
Agglomeràrsi in ciel. Dicea ciascuno:

Ov’'è Khusrèv? chè oggi vittoria è nostra
Con la giornata! — Ma Khusrèv su l'alto
Era del colle in suo dolor, con gli occhi
Gonfi di pianto e pallide le gote.

E fu cotesto fin che il raggio primo
Dell’alba al monte si levò; l’esercito
. Da tanti colpi ebbe stanchezza. Allora
Che sparve il lembo de la notte oscura,
Tutto vide Khusrèv quell’ampio vallo
Pieno d'uccisi e di feriti, e allora
A' suoi guerrieri così disse: Voi
Datemi aita e il mio desio su questi
Nemici miei per voi si compia! Iddio,

Che sempre vince, è mio sostegno, in guerra
Ei m'è alleato, ed opra nostra intanto
Dènno esser colpi di lucenti spade.

Così venne correndo incontro a quei
Tre di Turania. — Oh quai Turani! Egli erano
Forti tre lupi e ardimentosi; ed uno
Corsegli incontro e sì "1 raggiunse e trasse
Ratto dal fianco il brando suo lucente,
Damaschinato. Ei disiava at sire
Fatal colpo scagliar, ma l'ampia targa
Il sire cavalier portossi al capo
E di sotto a la targa un fiero colpo
Del ferro avvelenato e rilucente
Scagliò al turanio e il fe’ cader dall'alto
A capo in giù. Gridava allor: Deh! a voi,




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— 52 —

Illustri in guerra, d’uopo è sì qui ancora
Alcun tempo indugiar! — Ma le sue genti
La fronte gli volgean tutte d'un moto,
Vilmente abbandonando il valoroso!

A Gustehèmme allora ed a Bendùy
Volse tai detti: Or io di ciò ben tristo
Ho nel core un pensier. Non ho progenie
Giunta a matura età che degna sia
Di regal serto, nè ho congiunti, e s’io
Cado trafitto nella pugna, sire
Non rimane alla terra. — Oh! nobil prence,
Bendùy gli rispondea, dell’amor tuo
Senta necessità quest'ampia terra!

Poi che tua gente se n’andò, restarti
Qui non déi tu, chè un alleato o amico
In questo tempo tu non hai. — Deh! vanne,
Disse allora a Gherdùy l’iranio sire,
Con Tokhàr va di qui rapido in corsa,
E i recinti e i broccati ed i tesori

E la corona mia, i paggi tutti

E i cofani ed il trono in bianco avorio
Con mille cavalier fra quanti meco

Qui rimanean, con ciò che troverai

Per questo campo, a questo loco adduci.

I prenci allor quell'ampia suppellettile
Raccogliean co’ tesori e in carreggiarla
Molesta e grave sopportàr fatica.

Ma, in quell’'istante, rapido vessillo
Con la figura d'un dragon mostravasi,

E il mondo intenebrò. Dietro al vessillo
Venia Beliràm guerriero, ei che la chiara
Luce togliea ne le battaglie sue

A questa terra. S'incontràr nel campo

E Behràm e Khusrèv, due valorosi

Arditi e forti, due leoni accesi

In lor furor. Come elefanti in giostra


<pb n="8.53"/>
— 53 —
Quivi attizzando la scambievol’ira,
Colpi tremendi si sferràr l'un l’altro
Sul capo, e qual leon fero ed agreste
Behràm divenne, ma quell’armi sue
Nulla operàr sul suo nemico. In questa
Guisa n’andava la tenzon feroce,
Fin che discese dall’eterea volta
Quest’almo sol. Davver! che l’aspro assalto
Di là ne andava da misura! Intanto,
Dinanzi a re Khusrèv Tokhàr venia,
Qual tratto avea sul ponte la regale
Suppellettile insiem co’ suoi tesori.
Khusrèv che intese, a Gustehèm si volse
E disse: Non è alcun qui presso a noi
In questo assalto, e dieci qui siam noi
E grande è l'oste de’ nemici e innanzi
Ardimentoso è un capitano. Ancora
Che mi sostenga maestà regale,
Se amici qui non son, la fronte nostra
A dietro volgerem. Cosa migliore
Della battaglia ad opportuno tempo
È sì la fuga, chè son io qui solo
E non è tempo al rimaner propizio.
Così ne andava il giovinetto sire,
Egli inesperto, fino al ponte eccelso
Di Nahrevàn su la riviera. Dietro,
Con la sua mente piena di vendetta,
Col cor pien di tumulto, ecco! gli andava
Behràm guerrier rapidamente. Allora
Che re Khusrèv di ciò s'avvide, sopra
Al ponte si fermò, chiamò quel saggio,
Di cose esperto, Gustehèmme, e disse:
Deh! mi recate l'arco mio ch'è interprete
Di me fedel ne le battaglie! — Allora
L'arco sì gli apportò chi de’ tesori
Eragli guardiano (in tale ufficio



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Gli era ministro Gustehèmme), ed ei,
Eroe duce d'’eroi, l'arco si prese

E parve col fulgor dei dardi acuti

Luce togliere al ciel. Qual è di grandine
Un vasto nembo, le saette alate

Piovere ei fece, e ad ogni dardo un elmo
Forte inchiodava de’ nemici in fronte.
Rehràm leone gli era in corsa a tergo
Con un laccio alla man, con un feroce
Destrier di sotto. Ei sì, nella sua mano,
Solo un laccio stringea, ratto balzando
Dietro a prence Khusrèv. Come cotesto
Vide l’iranio, s'allegrò di tanto

Ed a’ due capi di quell’arco suo

Pose la corda e contro al palafreno

Di Behràm che venia, punta mortale

Da quell’arco vibrò. Davver! che a un tratto
L'opra cessava del destriero ardente!

Ma quel duce d'eroi rimasto a piedi

La targa prese e nella sua distretta

La mano al capo si recò. Qual turbine
Innanzi venne Yelàn-sineh allora,

Impeto fece più e più volte, e il prence
Bramoso di poter, de’ Kay progenie,

Che quale un forte l’estimava, stese
Dirittamente al palafren di lui

La man sinistra. Gli ferì d’un tratto

Il palafreno e Yelàn-sineh a piedi

Dal ponte si fuggì, balzando ratto.

Di Nahrevàn dal ponte anche tornava
L’avversa gente, e quei che giovinetto
Eravi, e quei degli anni carco; e allora
Che anche Behràm indietreggiò, quel ponte
Di Nahrevàn qual turbine disfece
Khusrèv dal fondo e salse addolorato

In Tisifuna, pien di doglia al core,


<pb n="8.55"/>


Pien di lagrime agli occhi. Egli le porte
Chiuse della città con ferree verghe,

E là si assise de’ pensieri suoi

Nel cumulo dolente. Un prence allora
Da ogni castello si chiamò, dispose
Custodi e guardie ad ogni porta intorno.

VII. Fuga di Khusrev e morte di Hormuzd.

(Ed. Calc. p. 1890-1893).

Di là, con gli occhi suoi pieni di lagrime,
Trafitto al cor, del padre suo sen venne
Alla presenza. Ma del padre allora
Che rivide la fronte, ei reverente
Fecegli omaggio e lungo tempo innanzi
Così gli stette. Disse poi: Quel prode,
Quel cavalier che tu scegliesti, o sire,

À € me sen venne come i re pur fanno
Che han regia maestà, recò un esercito
Di numero ben grande. Ogni consiglio
Che in mente a me venia, gli dissi ancora,
Ma giovevoli a lui non furon mai

Li miei consigli. Suo desio soltanto

Furon pugne ed assalti; oh! per la terra
Non vada attorno il nome suo! Si fece
Aspra battaglia contro a voler nostro,

E molti andàr da le nemiche stelle

Di tanto offesi. Ma la gente mia

Da me si volse tutta a un tratto, e detto,
Detto avrestù che niun mi vide in terra
Fuor che a caso alla via. Gridaron quelli
Behràm sovrano, dal principio il fine
Dell’opra rea non ripensando. Allora,

Ei dietro a me, qual monte che cammina,


<pb n="8.56"/>


Stuolo addusse d’armati in fino al ponte
Di Nahrevàn. Poi che di frutto priva
L'opra mia si restava, io mi fuggii,

Chè impigliar non mi volli al teso laccio
Della sventura. Ma del mal, del bene
Or io computo fèi, nè amico 8 noi

Altri ancor resta fuor che degli Aràbi
Il belligero stuol. Se il mio signore

Men fa comando, qui addurrò drappello
D'arabi cavalieri ampio e infinito.

Retto consiglio non è questo, disse
Principe Hormùzd, chè là non puoi fermarti
E sostenere. Andar colà, fatica
Sola è per te, chè non vi son tesori,
Non uomini, non armi. A te alleati
Gli Arabi prodi non fien mai, se frutto
Non han da te, non hanno offesa; ed elli,
Con doglia del tuo cor, con moltuv cruccio,
Te gitteranno al tuo nemico in mano
Per poco prezzo. Deh! ti sia sostegno
L’Eterno e teco sia splendida sorte
Che ti sorrida! Che se vuoi da questa
Terra partir veracemente, corri
D'Irania in Grecia e le parole tutte
Di questo servo che dimanda aita,

Tosto che ito sarai, ripeti innanzi

Al greco Imperator. Co' suoi tesori

Il greco Imperator ti fia sostegno,
Compirà il tuo desio sopra coteste
Falangi tue ribelli. Ove son genti

E son ricchezze, armi son anche e prodi
Atti alla pugna. Fi son della semenza
Di re Fredùn, congiunti tuoi; nell’ora
Che fia più grave la faccenda, incontro
Ei ti verranno. — Come udì, la terra
Khusrèv baciava, molte di regnanti
Benedizioni pronunciando quivi.


<pb n="8.57"/>
— 57 —

A Gherdùy, a Bendùy, a Gustehemme,
Ei disse allora: A fiero duol congiunti
Ed a travaglio qui siam noi. Deh! tosto
Apprestatevi, amici, e insiem ponete
Le nostre suppellettili, al nemico
L’iranio suolo abbandonando. — O sire,
Dissegli allora Gustehèm, non veggano
Questi occhi tuoi della sventura il danno
In alcun tempo!— Il ciel che volge ratto,
Risposegli Khusrèv, talor ci reca
Peso dell’ira sua, talvolta amore.

Questo egli disse, allor che da un torriere
Questa voce levossi: O re che amiche
Hai le stelle del cielo, in tua giustizia
Sempre verace, levasi da lungi
Oscura polve per la via, nel mezzo
All’ampia schiera è un fulgido vessillo,
Un vessil che di drago ha la figura,
Qual sollevò di Nahrevàn sul fiume
Ciubineh ardito. — Ratto che l’intese,
Balzò in arcioni a un palafren, qual fosco
Nembo di fumo, re Khusrèv. Qual rapida
Bufera in volta, ei fuori uscì correndo
E gli era a tergo quel vessillo azzurro
Del suo nemico. Egli movea, correndo,
E il braccio e il capo e l'ampio petto, e intanto
A Gustehèmme ed a Bendùy volgeasi
A riguardar, ma camminavan questi
Lenti lenti, e Khusrèv con voce calda
Così dicea gridando: O voi non degni,
Che avvenne mai se già il nemico vostro
Un de’ vostri sì fe"? Se no, cotesto
Lento venir perchè, mentr’ è vicino
Behràm guerriero a vostre terga ? — Disse
Allor Bendùy: Deh! non turbarti, o sire,
Per Behràm dentro al cor, ch'egli non vede


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_ 58 —

La nostra polve per la via lontana
Ed è lungi di qui di sue falangi
L’alta bandiera. Ma gli amici tuoi
Dicendo vanno: « In questo correr nostro
Non è giusta ragion, chè tosto al regio
Albergo salirà Ciubineh ardito
E renderà la sua corona e il trono
A prence Hormùzd. Quale un ministro suo
Egli al suo fianco sederà, nell’onda
Calerà intanto quel, che tutto ottiene,
Amo suo rapitor; poscia una epistola
Scriverà in nome del suo prence antico
Al greco Imperator: «« Cotesto schiavo,
Inetto, in fuga andò da questa terra,
Nè si vuol che quiete in greca terra
Egli ritrovi. In ogni tempo e luogo
Ch'egli in piè si drizzò, cagion di danno
E di scompiglio fu alla terra vostra.
Or voi, non tosto la frontiera ei tocchi,
L’incatenate e quel suo cor gioioso
Pieno fate d'angoscia, indi novella-
mente il mandate a questa reggia, mai,
Mai non soffrendo ch'ei si faccia grande
E prepotente » ». E te, signor, co’ tuoi
Avvinceranno in greca terra e a questa
Paterna reggia invieran piangente ».
Khusrèv, come ascoltò, si fe’ nel core
Mesto e cruccioso, e impallidîr le gote .
Alle parole di cotesti. Forse,
Forse, ei rispose, per la sorte avversa
Cosa ne incoglierà di tal ragione.
Ma lungo è il favellar, grave l'impresa,
E farem noi di Dio veracemente
Nostro sostegno. — E sospinse il cavallo
E disse ancor: Quel mal, quel ben che Iddio
Sul nostro capo già scrivea, fra poco


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— 59 —
S'avvererà, nè per pensier ch’uom faccia,
Si ritrarrà. Deh! mai non sia che tocchi
A me bisogno de’ nemici miei !
Com'ei ne andava, si partian da lui
I due perversi con la mente piena
D'un pensier di vendetta, e dalla via
All’ostello regal venian correndo,
Venian crucciosi e con la colpa in core.
Ma da la soglia come andar vicini
Al regal seggio, rapidi una corda
Strappàr da un arco ed improvvisi al collo
Del vecchio sire l’avventàr, ne appesero
La nobile persona. Ecco! sparìa
Quella corona imperiale e il seggio
Sparia con essa. Detto avresti allora
Che Hormùzd in terra mai non fu. — Cotesto
È ben costume del rotante cielo,
Ch'ei veleno talor, soave balsamo
Talor t'appresta. Se cotal natura
Egli ha, tu non cercar favor del cielo,
Chè a te cercarlo porta affanno e cura.
Poi che si volse la giornata a sera
D'Hormuzd antico e deserto rimase >
Il regal seggio e il fortunato loco,
Ratto da lungi si levò di timpani
Improvviso fragore. Impallidia
Degli omicidi quale attrita resina
La gota allora, e quel vessillo intanto
Di Behràm duce sulla via lontana
Apparve in mezzo a le falangi. I tristi,
Gustehèmme e Bendùy, rapidi allora
Da l’ostello regal preser la via
Di lor fuga e sen vennero, essi due,
Là da Khusrév. Quel principe del mondo
Come vedea que' smorti visi, ratto
S'avvide sì che di cotesti il core


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— 60 —
Alto secreto rinserrava e intese

Per qual cagion da lui, sire del mondo,
S'eran partiti. Impallidîir sue gote

Qual è del greco fien pallida rosa,

Ma il suo pensier non fece ei manifesto
A que’ due arditi. A l’esercito suo

Così disse: Deh! voi dalla regale

Via discendete, chè ne vien da presso
Falange avversa. Una più lunga via

E il deserto scegliete e da fatica

Non ritraete la persona a dietro.

VIII. Astuzia di Bendày.

(Ed. Calc. p. 1893-1897).

Tosto ch'entrava nel regale ostello
Behràm ardimentoso, ampia una schiera
Scelse bramosa di vendetta (eroi
Vibranti spade, di corazza cinti,

Eran seimila), onde su l’orme certe
N'andassero del re. Quest'ampia schiera
Illustre e forte egli affidava a quello
Di Siyavish figliuol, Behràm gagliardo.

Ma di rincontro pel deserto andava
Prence Khusrèv, la vita sua dal male
De’ rei nemici sottraendo. Andava
Fin ch'egli giunse a un monastero innanzi;
D’esso non si vedean, tanto eran alti,
Delle mura i pinnacoli. Di Dio
Chiamavano l'ostel quel loco eletto,
Loco propizio all’adorarvi Iddio,

Loco beato, e là tenean soggiorno
Antichi penitenti e sacerdoti
E un metropolitano. A un sacerdote



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— 61 —

Così disse Khusrèv: Che avete voi

Di cibo qui? — Rispose a lui l’abate :
Senza lievito un pane, o illustre in armi,

Abbiam qui con virenti erbe cresciute

Dentro a’ ruscelli. Che se questo cibo

Ti si convien, per questo pasto solo

Possa tu avere il tuo alimento! — Scese

Dal palafren rapidamente il sire

E ne scendean quanti erano con lui

Prenci a cavallo. L’inclito signore,

Con que’ due servi a lui devoti, in pugno

Per dir preghiere le verbene sacre

Si prese allora, indi sedeano insieme

Su l'arena sottil d'un color grigio

Affrettati a mangiar quello che v'era,

Povero cibo. Così disse poi

Al sacerdote re Khusrèv: Non hai,

Non hai tu vino, saggio vecchio, quale

Inclite l'orme in terra stampi? — Noi,

Disse l'abate, con datteri un vino

Facciam nel mese di Tammùz, nel tempo

Che l’aria è ardente. Ed or ne abbiam qui ancora

Un cotal poco, nitido qual’ acqua

Di rose fresche, e qual corallo al sole

Nella sua tinta rubiconda. — E intanto

Ei là recava una coppa di vino,

Tal che luce del sol sembrò velarsi

Dinanzi al suo splendor. Bevve del vino

Tre nappi re Khusrèv, bevve del vino

E del pane mangiò che d'orzo il pane

Altri suole chiamar. Ma poi che oppressa

Fu la sua mente da quel rosso vino,

Su l’arena sottile addormentossi,

Chinato in pria di Bendùy su la coscia

Il capo stanco. D'amarezza piena

Fra l’anima sua, trafitto il core.


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Poi che nel sonno ei declinava il capo,
L'archimandrita vennegli daccanto
E disse: Per la via nembo sì mostra
Di negra polve, e dietro al fosco nembo
Ampia ne viene una falange. — Oh! rea
Sventura è questa sì, Khusrèv dicea,
Che tanto di me cerchi il mio nemico!
Non uomini ho con me, non ho destrieri,
E giorno venne omai della distretta.
Dissegli allor Bendùy: Deh! tu provvedi,
Chè già vicino è il capitano. — Amico,
Khusrèv gli rispondea, deh! in questa impresa
Tu m’addita la via! — Signor, soggiunse
Bendùy allora, in questo avverso tempo
Arte sottile adoprerò, per tuo
Riscatto posta quest'anima mia
A te dinanzi, principe del mondo,
Del mondo vincitor. — Khusrèv gli disse :
Di Cina un sapiente assai migliore
Una sentenza in ciò dicea: « Colui
Che re monarca a soverchiar perviene,
Al dolce paradiso in altra vita
Non salirà. Se a una città le mura
Caggion divelte, mai non è che incolume
Resti al suo loco un umil tetto, e allora
Che desolate van città e castella,
Mai non sarà che resti al loco suo
Ostello agli egri destinato ». Intanto
Se arte vedi sottil, tu qui l'adopra,
Chè libero non sei da ogni bisogno
Inverso Iddio verace e santo. — Questa
Aurea corona tua, Bendùy rispose,
Dammi con gli orecchini e la cintura,
Con questa, intesta d'or, cinese tunica
D'un color di rubino. Allor ch'io queste
Cose poste m’avrò su la persona,



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— 63

Non rimaner tu qui. Va co' tuoi prodi
Rapidamente, come navicello
Che nell’acque sospinge il marinaio.

Quel che Bendùy dicea, fe’ il giovinetto,
E di là si parti qual se congiunto
Fosse al vento veloce. Ecco! l’astuto,
Poi che Khusrèv di là partla, di molte
Cose già esperto, al vescovo sen venne
E disse: A tutti voi d’uopo è frattanto
Salir sul monte, alla turba che viene,
Ascosì tutti. — Come un nembo ratto,
Ei venne allora al santuario e chiuse
Subitamente e con vigor le porte
Gravi di ferro e si vesti que’ panni
Intesti d’or, quella regal corona
Si pose in fronte. Allor, sovra un terrazzo,
Ben che contro a desio, salì veloce
E l'esercito vide attorno attorno,
A' quattro lati del castel. Restava
Fin che là presso al nobile castello
Belligera giugnea quell'ampia schiera,
Sì che da lungi lui vedean col serto
Splendente in or, con la collana e il cinto,
Con gli orecchini, e ognun dicea: Ben quello
E re Khusrèv con la regal corona
E con nuove le vesti! — Allor che certo
Si fu Bendùy che la veniente schiera
Discerner nol potè dal suo sovrano,
Giù discendea da quel terrazzo e rapida-
mente le vesti sue si rivestia
Ed al terrazzo riascendea, disciolto
Da ogni tema nel cor. Prodi novelli,
Ei disse allor, chi fra voi tutti e duce
E capitano chiamerò, ch'io reco
Del re del mondo un inclito messaggio,
E dinanzi agli eroi ciò che ascoltai,


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— 64 —

Qui vo’ ridir ? — Queste parole sue

Come udì ’1 figlio di Siyàvish, disse:

Il duce qui son io, Behràm di nome.
Disse Bendùy: Del mondo il re ti dice:

« Per la fatica della via lontana

Affranto qui son io, battuti e pesti

I palafreni e pel cammin ch'è lungo,

Crucciosi e stanchi. A questa casa antica

Di penitenti, nella mia stanchezza,

Ecco! venn’io perchè trovassi loco

A riposar. Ma quando il chiaro giorno

Spunterà in ciel, per le cose terrene

Ogni speranza torrò al core, e noi -

Verrem con teco per la via lontana

Fino a Behràm che altera ha la cervice.

Per ciò ch’io dissi, un altro indugio ancora

Non cercherò, se pur m'aita il cielo

Veracemente. Gli avi nostri, quali

Furono in pria, la fè, le sante leggi

In custodia s'aveano; e se longeva

Lor fortuna durò propizia e amica,

A’ lor soggetti quale avean desio,

Non ricusaron mai. Ciò che nel core

Aveam noi di secreto, ora dicemmo,

Poi che c’incalza avversa sorte. Intanto,

Dal sol lucente a questa terra oscura,

Nulla si fa fuor che voler di Dio ».
Cotal sermone poi che udì da lui

Il capitano, alle parole sue

Ratto si fe’ consenziente; ancora

Chi udì que’ detti, pien di doglia al core

Fu veramente e di pietà per quello

Misero stato del suo re. Discese

In quella notte la raccolta schiera

In questo loco ad albergar, guardando

Le vie di scampo di Khusrèv. Ma poi,


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— 65 —
Al giorno che venia, sovra il terrazzo
Bendùy salia novellamente e il viso
Delle mura da l'alto a quella parte
Di Behràm volse e così disse ancora:
In questo dì, per sue divote preci,
Ad alcun'opra non verrà di certo
Il nostro prence. In questa notte oscura
Vigilando ei restò, dinanzi a Dio
Devotamente ad adorar. Frattanto,
Alto il sole montò, nè vuolsi mai |
Che da intenso calor danno ei si pigli.
Riposerà quest'oggi e alla dimane,
Al primo albor, verrà fra le sue schiere.
Disse ai prenci Behràm: Cosa è cotesta
E lieve e grave. Se premendo attorno
A re Khusréèv ci restiam noi, cruccioso
Ei si farà, verrà in battaglia nosco,
. Ch’ei sol ne la persona ampio un esercito
Vale ed è forte e vigile e la terra
Atto a pigliar. S'ei cade ucciso in questo
Campo dell’armi, aspro di noi governo
Farà Behràm, sì che ben meglio fia
Oggi qui rimaner, s'anche son scarse
Le provvigioni, chè con alma lieta
Forse Khusrèv a noi verrà, per questa
Giusta ragion, senza battaglie e alterchi.
Così ei restò fin che la notte oscura
Scese dal monte e s'adunò la folla
Intorno a lei degli astri suoi. Dispersa
Ne andava intanto in ogni parte quella
Schiera d’armati; da ogni parte attorno
Acceser fuochi allegri alla campagna.
Quando al novello dì splendea qual sole
La superficie de la terra, ascese
Sovra il terrazzo, in favellar maestro,
Prence Bendùv. A Behràm disse: O esperto




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— 66 —
Di molte cose, al tempo che dal piano
La polve si levò di tutti voi,
Khusrèv che vi scoprì, tosto ne andava,
Andavane veloce in greca terra
Con gli armigeri' suoi. Tu intanto, in cielo
S'anche volassi com'aquila ardita,
S'anche levar più assai del sol potessi
L’altera fronte, non vedresti il sire
Fuor che in terra di Grecia. Egli è già antico
In quella terra in verità! Ma intanto,
Se grazia al viver mio voi qui mi date,
Al duce cavalier verrò con voi
E gli dirò ciò ch’ei da me richiedere
Vorrà, le gravi cose e le leggiere,
Di quella scorta del mio re. Se questo
Non mi si dà, vestirò l’armi tosto
Della battaglia e in improvviso assalto
Leverò fino al sol l'adusta polve.
Di Behràm, come udì quelle parole
Di lui novelle, parve il giovinetto
Core invecchiar per fiera doglia. Ei disse
A’ compagni dell’armi: Or, qual è frutto
Se Bendùy trucidiam? D’assai fia meglio
Che in questa guisa con sereno core
Io l'adduca a l'eroe. Nel suo cospetto
Egli dirà ciò che ben sa del prence,
E quei gli farà grazia di sua vita
O il serto gli torrà. — Disse a Benduy:
Deh! malvagio inventor d’arte più rea,
A principe Behràm questi argomenti
Ridirai tu! — Benduy leon discese
Rapidamente dal terrazzo allora
E incamminossi ardimentoso e fiero
Con quegl'incliti in armi. Allor che intese
Behràm guerrier ch’esercito venia,
Che re Khusréèv cercandosi vendetta


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— 67 —

Ito era in Grecia, un'alta ira si prese

Di Siyavish contro quel figlio, e disse:
Deh! tu malvagio da la sorte avversa,

Da te non era quella che t’'ingiunsi,

Impresa ardita, e folle i’ ti lodai

Senza tuo merto! — E si chiamò dinanzi

Bendùy che gloria ambia. Contro quel prode

Rovesciò l'ira sua Behràm allora,

Gridando contro a lui: Deh! tu perverso

Dall’opre triste e ingannatore e degno

Di vituperio, in turpe guisa il mio

Esercito ingannasti e per la tua

Trista natura non quietasti mai |

Con Khusrèv ch’è cagion d'alta sventura,

Fosti congiunto e d’un fanciullo un uomo

Esperto festi. Or qui ten vieni e il core

Di fole hai pieno e millantando vai :

« Sì, sì, rinnoverò l'antica sorte! ».
Signor d'altero capo, a lui rispose

Bendùy così, tu cerca in me del vero,

Non darti all'ira. Sappi che congiunto

M'è il re dei re, che innanzi a me rimane

In suo splendor quella grandezza sua,

Quella sua potestà. Ne riscattai

La vita, e farlo ben dovea. Ma tu,

Se prence sei, non t'aggirar dattorno

Alla trista menzogna. — Io per tal colpa,

Disse Behràm, che tu facesti, a morte

Non ti trarrò; ma ratto da colui

Sarai tu anciso e me verace allora

Appellerai. — Fùr poste le catene

A’ piedi allora di Bendùy; per farne

Aspro governo, a Behràm l’affidava

Di Siyavish. Attese poi che il sole

Al tramonto scendesse; indi sen venne

E s’addormì, pieno d’affanno al core.


<pb n="8.68"/>


IX. Parlamento di Behràm Ciaàbîneh
coi principi.

(Ed. Calc. p. 1897-1901).

Quando la spada de’ suoi raggi d'oro
Trasse quest'almo sol dalla guaina,
Quando il fulgido ammanto di sua luce
Apparve in cielo, mandò genti attorno
Prence Behràm e tutti accolse i prodi
E su gli ampi tappeti esti campioni
Incoronati fe’ seder. Dovunque
Un seggio ei pose in fulgid'oro, e poi,
Come fanno sovrani in lor vittoria,
Lieto si assise e disse ad alta voce:

Ognun di voi che ha nobil pregio, ratto
A me favelli rispondendo e sia
Securo e ponga dietro a mie parole
Nobil consiglio. Voi porgete intanto,
Tutti, gli orecchi a’ detti miei, la mia
Faccenda ardita ben considerando.
Anche se molto alcun ricerchi, niuno
Peggior fra tanti re fia che si mostri
Dell’antico Dahàk. Uccise il padre
Di regno per deslo; dopo quel sangue,
Vennegli in potestà l’irania terra.

Or poi Khusrév, cotesto ingiusto e reo,
Uccise il padre in tempo che n'andava

In greca terra. Ma frattanto voi,

Fin che alcun per la terra anche si mostri
De’ Kay del seme principe famoso,

Che degno sia di desiar quest’alto

Seggio regale e il diadema e cingere

Il cinto imperial con lieta sorte,


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Quale sapete voi che oggi a tant’opra

Anche accinger si possa e in via riponga

Leggi e costumi de’ regnanti Kay?

Giuro per Dio che questo sol governa

Alto pel ciel, ch'io vi sarò per lui

Alleato ed amico. — Udiron tutti

Gli eroi superbi queste che l'illustre

Prence gittate avea nuove parole,

E niun dai detti suoi dritti e spavaldi

Torse a dietro la fronte. Era là un vecchio

E in piedi si levò. Di lui fu il nome

Shehràn-Guràz, eroe canuto al capo,

Ma prence altero e ardimentoso. Disse:
O illustre, o grande, tu nel mondo sei

Principe aiutator. Se tu non eri

Là in Rey, di contro a Sàveh re, che giunse

Con esercito infesto al nostro suolo

. E de' liberi eroi cotanti schiavi

Far disiava, in tutta l'ampia terra

Competitor non era. E tu cingesti

Dell’armi il fianco per valor che avéi,

Sì che lungi n’andàr fatiche e crucci

Da questi Irani. Esercito che quattro

Volte contava centomila eroi,

Gagliardi tutti e di pugnar ben degni,

Per una freccia tua d’un’asta sola

A dietro si tornò; così posava

Irania bella da scompigli e crucci.

Or però a te de l’Irania s'addice

Il trono imperial, t'è in testimonio

La tua vigile sorte. E se qualcuno

Al tuo comando fia ribelle e lungi

Andar vorrà dalla tua legge, noi

Sotto al comando tuo sì l’addurremo,

S'egli è ancora un eroe, s’egli è pur anco

Degno di storia qual Khusrèv antico.


<pb n="8.70"/>
— 70 —

Disse questo e si assise al loco suo.
Khorasàn, di guerrieri inclito duce,
Innanzi venne e così disse allora:

Per questo vecchio di scienza amante
Che tante già dicea parole innanzi
A questa gente, io cercherò per quale
Cagion le disse il vecchio sapiente
E ambizioso. Ogni più bella cosa
Ch'ei di te ricordò, fe' lieto il core
D’ognun de l'assemblea; ma una sentenza
Leggiadra è ancor, quale dovria l’uom savio
Ascoltar, che Zerdùsht nel Zendavesta
Dice in tal foggia : « Quei che si ribella
A. Dio sublime in ciel, per tutto un anno
Date in catene ed incliti consigli
Porgete a lui che rechin frutto; e allora
Che d’un anno al cader sulla via dritta
Non tornerà, con una spada, al cenno
Del vostro sire, il trucidate. E quando
Al suo giusto signor mostrisi avverso,
Vuolsi che ratto dal suo corpo lungi
Vadane il capo », — Khorasàn ciò disse,
Chiuse le labbra e venne al loco ov'era
L'alto suo seggio. Farrukh-zàd intanto
In piè levossi e in quell'ampio consesso
Porse innanzi la fronte e così disse:

Prence di noi proteggitor, parole
Che son giuste, ridir, meglio è d’assai
D'ogni periglio, e se giustizia è il meglio,
Deh! mai non viva alcun che lieto vada
Per ingiustizia! — E a Behràm disse: Lieto
Viver tu possa e al mondo almo sostegno
Col dolce aspetto tuo! Se i nostri detti
Qui pur son grati, e n’è propizio Iddio
Sempre vincente, vivi tu beato
Nostro sovrano in sempiterno e lungi .



<pb n="8.71"/>
— 71

Rimangano da te mano e favella
De’ rei malvagi! — Questo disse e al suo
Loco sedè quest uomo ardito e forte.

Khazarvàn di Khusrèv, come leone,
Avanzavasi allor. Disse a quel duce:

Poi che tante parole e giovinetti
E vecchi ricantàr, se tu dell’opra
Ti cerchi al fin giustizia vera, un messo,
Qual tempesta veloce, e tu sospingi
In sulla via, non aspettar lung’ora,

Per che Khusrèv ardimentoso e altero

Il lungo suo sentier calcando venga
Dietro le ingiuste opere tue. Perdono |,
Per l’opre già cempiute a lui dimanda,
Non t’avanzar con tracotante incesso

Al trono imperial, chè, fin che vive,
Prence del mondo, il re, non può del trono
‘Esser mai degno il capitano; in core

Se hai timor di Khusrèv, da Persia bella
Il cor distogli e ancor da Tisifuna,

Di Khorassàn per le città discendi

A _ viver lieto, chè cotal letizia

Ben ti si addice e principesco grado.

Ma i fogli tuoi l'un dietro l’altro invia

A far tue scuse, onde Khusrèv non venga
A te da tergo per la via lontana.

Poi che dal loco suo ritorse il piede
Khazarvàn di Khusrèv, innanzi il pose
Zad-Farrukh all'istante. Ei così disse
A giustizia conforme: Illustri eroi
D'inclito nascimento, udii parole
Ridir da’ prenci che d’Irania sono
I duci eletti. E fùr parole in pria
Servili inver perchè un duca d’armati
Re si facesse! Tal parola il saggio
Approvar mai non può, chè d’uom per essa


<pb n="8.72"/>


L'onor si scema. E Khorasàn parola
Dicea ch’è piena di superbia; ed io
Forse dirò ch’ella è congiunta a senno?
Farrukh-zàd accrescea quelle parole
Ardite e stolte ed offendea del saggio
Il cor per esse. Khazarvàn, di forti
Capitano, fu il quarto, e i detti suoi
Furon congiunti a vero senno. E invero
Da che diè forma all'universo Iddio,
Questo mutar della fortuna a un tratto
Manifestossi, e tu prendi tue mosse
Dall'arabo Dahàk primieramente

Che fu ingiusto e di voglie insane e ree,
Quale uccise Gemshìd superbo e tristo
E il mondo intero in mano sua sì prese
Per ingiustizia. Pien d'angoscia allora
Ogni saggio ne andò, ch'era signore

Di questa terra il tristo Devo. Intanto,
Fredùn, monarca fortunato e illustre,
Del regno di colui troncò stagione.
Secondo era Afrasyàb, natura prava,
Che con arte malvagia da Turania

Si mosse e il fiume valico. Troncava
Miseramente con l’acuto ferro

A Néèvdher celebrato il capo augusto

E la fortuna in basso cadde. Terzo

Fu Sikendèr che qui venia di Grecia,
In Irania venia, sì che deserta

N’andò la terra. Ed egli uccise in guerra
Dàra di spada vibrator, per lui

E cibi e sonni fùr gravosi e tristi
Agl'Irani gagliardi. E quarto venne
Khoshnavàz che di cor non era puro,
Qual distruggea di questa terra antica
La delizia e l'amor. Quando improvvisi
Uccisero Pirùz gli Heytàli in guerra,


<pb n="8.73"/>


Inclito re d’inclita sorte, principe
D'ogni monarca e vincitor del mondo,
Precipite cadea l’alta fortuna
Del re dei re. Ma tal prodigio in terra
Alcun non vide mai, quale or toccava
Novellamente a suol d’'Irania, in fuga
Andarne un re, qual è Khusrèv, dal trono,
E cercarsi rifugio appo il nemico
Da ribelle poter de’ prodi suoi.
Cotesto ei disse; per dolor piangendo
Anche si assise, e impallidì nel volto
Alle parole sue Behràm guerriero.
Ma Sinbàz, di gran cose esperto assai,
Ratto balzava in piè, cinto alle reni,
D’India un ferro alla man, così gridando:
Questo eroe di gran pregio, ecco! divenne
Illustre e grande e d’anima serena!
Ed or, fin che non venga un de la stirpe
De’ Kay, qual stringa a' fianchi suoi dintorno
La cintura dei re, meglio è ch'ei solo
Assida in trono, ch'egli è prode in guerra
E valoroso e di fortuna amica.
Udì que’ detti il condottier de’ forti
E la man porse e sguainò la spada
E così disse: Ove per noi si trovi,
In villaggio o castel, di regal seme
Una fanciulla, non vorrò che alcuno
Porti, fuori di lei, regal corona
E in mezzo agli altri cavalier cavalchi
Suo palafreno. — Come udiano i prodi
Gurd e Babùy d'armeno sangue quale
Atto superbo fea quel duce impuro,
Trasser le spade e in piè levàrsi e nuove
Parole a pronunciar già si apprestavano:
È sovrano Behràm, noi gli siam servi,
Nè dal suo cenno e dal consiglio suo


<pb n="8.74"/>
— 74 —

Ci partirem, — quando Behram che vide
Fuor tratti i ferri, a prudenza si volse
E a piu giusto operar. Chiunque, ei disse,
Dal loco ov'ei si asside, in piè si leva
E la man stende al ferro, avrà la mano
Da me tronca a l'istante, e farà senno
La mente sua briaca. — Fi questo disse
E primo a tutti i principi d'Irania
Venne a un giardino imperial. Dispersa
Andava allor quella vasta assemblea,
E corrugate avea ciascun le gote,
Avea ciascun trafitto in petto il core.
Poi che mostrossi de la notte in cielo
Il bruno vel, quando brillaron gli astri
In quel cupo color, tosto che voci
Di sentinelle si levàr dintorno,
Calamai si cercò, fogli richiese
Behràm guerriero, e venne un avveduto
E saggio scriba, e un calamo dinanzi
E il vasel degl’inchiostri a lui, sì accorto,
Pose innanzi Behram. Dissegli allora:
Su questo foglio ch’è di seta, un patto
Vuolsi notar pei duci Irani. Dicasi
Che sovrano è Behràm, di vincitrice
Fortuna. sempre, ch'egli è degno ancora
Del serto e degno d'esto seggio. Nulla,
Fuor che giustizia, ei cercasi pel mondo
Nell’opre manifeste e nelle ascose.
Questo fu scritto e quei levàr le lampade,
Passàr l’oscura notte in gran pensieri.
Come disparve quell’azzurro velo
E alla vista del sol chiara si fece
Quest'ampia terra, un uom che vincitrice
Avea sua sorte, là sen venne e pose
Entro la stanza di Behràm un trono.
Dinanzi al trono d’or poneano i seggi


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— 75 —

E l’adito schiudean. Si assise in trono
Behràm sovrano e il diadema cinse
Imperial sovra la fronte; allora,

Quel regal patto, sovra prezioso

Drappo di seta già notato, il regio
Scriba recava e ad uno ad uno i prenci
Scrivean, testimoniando esser del mondo
Behràm signore. Come detto fue

Lor chiaro nome su quel foglio, un aureo
Suggello a sommo re Behràm vi appose
E così disse: Questo regno è mio,

E Iddio santo e verace è in testimonio
A tutti voi. Così per anni mille

Resti che alcun de la semenza mia
Prence si nomi, d'uno in altro figlio
Incolume rimanga ed onorata

La corona regal con l’alto seggio!

Nel giorno d'Hur, d'Azèr-nel mese, appunto
Si fea cotesto, quando balza in groppa
Agli onàgri il leon per farne preda.

Ma Behràm così disse a’ prenci Irani:
In mezzo a noi sorser discordie omai,
Odii pur anco. Qual di voi non pone
Consentimento a ciò che femmo, sia
Uom di cor giusto o menzognero, in questo
Iranio suol più di ire giorni ancora
Non si rimanga ; al quarto dì, nel tempo
Che pel ciel salirà, luce del mondo,
Quest'almo sole, appo Khusrèv ne vada,
Nè più a lungo s’indugi in questa terra.

Non di verace core il benedissero
Così gridando: Mai non resti priva
Di te la terra! — chè ciascun qual era
Fedele a re Khusrèv, trafitto al core
Per quel regno novéllo, andava in Grecia
Da quella terra, andavane ramingo
D'Irania bella dagli ampi confini.


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— 76 —

X. Fuga di Benday.

(Ed. Calc. p. 1901-1904).

Stette Bendùy sì come agreste fiera
Incatenato al tenebroso carcere
Fino a settanta dì. N'era custode
Behràm, quel di Siyàvish, e dolente
E increscioso egli era assai di quelle
Di lui catene. Ratto ad ingannarlo
Era pronto Bendùy, ch’ei non quietava
Dall’arti sue, ben che in catene. Ei disse:
Non disperar del prence iranio, ancora
Se il chiaro giorno in tenebrosa notte
Si convertì. Che se tardiva e lenta
È sua fortuna come già fu lenta
Di Pirùz la fortuna inverso a quello
Perverso Khoshnavàz, Dio gli fe’ grazia
Nella persona del suo figlio eletto,
Kobàd monarca, e gli rendette poi
La sua terrena potestà. Davvero!
Che a Behràm tracotante e il trono e il serto
Non rimarranno! E che di ciò si pensa
Costui che amica ha la fortuna? Oh! mai,
Deh! mai non sia chi di villano sangue
Discese un giorno, qual sè stesso tragge
Insanamente al precipizio! Intanto,
Stagion tu conta sovra alle tue dita
Fino a due mesi, e tu vedrai di Grecia
In Irania un esercito. Le fiamme
Avventeranno di Grecia gli armigeri
Contro al seggio fittizio e alla corona,
E gli ornamenti suoi via strapperanno
Dal capo di costui che li rapia.


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— 77 —

Disse Behràm: Se grazia alla mia vita
L'iranio prence mi farà, di questi
Consigli tuoi farò dell’alma mia
Adornamento, obbedirò al tuo cenno
In ciò che dirai tu. Ma un sacramento
Terribile vogl'io per questa luna,

Pel trono e il serto e per la sacra fiamma
D'Azergashàspe, che se un dì ritorno

Farà Khusrèv in questa nostra terra,

Del greco Imperator da suol di Grecia
Menando un pugno dì gagliardi, grazia
Per la mia vita impetreraìi da esso,

Nè vile estimerai cotal faccenda
Malagevole assai, perchè al mio corpo
Danno da lui non venga e ciò non sia

Per detti biechi degl'Irani avversi.

Questo egli disse e poi del Zendavesta
Chiese il volume e avvincere Bendùy
Cercò per sacramento. Allor che prese
Il Zendavesta fra le mani sue,

Bendùy così parlò: Per Dio signore,

Mai non vegga Bendùy che angoscie e affanni,
Mai tranquillo ei non sia per questa vita
Breve cotanto, s’egli, allor che torni
Khusrèv regnante da quel loco suo,

Tosto nol vede e non insiste, ond'ei

Mandi appo te una preziosa gemma

E di principe degna una corona.

Behràm, come ascoltò quel giuramento,
Ratto ch’ei vide cor sincero in lui
E fermo il patto, così disse: Or io
Il mio secreto a te dirò, levando
Chiara a parlar la voce. Ecco! a Ciubìneh
Un laccio appresterò, con sottil’ arte
Compirò la vendetta. In luogo acconcio
Alle insidie, con ferro avvelenato,


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Con arte e studio, ben poss'io menarlo
A morte certa. Se acclamar qual sire
Behràm si dee, davver! che le marine
Onde non hanno umor! — Bendùy dicea:

Deh! tu esperto nell'opre, un uomo accorto
Reputar mi déi tu, saggio e avveduto.
Come di Grecia con sue genti armate
Re Khusrèv tornerà, quando su questo
Seggio regal si assiderà, tu sappi
Che in ogni cosa che dirògli, mai
Da mie parole non farassi a dietro.

Quelle tue colpe che di te ne andavano,
Io chiederò ch'ei ti condoni. Ei certo
Per le parole mie darebbe ancora

La sua corona. Ma se intanto in opra
Vuoi por ciò che tu di’, se di menzogna
La via non cerchi nel tuo cor, deh! sciogli
I piedi miei da questi ceppi gravi,

E di Khusrèv questo ricordo primo

Tu fa, tu gli apri il tuo secreto core
Per tal favor, per che agli orecchi suoi
Pervenga il chiaro suon della tua voce.

Behràm, quando ascoltò, si fe’ nel volto
E sorridente e lieto, ed a l'istante
Levò a Bendùy i gravi ceppi suoi.

Quando il vel de la notte oscuro e tetro
Chiaro divenne e l’afferrò d’un tratto
L'alba novella, Se il mio cor non rompesi,
Disse a Bendùy, quando a giocar di mazze
Ciubineh oggi verrà, come già ordii
Con cinque amici miei la scorsa notte,

Il vital spirto gli torrò dal capo.

Chiese una maglia e la vesti di sotto
All’ampia veste e ratto a un palafreno
Balzò in arcion da quel palagio. Avea
Behràm valente una mogliera infida,


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— 79-

Qual disiato avria che fatto a pezzi
Behràm le fosse, di Behràm Ciubineh
Amica in cor, nell'anima perversa
Contro allo sposo suo d'odio feroce
Turgida e piena. Ella inviò cotale
A Behràm che dicea: Della persona
Tienti daccanto difensor possente,
Chè Behràm si vestia secreto e accorto
Una corazza e tutti de’ gheroni
Della corazza i nodi strinse. In core
Qual male ordisca, già non so, ma bello
Sarà per te se da te lungi il tieni.
Ciubìneh, come udìa di cotal femmina
I chiari detti (« Non giocar di mazza
Con seco » ella dicea), d'ognun che scendere
Ei là vedea ne la palestra, allora
Che alla sua mazza più vicin si fea,
Lieve lieve palpava in su la schiena
Con la mano e dicea parole dolci
Con affabile voce. E fe’ cotesto
Di Siyavish fin ch'egli giunse al figlio,
E manifesto sovra il colmo petto
L'arnese gli scoprì. Dissegli allora:
Deh! tu peggior d’un serpe che ti morde,
Chi suol vestir sotto a panni di seta
Nella palestra una corazza? — Questo
Disse, e la spada della sua vendetta
Rapidamente sguainò, divise
Dal capo al piede l’infelice in due
D'un taglio netto. La novella intanto
Andò per la città, giacersi ucciso
Behràm guerrier, dal viver suo migrando.
Ma di tal morte la novella certa
Poì che intese Bendùy, luce del giorno
S'accorciava per lui. Vestì un arnese,
Balzò in arcioni e tremante si cinse


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— 80 —

Quel suo fianco d'eroe. Con quanti ancora

Dell'estinto Behràm eran congiunti,

Con quanti avean per lui tranquilla vita,

Dalla città del suo fuggir la via

Ratto si prese, perchè alcun sì grande

Scompiglio non vedesse. Andavan'elli

Da questa a quella stazion, crescendo

Cavalieri e cavalli, ed il sentiero

Che mena in Ardebil, prendean correndo.
Allor che uscì da la palestra, il lembo

Davver! che trasse de le vesti sue

Behràm nel sangue per l’accolto sdegno!

A Muahbrùy cenno ei fea che di Bendùy

Fosse custode, ma dicean gli astanti:
Deh! per Bendùy non corrucciarti in core,

Almo nostro signor! Poi ch'egli seppe

Di questa morte di Behràm, ei certo

Ne andò congiunto a rapida bufera

E si fuggì. Seppe che di sè stesso

Opra era quella, che Behràm ucciso

Così giacea per quelle insidie sue,

E si penti di quella dell'amico

Acerba morte e vide che d'un tratto

S'intenebrava ogni sua impresa ardita.
Disse Behràm: Di tal che il suo nemico

Non riconosce dall'amico, mai

Non restino midolli e non di pelle

Tristo involùcro! Dorme l’un posando

Qual su la punta de le zanne estreme

D'un elefante, sè medesmo affida

Altri ai flutti del mar profondo e azzurro,

Altri contro al suo re mostrasi audace

E tracotante, altri la zampa afferra

Di leon fero. Abbi pietà dell'alma

D'esti quattro infelici! È la fortuna

Che si parte da lor. Ma v'è pur altri


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— 81 —

Che scuote un monte ed una turba chiama
Perchè l’aiti. A così gran fatica

Ei dà le membra sue, stringe nel pugno,
Dopo cotanto faticar del corpo,

Inane vento! Meglio assai sull’onde
Passar con isdruscito navicello, -

Che affrettarsi nell’opre. E se tu vuoi
Mirar con gli occhi tuoi dritto nel sole,
Stordito ne sarai, ne tornerai

Cruccioso e guasto. Quei che per sua guida
Prendesi il cieco, rimarrassi a dietro

Nel suo lungo sentier. Chi afferra il serpe
Con la sua mano, ucciso fia, disciolto
Andrà il serpe da lui. Se alcun per prova
Tosco si bee, da ciò che bevve, e duolo

E morte avrà qual parte sua. Bendùy
Non uccidemmo in sul principio, ed ei

Di mano mi sfuggia, via si cercando

Con un'arte sottil. Deh! che m'è forza
Per l’opre nostre lagrimar! Ma intanto
Vedrem noi sì dov'è di Dio consiglio.

Con breve scorta, dall'opposta parte,
Come nembo che corre, il suo sentiero
Bendùy prendea. Recavasi ciascuno
Quanto potea recar verso ad un loco
In che stava Mausil, d’Armenia un forte,
Ed erano a l'intorno ampi deserti
Senz’acque, passo a le vaganti fiere.

Più in là un ricinto, al suol confitto, scorse
Bendùy, gli sguardi sollevando, e vide
Ch'era pur là Mausil d’Armenia, e ratto
Vide a l’intorno acque scorrenti e chiare
E pascoli pur anco. Andava in pria

Solo Bendùy d'altere voglie e al loco
Verdeggiante correa con presti passi,

E vedendo Mausil, dovuto omaggio




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— 82

Prestavagli e dicea quali in secreto

Avea novelle. Oh! non partir, gli disse
Mausil, di qui, chè ti verrà novella

A quando a quando, e tu saprai che fece
Khusrèv in greco suol, s’ei fe’ la pace,

Se la guerra apprestò. — Bendùy che intese,
Non dilungossi da quel loco e tutti

Convocò dal deserto i suoi compagni.

XI. Arrivo di Khusrev-Pervîz in Grecia.

(Eà. Calc. p. 1904-1910).

Andavane Khusrèv sospinto in corsa,
Acque non eran per que’ lochi od erbe,
Non eran guide. Abbandonate allora
Al suo stanco destrier le attorte redini,
Scese, malgrado suo, fino alla terra
Di Babilèh. Della città i magnati
Vennero incontro, venne incontro a lui
Chi parte ancor s'avea di sensi umani.

Ma nel tempo che giunse appo cotesti
Prence Khusrèv, quando a l'esterna parte
Della città scendere ei fea sua scorta,
Quando ei là discendea, venne d'Irania
Correndo un messaggier. S'avea del fiero
Behràm-Ciubineh un foglio seco e il foglio
Recava ascoso fra le vesti. Scritto
Di Babilèh v'era al signor: Se giunge
Esercito di qui, non far che vada
Libero e sciolto. Le falangi mie
Ecco! dietro gli son sospinte in corsa
E scenderanno alla città ch'è tua,
Dall'uno all’altro istante. — Allor che il prence
Vide epistola tal, subitamente


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— 83 —

Corse da re Khusrèv. Come ciò vide

E il foglio lesse il giovinetto sire,

Meraviglia il toccò dell'opre arcane

Di questa terra. Fi sì temea ch’esercito

Venisse a tergo, ei principe d'Irania

Stringersi il cor sentia nell’alta angoscia.
Ma, poi, dalla città, balzò in arcioni

Ratto a l'istante e il regal fianco accinse

A. sua corsa novella. Fi dell’ Eufrate

Discese all’acque in affrettata via,

Chè loco ei non vedea nel regno suo

Da riposarvi. Già sentian la fame

Giovani e vecchi, allor che una foresta

Vedean da lungi, acque scorrenti ancora,

E si mostrò una carovana. V’erano

Cammelli, e a tutti precedea dell’ampia

Scorta il signor. L'uom, giovinetto ancora,

Allor che scorse di Khusrèv la fronte,

Quale a illustre signor gli benedisse,

E Khusrèv cominciò: Quale il tuo nome?

Dove andarne vuoi tu? Qual la tua brama?
Kais mi son io, di Hàris figlio, ei disse,

D'Arabi franchi e liberi son io

Un degli eredi, e qui d'Egitto venni

Con una carovana ond’io son duce.

Ecco! il mio loco ad abitar su l’acque

È dell'Eufrate e per questa foresta

È da quel loco la mia via. — Di cibi

Deh! quanto hai tu, Khusrèv gli disse, e quanto

Hai di coperte e di tappeti? Noi

° Stanchi qui siamo e siam digiuni, e cibo

Non è con noi, non carchi o suppellettili.
Qui, qui t'arresta, l’Arabo rispose;

Una sol cosa la persona mia,

L'anima mia con tel — Poi che spiegava

Per l’iranio signor l'arabo duce


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— 84 —

Cotanto amore, una pingue giovenca
Fi là recò. L'uccisero, ed un fuoco
Acceser tosto e secchi legni e freschi
V'arsero in copia. L'arabo signore
Ponea sul fuoco le spartite carni,

E i compagni del re già s'affrettavano
A divorarle. Senza pane allora

In copia egli cibàr le carni apposte,
Quindi ogni prence ai dolci sonni un loco
Si ricercò. Dormian elli alcun tempo;
Levàrsi poi, novelle a Dio preghiere
Ad apprestare, a Dio, giusto e verace,
Fattor del mondo, creator di quante
Possibili son cose e non possibili.

Disse a’ compagni il re: Qual è di voi
Che ha maggior colpa, qual è a me più caro
E d’esti servi il più famoso, e quale
Opra più rea compì, da me, da quella
Via ch'è del cielo, dilungando, tutti
Or dènno in me speranza aver maggiore.
Porgete adunque lieto annunzio omai,
Tutti ver me, d'opre leggiadre e buone!

A benedire incominciàr gli amici,
Gridando: Re Khusrèv d'intatto core,
D’intatta fè, sereno cor sia il tuo,

Lieta la sorte! Iddio, giusto e verace,

Ti renda il trono! Ei già ti diè cotale
Inclito aspetto e maestà, che cresce
Amor per te con senso di giustizia

In ciascun de' mortali. E tu se’ ancora
Almo tesor di sapienza al mondo,

Chè ben ci dài per mal che femmo. — Allora
Che s’allietò per tale onesto augurio

Il nobil prence, vennegli nel core
Nuovo pensier pel suo viaggio. Ei disse
All’Arabo chiedendo : Oh! quale adunque



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_ 85 —

E il nostro calle? ed io con queste genti
Come andarne potrò? — L'Arabo disse:
Più che settanta parasanghe a voi
Son qui; dinanzi a voi monti e deserti
Son veramente. Ma se a me di tanto
Vènia sarà, carni arrostite ed acqua
Recherò su la via, perchè d’assai
Tu non t’affretti. — Fuor di ciò, consiglio
‘Altro non è, Khusrèv gli rispondea,
Per che andarne. possiam con provvigioni
E con tal che ci guidi in questo calle.
Un dromedario per la via sospinse
L'Arabo allor, perchè la via segnasse
All’esercito innanzi. Andava intanto
L'iranio prence per deserti e monti,
Pien di fatica, pien di doglia e affanno,
Con tal sua scorta. Un'altra carovana
Mostrossi ancora per la via da lungi
A l’esercito innanzi, e un mercatante,
Ricco e opulento, al re venia. Gli disse
L’iranio prence: Donde sei? Rispondi.
Ove andarne vuoi tu così correndo?
Di Maestate d’Ardeshìr son io
Un mercatante, quei rispose, e scriba
Son io pur anco. — Disse il re: Qual nome
I genitor ti fe'? — Così rispose:
Mibràn-Sitàd. — Sue provvigioni allora
Gli chiese il prence, e il sir di carovana
Gli rispondea: Deh! illustre! ecco son meco
Provviste tante che non è misura,
Anche se il volto de’ mercanti in questo
Lieto non è. — Se un ospite ritrovi
Sul tuo sentier, Khusrèv gli disse, ratto
Agio e poter s'accrescono d’assai.
Disciolse il mercatante i carchi suoi,
Ov’eran dramme, ov’erano denari


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— 86 —

In molta copia, e recò cibi e al suolo
Anche si assise e benedisse al prence.
Gustato il pane, l'uum, tanto devoto
A quegli ospiti suoi, venne e si prese
Fra le mani un’'ampolla. Oh! da lontano
Kharràd ch'è di Berzin, vedea cotesto
E dal loco dov'era, al suo signore
Venne correndo. L'acqua calda ei prese
Da le man del mercante e al re la porse,
Perchè il suo re non ne toccasse offesa
Qual di vergogna. E allor che il mercatante
Sollecito recò limpido vino
Come un'acqua di rose, ecco! che il nappo
Kharràd ch'è di Berzin, di man gli tolse
Un'altra volta di suo andar nel mezzo
E corse innanzi al re. Cotal servigio
Frutto recava a chi servia, crescea
Nuova grandezza sovra l’altre sue.
Al mercatante disse il re: Qual via
Or sarà per mie genti? E qual tuo loco
A Maestate d’Ardeshir, degli ospiti
O liberale accoglitor? — Deh! prence
Che vigilando vivi, ei rispondea,
Fra i mercatanti io mi son tal che vive
Dell’opra sua. — Comandò allor che il nome
Del mercatante giovinetto e il vico
Lo scriba suo di nobile fortuna
Scrivesse, e a quello disse: Addio pertanto!
Sii nel tuo cor congiunto a vero senno,
Come all'ordito suo trama s’aggiugne.
Come partì dal verdeggiante loco
L’irania schiera, fino a suol di Grecia
Rapida venne e giunse ad un castello
Che il greco Imperator loco da traffichi
Appellar già solea. Come da lungi
L'esercito venir scoprìia la gente


<pb n="8.87"/>
— 87 —

Che in Cristo ha fede, venne a corsa jn lochi

Inaccessi e in aperti, entro a le mura

Menò le suppellettili e le porte

Rinchiuse del castel con fermo colpo.
Stupla di tanto il re, luce del mondo,

Egli e le genti sue rimaser fuori

Della città tre dì. Ma al quarto giorno

Tale ei mandò che disse: Ecco! non grande

Scorta d’armati è qui con noi. Frattanto

Cibi mandate e porgeteci aita,

Trista voglia su noì non soddisfate.
Dinanzi a quelli fùr dispette e vili

Queste parole, e digiuno l’esercito

Era ed affranto. Ma in quell'ora istessa

Nuvola negra si levò, ruggente

Qual leon battaglier. Da quella nuvola

Contro all’ampia città vento improvviso

Si scatenava, ed erano dovunque,

In ogni vico, supplici lamenti

E voci di terror. Quando passate

Mezze dell’atra notte eran già l’ore,

Parte cadea di quelle mura e tutta

La città ne stordìa, chiedea perdono

A Dio pregando il vescovo. Al mattino,

Da ogni castello il fodero adunaro

Subitamente ed 'inviàr di fuori

Di grave età tre sacerdoti, e quante

Erano cose in quella terra verde,

Tuniche e vesti che si fanno in Grecia,

Al prence iranio carreggiàr. Deh! sire,

Egli dicean, fu manifesto e chiaro

Nostro peccato! — Ma Khusrèv, che giovane

Era e d’alto sentir, per lor peccati

A que' supplici suoi non fe’ rimproveri.
Nella città sorgeva alto un castello,

Di cui l’altezza arditamente andava


<pb n="8.88"/>
— 88—

Le nubi a rasentar. Dentro al castello
Molti eran schiavi, e il dilettoso loco
Il greco Imperator costrutto avea.
Dalla campagna si togliea l’iranio
E a quel loco venia, poscia aggiravasi
Per la città per ore molte, e tutti
Gli feano i Greci auguri e voti, a' piedi
Gemme lucenti gli spargeano in copia.
Così, come gli giunse in potestate
Il loco ameno, riposovvi alquanto
Khusréèv illustre e v’indugiò. Scrivea
Un'epistola al greco Imperatore,
Di quel vento improvviso e de le fosche
Nuvole favellando e de la pioggia,
Poscia a Manùy dalla città scendea,
Manùy leggiadra, che città celeste
Il re appellava. Chi avveduto e accorto
Era e prudente e saggio molto e sire
Di Manùy fra la gente, e sacerdoti
E monaci pur anco, andaron tutti
Incontro al sire con eletti doni,
Con cose elette da gittargli al piede.
Andavano col re parole assai
Di quel vento improvviso e dell’antica
Città che l’ebbe, e quei dicean: Siam noi,
Tutti noi ti siam servi, alle parole
Di principe Khusrèv chinato il capo.
Nella città tre giorni si rimase
Prence Khusrèv. Al quarto dì, nell'ora
Che questo sol, luce del mondo, trasse
L'acuta spada de’ suoi raggi incontro
Alle nuvole fosche, il nobil prence
Scese al sentiero di Verigh. Il nome
Anche era Aurigh della città, dov'erano
Del Nazaren la croce ed un ospizio
Per l'egra gente. Ma vedeasiì ancora


<pb n="8.89"/>
— 89—

In un loco appartato ed inaccesso

Un romitaggio, e il principe del mondo

La voce udia dell'eremita. Allora

Al romitaggio andò vicino e questa

Voce Khusrèv mandava: Oh! in questo loco
Della sua sorte chi sen va beato?

Un vecchio qui si sta, dissero allora,
Per gli anni molti atteniiato e macro
Quale un’erba sottil. Conoscitore
Egli è dell’opre de le stelle, e niuna
Cosa del mondo gli è celata. E invero
Ciò ch'egli dice, accade poi, nè il dubbio
S'annida mai nelle parole sue.

Andò alla porta re Khusrèv allora
Del romitaggio e diè tal voce: Oh! sia
Ufficio tuo mai sempre a Dio servire!
E se tu scendi a me da questo antico
Tuo romitaggio, vèngati dall’alto
Benedizion di Dio, dator di grazie.

Dal romitaggio, come udì la voce,
Tosto discese l’eremita e il prence
Scorse che l’attendea. Khusrèv tu sei,
Dissegli, e dubbio non è qui, non lieto
Del trono in che sedea quel padre tuo,
Colpa d'un servo d'opere malvage,
Schiavo tristo ed impuro. — Allor che i detti
Dell'eremita andavan dilungando,

Lieto ne andava dell’iranio il core
Per affetto ver lui. Meravigliava

Di suo dolce parlar, sì che l'Eterno
Invocava su lui, fattor del mondo,

E la man gli stendea del palafreno
Dal dorso eretto, interrogando lui

Sì a Dio devoto. Quel devoto a Dio,
Come ciò vide, gli fe’ omaggio e disse
Parole seco lungo tempo. Allora,


<pb n="8.90"/>
— 90 —

Per farne prova, il re gli disse: Umile
Un servo mi son io d'irania gente
E al greco Imperator porto un messaggio.
Quand’ei renda risposta, al mio signore
La recherò. Ma tu frattanto vedi
Se felice sarà l'andata mia,
Qual esito ella avrà; tu cerca intanto.
L'eremita dicea: Non dir cotesto !
Il re sei tu, non far di te uno schiavo,
Devoto al suo signor. Quand’io ti vidi,
Tutto il ver ti diss'io, ma non provarmi
In alcun tempo mai. Nella tua fede
Mentir non lice, nè tua legge o norma
È la menzogna. Molto affanno invero
Già sopportasti e a contrastar scendesti,
Indi fuggisti da quel servo tuo.
Prence Khusrèv delle parole sue
Meravigliava. Gli toccò vergogna
Di ciò che disse; ei già imprendea sue scuse
A. pronunciar, ma dissegli ’1 romito:
Scuse non dimandar, chiedi piuttosto
Dell'avvenir da me motto ben certo.
Lieto e securo in questo tuo viaggio
Sèrbati adunque e sii pel mondo quale
Ramo giocondo da' bei frutti. Iddio
Da ogni necessità ti vuol disciolto,
D'alta fortuna ti farà, possente
E glorioso. E intanto armi e guerrieri
Otterrai tu dal greco Imperatore
Ed una figlia ancor, degna di serto
E di trono regal. Quando battaglia
Sarà di te co’ schiavi tuoi ribelli,
Proteggitor ti fia vigile e forte
Il Re del mondo. Fuggirassi alfine
Il reo malnato e molto seco stesso
Ricorderà di sua propizia sorte



<pb n="8.91"/>
— 91 —

I dì passati. Ma in lontano loco
Da quel campo dell'armi andranne allora,
E farà in quella terra il suo soggiorno.
Poscia, poi che lontan dalla tua legge
Ei volle andar, per tuo real decreto
Ne fia versato per la terra il sangue.
Khusrèv gli disse allor: Questo e non altro
Possa accader, come dicesti, o vecchio
E saggio e accorto! Ma che di’ tu ancora?
Quale indugio sarà perchè il mio regno
Mi ritorni in poter? — Così rispose:
Dieci e due mesi passeranno, e allora
Il tuo seggio riavrai. Dieci e poi cinque
Giorni ancor passeranno, e tu sarai
Il re dei re, luce ed onor del mondo.
Khusrèv gli dimandò: Di questa gente
Chi sarà che suo studio in ciò riponga
Per darmì angustia con travaglio? — Tale
Ch’è altero e lieto in ogni voglia sua,
Quei rispondea, di cui Bistàm è il nome.
Zio tu appelli quest'uom, vedi per lui
Giocondi i mesi e gli anni tuoi. Deh! guàrdati
Dal traditor, chè ti verran da lui
Danni e travagli e fiero duol! — Crucciossi
Prence Khusrèv e disse a Gustehèmme:
Il nome tuo questa parola arcana
Dal suo secreto fuor traea. La madre
Ti fe’ nome Bistàm, e tu, fra l’armi,
« Gustehèmme son io », dicendo vai.
Indi si volse all'eremita e disse:
Questi è lo zio, per sangue alla mia madre
Pari di grado. — E l’eremita, Oh! certo,
Disse, da Gustehèm guerra e travaglio
Un giorno avrai! — Deh! consigliero mio,
Khusrèv gli disse, che di’ tu più innanzi
Che m’accadrà? — Tu non pensar cotesto,


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— 92 —

Disse il romito, chè d’allora in poi

Altro non vedrai tu che alto favore,

Benedizion di Dio. Danno o rancura

Non ti verrà mai più, se non è forse

Mal che l'Eterno manda a te. Ma questi,

Altero sì, la pace tua tranquilla

Ti turberà; d'allora in poi compiuta

Ogni tua brama vedrai tu. Se ancora

Costui, nemico tuo, sarà perverso,

Verrà pur sempre di sua vita il fine

Per la tua mano. — Gustehèmme allora,

Così disse al suo re: Deh! signor mio,

Per questo in core non crucciarti! Giuro

Per Dio santo che fea la bianca luna,

Che diè alla terra principe sovrano

Qual sei tu, per la luna e per il sole,

Per lo splendor d'Azergashàspe e l’alma

E il capo illustre del mio re, che nulla,

Fuor che onestà, si cercherà in sua vita

Gustehèm, non battendo unqua alla porta

Della menzogna. Che se mai diverso

Avrà consiglio da cotesto in core

Gustehèm, l’alma sua salva non resti!

Dal dì che fece l'universo Iddio,

Niun la chiave scoprì che apre la porta

De’ suoi secreti. Perchè dài tu fede

Dell’uom di Cristo a le parole? Indegne

Parole adunque tu ascoltando vai!

Ma dàmmi tu, signor, dei detti suoi

Sicurtà vera, e non cercar pretesti,

Poi che giurai quel giuramento mio !
Khusrèv gli disse allor: Dall'uom che teme

Iddio signor, non vengono parole

Insane e stolte. Mal da te non vidi

In alcun tempo, nè tu inclini a stolto

E menzognero oprar. Ma già non dee


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— 93 —

Stupir dell’opre di quest’'alto cielo

Il mortal, se tu ancor pieno sarai .

Di mala intenzion. Quando le cose

Che avvenir dènno, son di Dio, prudenza

E senno ancor da una parte sen vanno.
Indi 'l re così disse all’eremita:

Lieto vivi del cor, con lieta sorte!
Allor, qual lampo da le nubi fulgido, -

Alla città d'Aurig sen venne il prence

Dal romitaggio. Vennero a incontrarlo

Di quel castello i principi, ne venne

Ognun che parte avea di sensi umani.

XII. Lettere di Khusrev e dell'Imperatore.

(Ed. Calc. p. 1910-1918).

Ratto che giunse alla città quel sire,
Dal greco Imperator famoso e illustre
Sen venne un cavalier con tal messaggio :
Ciò che t'è d’uopo in questa terra, chiedi,
E il tuo desire non celar dinanzi
A’ prenci di quaggiù, chè s'anche questo
Regno dal tuo va separato; eguale
Alla tua reputiam nostra persona.
In cotesta città vivi securo,
Vivi beato, libero e disciolto
Da ogni mal che ti pensi. In tutta Grecia
Servi tuoi tutti son gli abitatori,
Anche se prenci ei sono e levan alta
La superba cervice. Ed io frattanto,
Fin che fornito non t'avrò di genti
E d’armi ancor, non cercherò il mio cibo,
Del mio riposo non la stanza o il sonno
Mi cercherò. — Khusrèv, che udìa cotesto,


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— 94 —

Giubilava del cor, l'anima sua
Disciolta andava da ogni cura, ond'ei
A Gustehèmme ed a Babùy fe’ cenno,
Fe' cenno ad Endîàn vago di gloria,
Anche a Kharràd ch'è di Berzin, e a quello
Pari a leon, Shapuùr. Così dicea
L'iranio prence con ben fermo core:
Quando il giorno sarà, ponete voi
A’ destrieri le selle, a' palafreni
L'auree selle imponete. Anche vestite
Le tuniche cinesi inteste d'oro,
Partitevi di qui con un sol core
E con retto consiglio. Andate al greco
Imperator da questa in che siam noi
Città cortese, e favellate a lui
E n'ascoltate le parole. Saggi
Siate voi tutti e d'anima serena,
Obbedienti, in dir facondi ancora,
Dolci di lingua. Che se mai discende
Alla palestra il greco Imperatore
E cerca l'arco o cercasi la mazza,
Con la gente ch'è a lui devota e fida,
Sì v'adoprate, perchè a voi sconfitta
In tal prova non tocchi, ed ei ben vegga
Che d'Irania costume alcun si porta
Di cavalier, forza ed ardir con nerbo
Recasi ancor qual di leoni ardenti.
A Kharràd figlio di Berzin fe’ cenno
L’iranio sire: Apportami di seta
Cinese un foglio e nero muschio. Vuolsi
Un'epistola al greco Imperatore
Scrivere omai, sì come sol che splende
In dilettoso paradiso. Brevi
Sian le parole e lungo il senso e quale
Rammenti e serbi il cor d'ognun, chè presso
Al greco Imperator sono filosofi,


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E far déi tu che niun da te parole ©

Ascolti insane. Ei fan sermone invero

D’ogni argomento, nè si vuol che biasmino

Dell'epistola nostra alcuna parte.

Ma poi che il foglio letto avrà quel prence,

Sciogli la lingua; alle parole tue

Resister non potrà. — Per quelle cose,

Disse poscia a Babùy, che il greco sire

Di me favellerà dinanzi a tutti

Toccando il patto mio, la legge e il vincolo

Di sangue e il giuramento, ecco! farai

Dolce qual puro miel la tua risposta.

In quell’ampia assemblea tu se’ davvero

La lingua mia, l'interprete mi sei

Ne' tristi casi e ne' propizi. Or voi

In tutte cose onde non tocchi a noi

Alta iattura, studiate e a prova

Scendete ancor col greco re. Tu queste

Norme da me, Babùy, ti prendi e tutte

Parole che diss'io, sèrbati a mente.
Dell'inclito garzon quelle parole

Ascoltavan gli eroi di cose esperti,

D'alma serena, e benedisse a lui

D'essi ciascun. Fuori di te, nessuno,

Dicean, qui resti incoronato sire !
S'incamminàr dal greco Imperatore

Di cor sereno questi grandi allora

E bramosi d’andar. Come sapea

Il greco Imperator che prenci illustri

Giugnean d’Irania, da quel re del mondo

In via sospinti, che venuti egli erano

In lor viaggio appo le genti greche,

Ratto a incontrarli nobile drappello

D'armigeri inviò. Di drappi greci

Che avean figure in gemme rilucenti

E ad oro il fondo, egli adornò un palagio,


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Indi sedette su l’eburneo trono,
Inclito, illustre, postasi sul capo
La sua corona che dà luce al core.
Fe' cenno allor che ratto sollevate
Fosser tende e cortine e i prenci irani
Pel vestibolo addotti. Era di tutti
Principe e duce Gustehèmme illustre,
Babùy dietro venia, Shapùr gagliardo,
Kharràd ch'è di Berzìn, poi quell’eroe
Endiàn valoroso, e tutti in capo
Avean corone e vaghi cinti al fianco.
Dirittamente al greco sire andaro
E l’ossequiàr poi che il vedeano. Ancora
Ad una lingua gli fér lieti auguri,
Gittaron gemme su quell’aureo trono.
Primieramente il greco Imperatore
Del prence dimandava e dell'irania
Terra pur anco e di suo stuol d’eroi,
Del faticar di tal viaggio, e allora
Kharràd ch'è di Berzìn, come ciò intese,
Venne appo il trono, del suo re col foglio,
A presti passi. L'inclito signore
Sì comandò che posti ivi pur fossero
Quattro seggi dorati, e vi si assisero
I tre magnati d'inclito consiglio,
Mentre in piè si tenea dinanzi al trono
Kharràd ch'è di Berzin. Dissegli allora
Il greco Imperator: Siede a’ sgabelli
Quei che percorse lunga via. — Rispose
Kharràd ch'è di Berzìn, subitamente:
Alla grandezza il mio signor la via
Non mi dischiuse per che osassi poi
Sedermi innanzi al greco Imperatore
Quando ancora ho in mia man del prence iranio
L'epistola regal. S'io ti son grato
Nel mio posto servil, con un messaggio
Utile forse a te ne vengo intanto.


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— 97 —

Dissegli il greco Imperator: Deh! sciogli
Tuo secreto pensier! Che dice mai
Quel saggio tuo signor di fronte altera ?
Kharràd ch’è di Berzin, come disciolse
La lingua a favellar, ben ricordando
Di Khusrèv le parole, al gran signore
Pria benedisse e gl'invocò alleato
Iddio creante. Ei supera, dicea,
Ogni grandezza di quaggiù, possente
E sapiente in ogni cosa. Vennero
Da Lui le schiere fulgide del cielo,
Da Lui, che ci diè l’alma e ci diè il senno,
Senso d'amore e di giustizia. Intanto,
Sotto al comando suo muovesi il cielo,
Ch’ Ei supera ogni tempo ed ogni loco
Veracemente. Il ciel medesmo e gli astri
Che vanno attorno, opre son tutte ancora
Di tal possente Creator. Ma quando
Ei fe’ soggetta questa terra umile,
A Gayumèrs diè vita in pria. Cotesto
Ei fe’ per altri ancor, fin che a monarca
Fredùn Ei giunse, quale Ei scelse in mezzo
Ai prenci tutti della terra. Intanto ©
Nostra semenza sì mostrava in terra,
Manifestossi ciò che in pria si stava
Celato al mondo; e così andando vennesi
Di re Kobòàd fino alla meta, allora
Ch'ei di grandezza l’inclita corona
Posesi in fronte. In sì gran tempo, male
Mai non incolse alla famiglia nostra,
Ch'ei custodian la via del ciel. Ma ai nostri
Giorni levossi indegno servo e corse
E al regal trono si sedette. Or io
Contro a l’ingiusto a dimandar ne vengo
Giustizia, contro a lui che non ha serto,
Non trono o casco o regal cinto. Ognuno



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Che in trono asside abbia saggezza in pria,
Inclito nome e sorte amica, e sappia
Cotesta sorte e dignità cotale
A chi si spetta con il serto fulgido
Di re dei re. Ma voi di Grecia intanto
Datemi aita nella impresa mia,
Compite il voto mio sopra costui
Infido e reo, chè andiamo noi raminghi
Pel mondo attorno, ed io qui vengo oppresso
Dalla vergogna innanzi a prenci e servi.
Di tal ragion come ascoltò parole
Il greco Imperator, nelle sue gote
Qual’ è la rosa del fiengreco a un tratto
Impallidi. Quella sua scialba rosa
Empissi allor di lagrimose stille,
Piena di duol quell’alma sua trafitta,
Piena la lingua di lamenti. E poi
Che l’epistola ei lesse, anche maggiore
Fece sua doglia, e tetro agli occhi suoi
Parvegli il trono e tenebroso. Allora
Disse a Kharràd ch'è di Berzìn, il prence:
Ad ogni saggio questo non si asconde,
Più di me stesso e de’ congiunti miei,
Più dell'anima mia che fa parole,
Essermi caro re Khusrèv. Ma intanto
Armi ho con me, tesori e genti, e tu
Vedi ciò che v'è d’uopo. Anche s’ei chiede
Questi occhi miei, non niegherolli a lui,
Ben che gli occhi più valgano d’assai
Di monete e di spade e di tesori.
Esperto scriba a sè chiamava innanzi
E seduto il volea dinanzi al trono
Di sua grandezza. Cenno fea che scrivere
Ei dovesse in risposta una sua epistola
Adornandola sì qual è un bel prato
Di paradiso, con parole acconce,




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— 99

Con proposte e consigli, ai tempi antichi
Da quel dì risalendo. Allor che stanco
Del notar lungo fu lo scriba intento,

Il greco Imperator scelse, guardando,
Un cavalier di fermo core, memore,

Di cor sereno, parlator facondo,

Ricco di senno e sapiente e forte,
D'epistole scrittor. Dissegli allora:

Vanne a Khusrèv. Gli dirai tu: « Signore
Di cor veggente e che cerchi tua via,
Armi ho con me, tesori e genti, e a niuno
Degg’io perciò recar travaglio. E dove
Ciò non avessi ancor, da ogni possente
Noi cercheremmo e da ogni terra attorno
Auree monete, per che alfin, col tuo
Desìo compiuto, con tua quiete e pace,
Tornar tu possa nell’irania terra
Da suol di Grecia. Or tu frattanto in questa
Terra ch'è nostra, non restar con alma
Torbida e fosca, poichè questa è legge
Del roteante cielo. È il ciel talvolta
Rifugio a noi, cagion di danno e pena
Talvolta ancor, sì che siam noi talora
Con danno e duol, cogliam talora un frutto.
Or tu, fin che monete, armi ed armati
Raccoglierem, non ti mostrar cruccioso ».

ll messaggiero da Khusrèv ne andava
Rapidamente, le parole tutte
Del greco Imperator gli ripetendo.

XIII. Fellonia dell'Imperatore.

(Ed. Calc. p. 1918-1914).

Il greco Imperator d'ogni più estrano
Sgombrava il loco e là sedea pensoso


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— 100 —

Coi consiglieri suoi. Così poi disse
A' sacerdoti: Presso a noi rifugio,
Per tutto il mondo, sì prendea costui
Che giustizia or dimanda. Oh! che faremo
Per ch'ei forte ritorni e senza danno
Resti per l’onta di quel servo suo?
Al greco Imperator così rispose
Il consigliero: E qui si vuole alcuno
Di vigil cor, de' filosofi nostri
Che han nobile pensiero. Egli a quest’opra
Avvinca insieme a noi veggente il core.
L’inclito Imperator mandò taluno,
E quattro là venian subitamente
De’ filosofi greci. Erano due
Giovani, vecchi gli altri due, di greca
Eletta stirpe, e lungo ei fean sermone
Sovra cotesto: Da quel dì che uscìa
Da questa terra Sikendèr, nell’alma
Sempre noi fummo da cotesti Irani
Trafitti e offesi negl'impeti molti,
Nelle battaglie e ne le zuffe e in tanto
Stolto versar, di chi è innocente, il sangue.
Or però loro addusse orrendo male
Iddio santo dal ciel per l'opre loro
Infide e triste. Tu, signor, ti scegli
In tanti eventi di restar tranquillo,
Poi che affranta cadea dei re Sassàni
L'inclita sorte. Se Khusrèv in mano
La sua corona imperial riprende,
Certo la luna a rasentar la fronte
Superbo ei leverà, tosto il tributo
Ei chiederà di Grecia e questa terra
Tutta devasterà. Se ciò s'accorda
A vero senno, tu ripensa intanto,
O signor nostro, e degl'Irani il detto
Stima così quanto un’auretta lieve.



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— 101 —

Da lor come ascoltò quelle parole
Il greco Imperator, principio ei pose
A diverso pensiero. Appo l’iranio
Principe un cavalier mandò correndo
E un'epistola scrisse e la sua via
Sì gli mostrò, conforme a le parole
De' vecchi saggi, recitanti a lui
Lungo sermone. Come venne allora
Innanzi a re Khusrèv il cavaliero,

Ciò che ascoltò da l’inclito signore,
Dissegli aperto, e gli recò dinanzi
Del greco re l’epistola, con seco
Oltre misura fe' parole assai.

Khusrèv che ciò vedea, senti nel petto
Il cor serrarsi. A quel pensier novello
Ratto le gote sue perdean colore,

Ei rispose però: Se di tai detti

Che a noi venian da tempi antichi, tale
Ricordanza si dee lieve e dappoco

Aver nell'alma, ogni travaglio nostro
Stimar dobbiam quanto un’auretta lieve.
Or vedi tu se gli avi nostri un giorno,
Principi eletti e santi, ingiustamente

O giustamente fean la guerra! Vedi

Se alcun de’ vecchi ha ciò in memoria! Ancora
Bello sarà se tu dimandi alcuno

De' saggi in Grecia, se cotesto male
Dall’upupe ci venne o veramente

Da’ corvi ci toccò. Ciascun sovrano

Che in Grecia visse, per favor di Dio
Mai non ebbe rancura da bisogni,

E gli avi nostri furo illustri e in terra
Fine ottenean d'ogni desìo, ma l'ira

E la superbia e l’alterigia e il reo
Costume e insano in mortal core mai
Non vollero soffrir. Pure, non hanno


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— 102 —

Queste cose valor, chè il capo mio
Sta nella strozza di feroce drago.

Ma tu deh! porta un mio saluto al greco

Imperator, di' che parole, in cui

Non è trama ed ordito, i grandi in terra

Non osan dir contro ragion, che alfine

E beni e mali passan tutti. Or io,

D'oggi in avanti, non i dolci sonni

Mi cercherò, non la mia pace, ond’io

Dall’acque torbe di mia veste almeno

Ritragga il lembo. Che se in gente greca

Non troverem cui nostra prece arrivi,

Qualcuno invierem di Cina al prence,

Poi che vani apparir dovranno allora

I detti che gittai; l’acqua scorrente

Dalla origine sua torba volgea.

Quando poi torneranno i messi miei,

In città vostre non terrommi a lungo.
Disse agl’Irani: Or m'obbedite voi,

Il vostro cor non distogliendo mai

Dal mio precetto, chè il vincente Iddio

È nostro amico e l’opre nostre sono

Umane tutte e generose. — Ei certo,

Qual cosa lieve, si prendea sul core

Esta faccenda e via mandava intanto

Di Tokhàr per la man quel foglio suo,

Chè questo egli scrivea di cotal guisa

Sovra quel foglio, nè gli venne in mente

O di bene o di mal cura o pensiero.
Così dal fianco di Khusrèv partìa

Tokhàr allora, andavane alla reggia

Del greco Imperator d'inclita fama.




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— 103 —

XIV. Lettere di Khusrev e dell’Imperatore.

(Ed. Calc. p. 1915-1920).

Guardava il greco Imperator, l’epistola
Leggea pur anco e dentro al cor movea
Pensieri molti e vari. Al suo ministro
Inclito e grande così disse poi:

Questi secreti tu ricerca e traggi
Da lor loco riposto. Anche tu aduna
I savi tutti e i principi guerrieri
E fa con essi de' trascorsi casi
Parole assai. Deh! vedi ancor se in questa
Prossima pugna di vittoria lieto
Sarà Khusrèv, o se di sua fortuna
Dovrà dolersi. Che se dite voi:

« Vittoria ei non avrà, sì che la festa
Del primo di dell’anno giovinetto

Fi non avrà d'ora in avante » —, noi

Qui attenderem perch’ei sen vada al sire
Di Cina intanto, e sua difesa cerchi
.S'egro ei s'aggira. Che se mai beato

Di vittoria sarà, s'egli nel regno

Sarà qual era il padre suo, ben meglio,
Meglio per noi sarà ch'ei di qui vada
Con drappello d'armigeri campioni,

Sì ch'egli in cor non guardi mai pensiero
Di sua vendetta. — Come tal parola
Ebbe il savio ministro udita in pria,

Fe’ cenno sì che tavole astronomiche,
Vetuste assai, recasser gl’indovini

Che conoscon le stelle, e fe’ parole

Fin che sole restàr tre de la notte
Lunghe vigilie. Al greco Imperatore

Così alfin disse quei che gli astri conta:


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— 104 —

Inclito re, ben riguardai coteste
Tavole antiche, quali un dì con gli astri
Pilato compose. Non fia lungo tempo,

E a re Khusrèv la sua regal possanza
Ritornerà, novello mutamento

Della sorte verrà per quel suo grado
Imperial. Così avverrà che solo

D'otto e trent'anni fino al termin giusto
La bruna gleba dell’avel su lui

Cader non oserà per ricoprirlo.

E il greco Imperator, come ciò intese,
Disse al ministro suo: Davver! che uscìa
Questo secreto da riposto loco!

Or che direm? qual darem noi risposta
Per cotesto che di'? — Gagliardo balsamo
Sovra cotesto porrem noi, rispose.

Che se alla terra del signor di Cina
Khusrèv andranne e si otterrà da lui
Alleati ed amici, ei sciolto fia

Da ogni rancura alla persona. Eppure,
Se d'altro loco esercito raccoglie

E non da questo, mai non fia che libero
Ei resti dal pensier di sua vendetta

A te di contro. Ma tu intanto vedi,

Chè più saggio sei tu, più assai valente
In ogni tuo desio. — Così rispose

Il greco Imperator: Stuol di guerrieri

Or sì che invierem, chè non è scampo,
Al prence iranio. Se ogni detto o verbo
Vai tu pesando, meglio è assai ch’io spregi
Lì miei tesori, perch’io lungi resti

Dalla sventura. — E tosto e in quell’ istante
Un'epistola scrisse, e molte in essa

E prima e poi benedizioni accolse:

Coi sacerdoti d’inclito consiglio
E di nobile cor consigli femmo


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— 105 —

E del bene e del mal per ogni via;

Anche per ogni via femmo sermone

Fin che tornammo a quel consiglio nostro
Ch'era già in pria. Ma il consigliar, ma i detti
Poi che son giunti al fin, le porte io schiudo
All’antico tesor. Più in là da queste

Che mi guardan la terra inclite schiere,
Non ho di Costantin fra l’alte mura.

Or però che apprestammo in ogni via
Nostri consigli, da ogni terra intorno

Nuove schiere appellammo. E allor che giunte
Ad una ad una qui saranno, a voi,

Ratto, a l’istante, senza dubbio alcuno,

Le invìeremo. Questi nostri indugi

E il lungo nostro consigliar con questo
Pungendo vellicar di leon fero

La strozza fonda, eran per ciò che in mente,
Chi le istorie sapea, l'opere antiche

Si richiamava. Di Shapùr nel tempo,
Principe figlio d’Ardeshir, si fece

Vecchio ed attrito il cor, giovane in pria,
D'este mie genti, per l’acerba doglia,

Per le molte rapine e per le morti

E gl’impeti improvvisi e l’opre ingiuste

E le vendette procacciate. E allora

Che da tal prence ti diparti e scendi

Ad Hormùzd e a Kobàd che mai ricordo
Non fean di quella ch'è di Dio giustizia,
Nove e trenta città di questa nostra

Inclita terra in un orrido loco

Si tramutàr di spine, opera infausta
Degl’irani campioni. Era un gran lago

Pel sangue degli eroi l'ampia campagna,

E quelli ne adducean captivi i pargoli

E le donne con essi. Or, se nel core

Di vendetta un pensier l’uom ch'è di Grecia,



<pb n="8.106"/>
E prese e accolse, meraviglia alcuna
Venirne a te non dee. Ma in nostra santa
Religion non è costume o legge

Serbar le offese. Oh! non sia mai di noi
Costume o legge il male oprar! Migliore
Di lealtà noi non vedemmo in terra
Alcuna cosa, non del lungi andarne

Da menzogna e ingiustizia. E però tutti
Noi convocammo quegli offesi un giorno,
Molte parole con cotesti avemmo

In tal soggetto, sì che il cor di quelli
Purificossi all'’arti che adoprammo,

E il mordente velen mutossi in balsamo.
In ciò noi convenimmo, onde nessuno
Favelli mai delle trascorse cose

Di tempi antichi, e obbediremti noi

In quel che dici, e in testimonio al patto
Porrem l'anime nostre. Or però vuolsi

Che un’impromessa anche per voi si faccia,
Perchè nessuno contro a noi si mostri
Nemico e avverso, e tu frattanto dica:

« Fin ch'io prence sarò, dispette e vili
Non prenderò tante fatiche vostre,

Più mai non cercherò balzelli e offerte

Da gente greca, disperdendo il vostro

Sì lungo faticar per lieve cosa ».

Anche più assai di questa nostra brama
Per voi si faccia; nosco v’accordate

Ed alleanza componete, e allora

Che nova impresa avrete voi, se ancora
Guerra sarà ben che non degna e vile,
Tutti vi sarem noi fratelli e amici }
Veracemente, e sarà tempo ancora
Che vincitori sarem noi. Ma quando
D'este nostre città bisogno alcuno
Non toccheravvi, forse allor nel core


<pb n="8.107"/>
— 107 —

Pensier vi tornerà dell'odio antico,

E di Salm e di Tur parole ancora
Andranno attorno e di quel lungo tempo
Vieto ed infesto. Or io fermo domando
Un patto a voi, su cui ricordo sia,
Degno, un suggello. Dicasi: « Da noi
Della vendetta ch'è d’Eràg’ antico,
Motto non si farà d'oggi in avanti,

Non della sua remota età. Fia sola

Una terra così d'oggi in avanti

D'Irania e Grecia, nè di lor confine
Chiederem noi separazion ». Frattanto,
Una mia figlia ho dietro a mie cortine,
Degna del prence d'ogni prence. Chiedila,
Chiedila tu di nostra fè con quella
Integra norma, quale è pur costume,
Quale è legge di noi, perchè, nel tempo
Che un figlio avrai che da’ monarchi scenda
Di Grecia antica, ei non ricordi mai

La vendetta d'Eràg’, e si riposi

Dalle battaglie e dai tumulti alfine

Del suol la faccia e con giustizia cerchi
Sua via la terra. Che se attorno guardi
Con pupilla di senno e queste cose

Non conterai che. per giustizia vera,

Il nostro patto per cotal connubio
Intatto resterà. Comando nostro

A noi venne da Dio. Ma da quel tempo
Di re Pirùz a Khoshnavàz, davvero!
Che stagion lunga trapassò! Cotesti
Ambo la vita à manifesto esizio

Traean protervi. Deh! non sia che un prence
Viva, di patti infrangitor! Cotesto

Disse Cristo profeta: « A_mal precipita
Dell’uom la mente se dal ver dilunga ».
Ma Khoshnavàz ben molte adoperava


<pb n="8.108"/>
— 108 —

Arti sottili, perchè mai la testa

Di Pirùz regnator sotto alla force

Non venisse, e poichè duro ed acerbo
Pirùz mostrossi a lui, nulla ei vedea
Nell'orrenda tenzon fuor che caligine
Tenebrosa e mortal. Cadde l’esercito

E cadde il trono imperial con esso,
Ratto che si volgea dalla giustizia

Del re la mente. Giovane tu sei

E recente venisti a l’ardue imprese,

Ma se vuoi tu dalla fortuna un giorno
Toccar buon frutto, deh! non farti amico
L'uom ch'è de' patti infrangitor. Le zolle
Del suo sepolcro qual lenzuol funèbre
Hassi colui che patti infrange, e il serto
E il trono ancor maledicendo al sire
Vanno, che chiese la vendetta sua

E i patti violò. Leggi tu intanto

Questa epistola mia da un capo all'altro,
E se abili ed esperte hai tu le dita

Allo scrittoio, custodendo queste

Parole mie tu scrivimi risposta,

Pensa ogni bella cosa e nobilmente

A me riscrivi. Ch'io non vo’ che questo
Sappia lo scriba, e notar cifre sai

E se’ memore ancora. E allor che letto
Avrò al mio foglio la risposta, il core:
Vedrò di tal ch’è fermo in suo desio,

Si che noi manderemo auree monete,
Guerrieri ed armi, perchè il cor nel duolo
Tu non abbi più ancor. Ma per chiunque
É più grande appo te, per chi è più illustre
A te dinanzi, per cui serbi in core

Di vendetta un pensier, deh! tu dal core
Con viril forza della rea vendetta

Svelli il pensiero e di colui le colpe,


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— 109 —

Per Dio sovrano, a perdonar ti accingi,
Non sperdendo vigor sovra nemici
E sovra amici. Che se vuoi che il fato
Lieto ti faccia di vittoria e principe,
Signor del mondo, con corona e trono
Ed armigeri attorno, ecco! la mano
Traggiti a dietro da le cose altrui,
L'alma tu volgi alla giustizia e amico
A’ tuoi congiunti anco ti mostra e al misero
Che s’affatica, sii custode. E allora
Che a perdonar sarai proclive e il prego
T'arriverà d’altrui, niuno al tuo serto
E al trono tuo distenderà la mano.
Quelli tra i prenci che fùr desti e accorti,
Custodi al mondo da’ nemici, mai
Non ebber danno da’ nemici, e crebbe
Divina in lor la maestade. Assai
Cercaron prenci vincolo di sangue
Con me, per essi, per lor dolci figli
Ingenui sì; ma te soltanto noi
Qui preferimmo e disciogliemmo intanto
A consigliarti questa lingua nostra.

Ratto che si essiccò del regal foglio
Il titolo pomposo, in nero muschio
Un suggel vi fu apposto; e allor che giunse
L’epistola a Khusrèv, quando novella
Sì gli giunse del patto, ai prenci irani
Così ei parlò: Volgesi omai pel cielo
Oggi quest'almo sol per via diversa.
Dal greco Imperatore inclita venne
Un’epistola, e il dir di sue parole
Tutto è in favor di me. Cerca egli intanto
La via diritta perch’ei tronchi alfine
Tra Grecia e Irania l’odio che sì a lungo
Vi perdurò. — Cotal risposta egli ebbe
Da’ prenci irani: Al dì che l'odio antico


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— 110 —

In mezzo a noi si tacerà, nessuno
De’ prenci tutti agognerà del sire
D'Irania nostra la corona, e vuota
La mano allor di suo cospicuo esercito
Non rimarrà. Che se cotesto aggiustasi,

O sire, a' giorni tuoi, sui diademi
Scriveranno il tuo nome i re del mondo!
Poichè di cotal guisa avean consiglio,

D'ogni più estrano sgomberò la stanza
Prence Khusrèv e calami e cinesi

Carte di seta e dell'inchiostro ancora

Il vasel dimandò. Fe' cenno allora

Che il regio scriba a lui venisse, e intanto
In pehlèvica lingua, in quella forma

Ch'è de’ monarchi, e in regal cifra, ei scrisse
Un’epistola sua. Khusrèv, dicea,

Da Dio santo e dal sole errante in cielo

E per la terra immobile, proposte
Accoglie, e dice: « Fin che prence in trono
Assiderò, l’irania terra e l'ampio

Stuol de’ guerrieri e li tesori miei

A me saranno, nè vogl'io di Grecia

Alcun tributo, da’ suoi re, nè genti

Invierò per quella terra. E quante

Di quel confin sono città, le cose

Quante ivi son di prezzo sceme e vili,

Al greco Imperator tutte vogl’io

Rendere ad una ad una, indi mandarne
Scritte le carte col decreto. Ancora

Quella sua figlia ch'è di madre ingenua,
Stirpe di greco Imperator, da lui

Chieggo, al patto conforme, e in tal richiesta
Tutto pongo il mio core. A quelli poi

Che in tua reggia son pur, d’Irania scesi,
Posti sotto al tuo schermo (e son cotesti
Gustehèmme e Shapùr, Endiàn forte,


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— 111 —

Kharràd ch'è di Berzin, della semenza
De' prischi re), la figlia tua tu affida,
L'inclita figlia tua saggia ed accorta,
Ratto che invierai tue genti armate.
Per tal connubio tal son io con teco,
Quale un tempo già fu quella di grandi
Inclita schiera. Gayumèrs il primo
N’era, Gemshìd fu poi; speme e terrore
Ebbe il mondo per lui. Vennero poi

Gli altri d’inclito seme ed eran prenci
Saggi e di schiatta imperial; da questi
Antichi re che avean corona, scende

A Kàvus, a Khusrèv, stirpe de’ Kay,

Il detto mio, fino a Kobàd illustre,

Pel medesmo sentier, per cui giustizia
Fùr congiunti fra lor lupi ed agnelli.
Da lui tu scendi a principe Lohraspe

E da Lohraspe scendesi a Gushtàspe,
Iranio sire, a Isfendîàr pur anco,
Inclito duce d'ogni prence. Fue
Behmèn, illustre e nobile, rampollo
Rigoglioso di lui. Viensi in tal guisa
Ad Ardeshir che Babekàn fu detto,

Pel quale a un tratto nostra sorte antica
Ringiovanì. Khusrèv anche son io,

Che da Hormùzd regnator tragge sua stirpe,
Col greco Imperator d’un cor soltanto
E d'un’indole sola. Al greco prence
Avo prisco fu Salm, nè qui parole
Cercomi invano, e dir non vo’ menzogna.
Or, dal mezzo di noi l’odio d’un tempo
Togliemmo via, sì che una gente sola

. Sì fèr Greci ed Irani, ed io frattanto

Dal greco Imperator la figlia sua,
Fra l'altre figlie sue corona a lui,
Volente accetto, e ben sarà ch'ell’abbia


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— 112 —

Ogni suo pregio, ogni difetto suo,
Mentre a tal foglio mio sta in testimonio
Iddio santo dal ciel. Scritto è il mio foglio
In cifre mie da un capo all’altro, e luce
Han per la terra le mie cifre. Ancora
Il mio suggello a questo foglio apposi
Conforme alla mia fè, conforme ai riti
E alle mie leggi. E dopo te ciascuno
Che fia di Grecia Imperator, del mondo
Prence sovrano con corona e seggio,
Abbia di ciò qual testimonio vero
Questo mio foglio, e l’alma e il senno suo
Riconoscan pur me. Non io da quanto
Or ti diss'io rivolgerommi a dietro
Per cose lievi o gravi mai; le cose
Che or ti diss'io, son licite, son giuste,
E Iddio santo dal ciel con la mia sorte
E col cor mio m'è in testimonio. Intanto
Non t’indugiar per ciò che hai detto; lunga
Si fe’ in questa città la mia dimora ».

Poi che in tal guisa ei pronunciò coteste
Parole sue, la sua notata epistola
Porse a Khorshid, figlio a Kharràd. Levossi
Dal loco suo, qual turbine improvviso,
Il nobil duce e in sella a un palafreno
Balzò di color baio. A corsa ei venne
Del greco Imperator nella presenza
Qual tempesta veloce e a lui ridisse
Di Khusrèv le parole. Allor che sciolti
Ebbe i legami il greco Imperatore
Di quel foglio regale, ei di quell’inclito
Prence i detti mirò, quanti eran savi
In far sermoni ed eran forti e grandi,
Comandò che raccolti a lui venissero,
Signor di Grecia, e tutti ei dimandolli
Ad uno ad un. Qual difesa, ei dicea,


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— 113 —

In questo adoprerò? Qual farem patto
Con l’iranio signor? Per questa epistola
Scuse o pretesti non abbiam, chè sola
Una gente si fe’ l’irania gente
Col popol greco. — E i principi levàrsi
E i saggi ancora e già sciogliean la lingua
Alla risposta. Elli dicean: Siam noi
Tuoi servi e il greco Imperator tu sei,
Sire del mondo con corona e trono
Veramente sei tu. Vedi tu intanto,
Chè il comando è pur tuo col tuo consiglio,
E la persona e l'alma nostra ancora
Cosa son tua, se tu da noi le chiedi.
Il greco Imperator, come ciò intese,
Fe’ lodi a’ prenci suoi d'alto consiglio,
Di fede pura, e là restossi intanto
Fin che la lampa del rotante cielo
E in aspetto e in beltà si fe’ diversa.

_ XV. Il talismano dell'Imperatore.

(Ea. Cale. p. 1920-1922)

Poi che senza color divenne il sole
Errante in cielo e già splendeano gli astri
Con le stelle di Sirio, ecco! fe’ cenno
A un facitor di talismani il sire
Di lungo adoperar pensiero e cura
E in alcun loco, di stupor ben degno,
Talismano elevar, tale, che alcuno
Dall'uman corpo in niuna guisa mai
Discernere il potesse. In nobil seggio
Seder dovea qual femmina leggiadra,
Suffusa di pudor, con lunghe vesti,

Con suoi valletti in questa parte e in quella,




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— 114 —

Innanzi e a tergo con suoi schiavi. Assisa
Ella starsi dovea su l'alto seggio
Senza favella, e somigliar, sì vaga
Qual bianca luna, a femmina piangente,
E le mani levar di quando in quando
A terger da le ciglia una di pianto
Lagrima ardente. In quella guisa appunto
Che udian de’ talismani i facitori,
Con trecce lunghe ei fecero una femmina,
Sì che da lungi chi vedeala, femmina
Innamorata la credea, di fulgida
Luce cosparsa, qual si stesse a piangere
Dolorosa per Cristo. Eran qual nuvola
A primavera, per le molte lagrime,
Le ciglia sue, rosse le gote e vivide.
Poi che toccava il loco suo de’ prenci
Il talismano, al greco Imperatore
Sen venne un consiglier. Ciò che ordinasti,
Disse, noi femmo; in quella guisa appunto
Che tu dicesti, noi compimmo l’opra.
Dal sapiente il greco Imperatore
Come ciò udì, ratto si mosse e ratto
Venne dal trono al talisman dinanzi.
Davver! ch’ei si stupla dî quell’arcana
Opra de’ maghi! E mandò alcuno e innanzi
Gustehèm si chiamò. Diè molte cose
A’ maghi suoi, diè con monete ancora
Suoi doni assai, poi disse a Gustehèmme:
Inclito eroe, qual dolce primavera
Ebbi una figlia, ed ella crebbe, e giunse
Di marito stagion. D’onor voglioso
Un congiunto avev’io, sì che a lui diedi
Questa mia figlia, seguitando legge
Di Cristo, e le scoprii però la fronte
Del velo virginal per mia stoltizia.
Del giovinetto all’inclita dimora


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Io la inviai, ma sen volava al cielo
L’alma, repente, del garzone, ed ella
Or si sta assisa piena di cordoglio

E d'alto affanno, e il giorno suo già chiaro
Fosco si fe’ per lei. Di me consigli

Già non accoglie, nè parola dice,

Sì che per lei s’invecchia e si consuma
Il viver suo novello. Or tu, cortese,
Prendi per te questa mia cura e lei
Vanne a mirar, scegli per lei parole
Degne di saggi, quali ben tu sai,

Quali esser dènno di colui ch'è seme
Di valorosi. Forse fia che teco

Ella disciolga a favellar la lingua.

Questo vo’ farti, Gustehèm rispose.
Forse che dal suo cor trarrò l’amore.

-Così ne andava con aperto core,
Piena la lingua di parole accorte,

Al talismano l'inclito guerriero.

Come fu accanto al trono suo, fe’ cenno
Ossequiando a lui quel talismano
Ingannatore, e Gustehèm valente
Umil si assise e fe’ suoi detti a quella
‘ Femmina che piangea. Venne a’ consigli
Arditamente in pria con detti acconci,
Salutiferi a lei. D'Imperatori
Inclita figlia, dissele, chi è saggio
Mai non si duol dell’opre di giustizia.
Non l’aquile volanti e non ne’ boschi
Hanno scampo da morte i leon feri,
Non i pesci nell'acque. — Oh! dell’eroe
Erano vento le parole tutte,

Chè privo d’alma e di favella privo
Stavasi il talisman! Sol con le dita

Ad ogni istante ei si tergea le lagrime
Là, nel cospetto di colui, facondo


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— 116 —

Medico invero! Ma poichè stupito
Là si restava Gustehèm, qualcuno
Mandava il greco Imperator, chiamavalo
E gli dicea: Deh! che hai veduto in questa
Ch'è figlia mia? Davver! che pel suo affanno
E il suo dolor son io nella rancura!
Molti consigli le porsi io, rispose;
Ma giovevol non fu quel mio consiglio.
Al dì che venne, il greco Imperatore
Disse a Babùy: Compagno oggi tu sii
Ad Endiàn; Shapùr, seme di prenci,
Venga teco pur anco e l’alma nostra
Per questa figlia omai gioconda ei faccia!
Alla dolente figlia mia tu vanne,
Favella a lei dell'inclito signore
D'Irania bella. Forse che tu avrai
Una risposta da esta figlia mia
Onde a me incoglie di dolor gran fiamma
Sovra la fronte; e ben s’addice a voi
A me venirne in questa mia rancura
Alleati ed amici e la mia figlia
Ch'è sì dolente, interrogar. Chè forse
Vostri consigli e ammonimenti e prieghi
Ascolterà, conoscerà qual sia
Vostro pregio e valor. Certo son io
Ch'ella risposta vi darà in tal giorno,
Ratto che voce ella darà cortese
Per rispondere a voi. Così disciolto
Dalla man di costei sì dolorosa
Io me n’andrò, di costei sì, che sempre
Cader si fa nel sen stille di pianto.
I tre Persi ne andar, nobili e illustri,
E di guerre ciascun là favellava
E di battaglie, ma nessun da lei
Vide parvenza di risposta. Quella
Femmina arcana, senza lingua, un alto


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— 117 —

Serbò silenzio; e quei di là ne andavano
Al greco Imperator, scemi d'aita
Al lor giudice andàr, così dicendo:
Parlammo assai, consigli demmo a lei,
Ma nel sentier di sua trista fortuna
Frutto giocondo non apparve. — Disse
Il greco Imperator: Trista è fortuna
Che dolenti siam noi per lei dolente!
Ma poichè da cotesti incliti prenci
Niuna aita egli avea, ratto si volse
AI figlio di Berzin, Kharràd illustre.
Un de’ prenci sei tu famosi in guerra,
Dissegli; forsechè per qualche via
Della mia figlia udir potrai la voce!
Inviò seco un suo fedel da quella
Inclita reggia alla dolente figlia
Il greco Imperator. Come dinanzi
Kharràd, figlio a Berzin, ne venne a lei,
Il capo e il volto e la corona fulgida
Ne rimirava e stavasi per lunga
Ora là innanzi, e feagli intanto omaggio
Il talismano ingannator. Dal capo
Al piè mirava l’inclito guerriero
Quella femmina assai, vedeale attorno
Ancelle molte e molto ei favellava,
Ma non gli rese di risposta verbo
La donna arcana. Oh! quell’illustre e prode,
Figlio di prenci, andò pensoso allora
E disse in cor: Se demente è per doglia
Questa femmina ignota, a che le ancelle
Stanno in silenzio? E se di pianto stille
Agli occhi suoi si stanno, il suo corruccio
Scemarsi anche dovria. Lascia le lagrime
Sul petto suo cader dinanzi, eppure
O da destra o da manca ella alcun moto
Non si conosce, e vanno ad un sol loco


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— 118 —

‘Quelle che spreme lagrime dagli occhi,
Nè si muove la man, nè il piè cammina.
Che se in tal corpo un'alma fosse, ancora,
Oltre la mano e il piè, la sua persona
Mobil sarebbe e in altra parte ancora
Cader del pianto lascieria le stille
E la man volgerebbe in altra parte.
Deh! ch'io non veggo d'anima alcun moto
In questo corpo, e ciò non è che tristo
Talisman di filosofi di Grecia |

Al greco Imperator sen venne il prode,
Rise e parlò: Non è ragione o senno
Congiunto a questa tua fanciulla, vaga
Come candida luna. Un talismano
È questo sì che fe' la gente greca,
Quale Babùy e Gustehèmme ancora
Non discoprîr. De’ principi d’Irania
Rider volesti e rintuzzar de’ nostri
Occhi la vista. Ma l’iranio sire
Come cotesto udrà, riderà forte
Sgangherando le labbra e de' suoi denti
Il bianco argento disvelando. — Vivi,
Vivi in eterno! il greco re gli disse,
Chè d'alto grado tu sei degno, o saggio,
Di ministro di regi! Or io stupenda
Ho nella reggia una mia stanza, e prenderne
Altri non può maggior misura. Allora
Che la vedrai, non saprai tu che sia
L'alto artificio, se di Dio fu l'opra
O un talisman più veramente. — Allora
Che udia cotesto, a quell'antico loco
Kharràd figlio a Berzin ratto sen venne
E scoverse per l'aria alto sospeso
E ritto un cavalier. Così tornava
Al greco Imperatore inclito e illustre
E dicea: Gli è di ferro il cavaliero


<pb n="8.119"/>
— 119 —

E d’un’inclita pietra è la magione,
D’una pietra che i saggi e i sapienti
Dicon magnete, qual di Grecia artefici
Posero sopra d’India al palafreno.

Chi cotesto leggea d'India nei libri,
Vassene lieto e d'anima gioconda.

XVI. Esposizione della religione degl’Indi.

(Ed. Calc. p. 1928-1924).

Il greco Imperator fe’ tal dimando:
Gl’Indi a qual punto trassero lor grado
In leggi e norme? e chi son elli mai
Fra la gente devota? adoratori
D'idoli sono, o chi son dunque? — Disse
Kharràd ch'è figlio di Berzìn, al prence:
La giovenca e la luna in India tutta
Han regno e impero, e là non crede alcuno
In Dio signore e nel rotante cielo,
Alcuno al corpo suo non serba amore.
Ei non vincon però l’errante sole,
Ma noi fra' sapienti in niuna guisa
_Non pongon mai. Qual è di lor che accese
Vivido un fuoco e v’entrò in mezzo e v’arse
La sua persona, che nell'aria è un fuoco
Per comando di Dio libero e sciolto
‘Nelle sue leggi, e crede e afferma, quale
Chiamano i sapienti in India nati
Etere, e acconce usan parole e grate
Il descrivendo. Allor che si congiunge
Un fuoco all'altro, ogni colpa nell’opre
Che l’uom già fea, cancellasi. Per quello
Inevitabil ardere del fuoco,
Esser consunto nella vampa ardente


<pb n="8.120"/>
— 120 —

Opera giusta ognun di quelli estima.
Di là da questo non son vere e giuste
Vostre parole, e in testimonio è pure
L'alma di Cristo. E tu non vedi e sai
Ciò che disse Gesù figlio a Maria

Nel tempo ch'ei scioglieva alti secreti
Da lor loco riposto. « Ecco! se alcuno,
Disse, ti fura il tuo mantel, con esso
Non contrastar per soverchio disdegno,
E se qualcun la guancia ti percuote
Della sua mano e il viso tuo s'infosca
Al suo colpir, non muover tuo disdegno,
Non far pallido il volto e il tuo furore
Fa di assopir, non favellando acerbo.
Di manchevole cibo anche ti appaga
Ne' pasti tuoi, non t’'affannar se strati
O giacigli non hai. Per questa via
Mal che v'incolga, non per voi si estimi
Danno o sventura; così senza affanno
Valicherete de la terra l’ombre ».

Ma si fe’ donno ogni più reo desire
Del vostro senno, e sì sviava il core
Per cupidigia ch'è soverchia. Salgono
Le stelle a rasentar le vostre case,
Trascinano i cammelli de’ tesori
Vostri le chiavi, e co’ tesori vostri
Guerrieri avete ed elmi greci e maglie
In Ad inteste. In ogni loco intanto
Non con giustizia le falangi vostre
Menate e i brandi fuor traete ancora
Da lor pace tranquilla. Ogni fontana
Sen va dispersa per il sangue molto,
Nè Cristo già vi diè consiglio o guida
A cotest'opre. Egli era un poverello,
D'aita scemo, con fatica e stento
Procacciantesi il pane a’ giorni suoi,


<pb n="8.121"/>
— 121 —

E cibi suoi non eran che caciuole

E dolce latte, e imbandigion solenne

L'olio eletto gli parve. Allor che in mano
L'ebbe la gente di Giudea, d’amici

Poi che orbato il vedea, gramo l'uccise,

E ucciso il trasse a un tristo legno e spregio
A sua religion fece con quello.

Il monastero gli fu padre e madre

La sinagoga, ed ei custode in terra

E indagator mostrossi d’ogni male

E d'ogni ben pur anco. E allor ch'eî fue
D'alma serena e sapienza ottenne,

Facondo in favellar, memore e saggio,

A profezia stagion propizia ancora

Tosto rinvenne e in giovinezza tutto

Desio compì dell'alto ingegno. E intanto
Vai tu dicendo ch'’ei di Dio fu prole

E sorridea confitto al tristo legno

In che fu anciso. Ben di ciò si ride
Ogn’uom ch'è saggio, e tu da presso a Dio,
Se hai fior di senno, ti rifugia, a Dio,
Qual non ebbe giammai di donne o figli
Necessità, presso a cui son palesi

Gli arcani tutti de la terra! Lungi

Perchè vai tu di Gayumèrs da quella
Fede verace e dalla via pur anco

Di Tahmuràs e da le norme sue?

Ei dicean che v’è un sol Fattor del mondo,
Che legge non hai tu fuor che servirlo.
L’uom de la villa ch'è del mondo esperto,
Adorator di Dio, quando si prende,

A far sue preci, dì verbene sacre

Un fascio in pugno, mai non può di fresca
Acqua stilla gustar, s'anche per sete
Acqua in sogno ei vedesse. In Dio si atlida
Nel fiero dì de la battaglia, e fresche


<pb n="8.122"/>
— 122 —

Acque non cerca alla battaglia in mezzo.
Di cotal gente il loco al qual si volgono
In lor preghiere, è d'’inclita sostanza,
Maggiore assai di limo accolto e d’acqua
E d'aria pura. Nè lor legge i nostri
Prenci vendono mai, di Dio porgendo
Al comando gli orecchi; e non van lieti
Per monete o per gemme, e gloria e nome
Sol per giustizia van cercando in terra,
Dimore eccelse via donando e il core
Consolando de’ mesti. Al quarto loco,
Se alcuno in giorno di battaglia al sole
Fulgido in ciel con la volante polve
Copre la gota e da' nemici intanto
Guarda il suolo natìo, costui soltanto
Appellan saggio i nostri re. Ma tale
Che di là da giustizia altre si cerca
Cose dalla sua fè, senza felici
Voti per esso, maledetto sia.
Al greco Imperator, come ciò intese,
Caro venne cotesto e le parole
Recàr buon frutto. Al prence iranio ei disse:
Quei che il mondo creò, ti fece illustre
Fra tutti i prenci. Este parole sante
Da te ascoltar si dènno, e tu a' secreti
La chiave hai pronta. Di chi vanta un servo
Di cotal foggia, levasi la fronte
Del cerchio de la luna alta più assai.
D'oro e d'argento da’ tesori suoi
Cercò monete, un’inclita corona
Cercò pur anco e diella al prode e molto
Gli benedisse in tali accenti: Lieta
Vada per te l’irania terra sempre!


<pb n="8.123"/>
XVII. Invio della sposa e delle schiere.

(Ed. Calc. p. 1925-1927).

Indi, poi che già intese a lui venirne
Le sue falangi e per la polve in alto
Da’ cavalieri sollevata intorno
Offuscarsi la terra, ei centomila
Greci eroi trascegliea famosi in guerra,
Belligeri destrieri, armi e denari
Chiedea pur anco, e lunga sovra lui
Correa stagione. Ed una figlia accanto
Eragli ancor, Maria di nome, ricca
Di consiglio e di senno e di desio
Nobile, e saggia. Cofani ei recava
Di tal misura, che veloci e forti
Ne andavan stanchi i palafreni; e v'erano
Dentro composte preziose cose
In fulgid'auro e gemme imperiali,
Rubini e vesti in or tessute e molti
Ricchi tappeti e greci drappi, in cui
Eran d'or le figure ed era il fondo
Seta lucente, e collane ed armille
Con orecchini, tre corone ancora
D'inclito prezzo, a gemme ornate. Ancora
Quattro apprestava palanchini fulgidi
D'or splendiente, di cui tutti i veli
Di gemme imperiali ivano adorni.
Anche quaranta v’erano lettighe
D'ebano tutte, con lucenti gemme
Qual è d'un gallo il fulgid'occhio. Ancora
Venian le ancelle, come luna ai volti,
Trecento, adorne di fragranze elette
E di colori vaghi; e cinquecento


<pb n="8.124"/>
— 124 —

Garzoncelli venìan, vigili, accorti,

Con auree briglie e con argentee barde

A’ lor destrieri. Ma fra i Grecì ancora

Venti e venti gli eunuchi, atti a ferire

Ogni uman cor, tanto leggiadri in volto

Quanto alata Perì, nobili e illustri;

E di Grecia filosofi pur anco

V'erano, quattro, saggi molto ed incliti

E sapienti. Ciò che dir doveasi

Lor disse il greco Imperator, che assai

Anche a Maria leggiadra, in loco ascoso,

D'ogni eletto costume e d'ogni voglia

Nobile favellò, della tranquilla

Pace dell’alma, del sentir pietade,

Di quanto era di lei più degno e bello.
Poi che il greco signor di tante cose

Il novero si fe’, più che trecento-

mila migliaia il novero ne uscia;

Fi sì ad ognun ch'era in sua reggia, un serto

Inviava da porsi alto sul capo,

Aspro di gemme, dava ancor destrieri,

Vesti e monete e molte cose assai

Ch'erano all'uopo. Sovra seta indisse,

D'Irania al re da scriversi, una epistola.
Disse: Davver! che dell'iranio prence

Cotesti servi degni son che in alto

Levino la cervice in fino a quella

Errante luna! Fra monarchi e servi

Non levasi quaggiù chi sia più degno

Di Gustehèmme; e v'è Shapùr gagliardo,

Nobile prence, in far parole acconce

Mezzano accorto. Anche è Babùy, che serba

Fido i secreti, quali a' Persi mai

Non venderia per cosa alcuna. E l’uomo,

S'anche a lungo restò su questa terra,

Tal non vide giammai che ugual si fosse


<pb n="8.125"/>
A Kharràd figlio di Berzin. Del mondo
L’eterno Re il creò, perchè da lui
Ogni secreto sì svelasse; e invero

Egli è qual sol che fulgido risplende,
Scevro di colpa, e son divina cosa

I suoi consigli e l’'opre sue leggiadre.

Nell’epistola sua le cose tutte

Ei ricordava e cenno fea che innanzi .
Sì gli venisse il consiglier, con quello
Un indovin, per che dicesse a lui

Qual fosse di suo andar propizio tempo.

Allor, nel giorno di Behràm, si mosse
Il greco Imperator con buona stella
E con augurio qual del mondo è luce,

E per tre stazioni egli venia

Per suo sentiero. In quella che fu quarta,
Innanzi ei venne a l'esercito suo

E cenno fe' che discendesse a lui

Maria. leggiadra. Molte ebbe con lei
Parole allor, più di misura, e disse:

Fin degl’Irani alla frontiera il cinto
Sèrbati, o cara, e non disciòrne il fianco.
Bello non è che discinta ti verga
Prence Khusrèv, chè inusitata cosa
T'incoglierebbe. — Questo ei disse, e intanto
Con molto amore accommiatolla. Il cielo
Deh! ti sia amico nel tuo andar, soggiunse.

Niyatùs battaglier del greco prence
Era fratello e duce era a’ suoi prodi
In quella guerra. Ei dissegli: Maria
T'è congiunta di sangue, e a ciò mi appongo,
Ch'ell’è della tua fè. La figlia mia
Con l’inclita ricchezza a te confido
E l’esercito ancor di tal maniera
E adorno e pronto. — Niyatùs l’incarco
Prendeasi allora, e quei dicea que’ detti


<pb n="8.126"/>
— 126 —

E la fronte volgea piangendo assai,
Mentre già per la via d'’Aurigh lontana
L'esercito n’andava e il precedea

Con spada e clava Niyatùs valente.

Ratto che intese avvicinarsi esercito
Prence Khusrèv, dalla città menavane
I prodi suoi su l'ampia via. La polvere
Poi che mostrossi de' venienti principi
E il vessillo appari di quelli, in fulgide
Corazze, prodi cavalieri, e rapido
Stuolo ascendea come vagante nuvola,
Guerrieri tutti, in lor corazze ferree
Alto rinchiusi, con elmetti in nitido
Ferro battuti, di Khusrèv sorrise
Subito il cor per quelle squadre illustri,
Qual ride in un giardin vivida rosa
A primavera. Quel suo cor sereno
Il gran sire eccitò, del suo leardo
Le zampe ei fe’ levar balzando fiero,

E Niyatùs com'ei scoverse, al petto

Lo strinse e dimandò, cortesi e liete
Incominciando le accoglienze. Inchiesta
Fece del greco Imperator che tanto
Ebbe travaglio e si vuotò un tesoro
Dell'esercito suo per l'alta cura.

Indi ne andava al palanchino e sotto
Ai bianchi veli di Maria la fronte
Vedea bramoso. Ei la inchiedea, poneale
Un bacio su la man, tutto allietavasi
Per colei sì leggiadra in suo bel volto,
E recavala sì nel suo recinto
Destinando a colei, vaga qual luna,

Un loco ascoso. Ebbe con lei sermone -
E tre giorni con lei là si rimase,

E al quarto dì, nell’ora che splendea
Quest’almo sol ch'è luce al mondo, eletto


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— 127 —

Un padiglione gli apprestàr le genti

E Niyatus gli appellàr nel cospetto

Con Serkib e con Kut, prode guerriero,

Del greco stuolo in tutte cose, grandi

E picciole pur anco, e duci e prenci.
Lor disse re Khusrèv: Quali son dunque

I capitani e gli uomini guerrieri ?

E chi è colui che con ferro e con clava

Mena suoi colpi e in improvvisi assalti

La vita sua non si risparmia, e allora

Che incontro viengli o leon fero o pardo,

Non si ritrae della tenzon nell'ora ?
Settanta eroi che sanguinoso assalto

Della pugna nel dì spinger soleano,

Scelse allor Niyatùs. Mille guerrieri

Ivan di lui sotto a’ vessilli, scelti,

Astati cavalieri. Ecco! l’eletto

Stuol poi che vide re Khusréèv, que’ forti,

D’alta cervice cavalieri, amanti

D'aspre tenzoni, benedisse a Dio

Che il ciel creò, creò la terra e il tempo,

E benedisse a Niyatùs, a quello

Ampio esercito, al greco Imperatore,

Inclito e illustre, ed alla terra sua,

E disse a’ prenci: Se in tal guerra Iddio

Mi fia propizio, spiegherò la mia

Regal possanza e l’ampia terra intorno

Splender farò, quale un gran mar, di gemme

Voi del vostro venir siate omai lieti,

Sceglietevi parlar sommessamente,

Chè nulla vuolsi qui fuor che d’amici

Nobil pensiero. Aura d'amor ci adduce

Dagli orti attorno questo ciel sereno.


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— 128 —

XVIII. Andata di re Khusrev
in Azer-AbAdagAn.

(Ed. Calc. p. 1927-1929).

Il re leggiadro, al giorno che fu settimo,
L'esercito apprestò nitido e bello
Come il rotante ciel. Fragor di timpani
Levossi allora da le soglie e l’etra
Scura si fe' qual d'ebano una scheggia
Di tante genti all’atra polve. Elesse
Di Persi re Khusrèv nobile schiera,
D'Azer-abadagàn la via prendea
Da quel campo così. Due settimane,
Per comando del re, l'ampio drappello
Andavane e scendea di quando ìin quando
Agli steccati. Li recinti suoi
Di Duk nella campagna il re figgea
Con sì gran gente e i manipoli greci
Che lo segulan. Ma le falangi poi
A Niyatùs egli affidò. Tu prence
Di cotal greggia sii per me, gli disse.

Di là, con suoi gagliardi cavalieri,
Abbandonando ai rapidi cavalli
Le redini disciolte, egli alla via
Si volse di Khangest; pensoso in core
Venne cercando il suo sentier. Ma intanto
Al loco ove Mausil, armeno prence,
Avea soggiorno e fra i monarchi libero
Nel suo comando si tenea, dimora,
Là nel suo vallo, avea Bendùy. Bendùy
Del nobile signor gloria cercantesiì
Era materno zio. Come in quel loco
S'ebber novella che Khusrèv tornava,


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— 129 —

Elli correndo da que’ campi vennero

Su quel sentiero, ei due di mezzo all'ampia

Lor falange balzàr, quando alla via

Dalle sue schiere gli occhi suoi levava

Khusrèv a riguardar. Disse egli allora

A Gustehèm: Cotesti due chi sono,

O valoroso, che correndo vengono

Per la campagna dell'assalto? Ad essi

Volgi lo sguardo per veder chi sono

E perchè mai di cotal guisa ei vanno

Rapidi in corsa. — Gustehèm gli disse:
Credo, iranio signor, che il cavaliero

Che bianco e bruno ha il palafren, Bendùy

Sia veramente, il fratel mio belligero.

Ma d’altra gente è quel compagno suo.
Dissegli re Khusrev: Che di’ tu mai?

A che cerchi Bendùy? Se vivo il cerchi,

Egli in carcere sta; se morto il cerchi,

Da un legno ei pende a la palestra in mezzo.
Dissegli Gustehèmme: O re, tu guarda

Attento, ch'egli è sì veracemente

Il materno tuo zio. Quando colui

Qui sarà presso ed altri fia, da questo

Gustehèm cinguettier nulla tu chiedi

Fuor che la vita sua. — Giugneano intanto

Ambo i guerrieri appo l’iranio sire

E di sella balzavano a quel loco

D'ombre allegrato. Poi che più vicini

Si feano a re Khusrèv, laudi gli fecero

E omaggio gli prestàr. Questa dimanda

A Bendùy fe’ Khusrèv. Detto avre’ io,

Disse, che te sotto la terra oscura

Trovato avrei nascosto! — E quei narrava

Tutto a Khusrèv ciò che l'incolse e quale

Ebbesi da Behràm d’umani sensi

Prova cospicua, e gli dicea di quella




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— 130 —

Ch'ei si cercava, in quel giorno funesto,

Arte sottil, di quel vestir ch’ei fece

Regale ammanto. Questo egli narrava,

E re Khusrèv ne lagrimava assai,

E questi detti gli volgea: Costui

Chi è dunque? — Sire che hai di sole aspetto,

Bendùy rispose, a che non fai dimandi

A Mausìl con amor? Fin che tu fosti

Fuori d'Irania in greco suol, costui

Mai non si prese in abitati lochi

Suoi dolci sonni, ma le chiostre sono

Il loco suo nel gran deserto e casa

Tende gli sono e padiglioni. Seco

Son prodi assai, tesori anco e monete,

Ed armi, arnese de’ possenti. Ed ora

Ei si tenea su questa via lontana

Fin che venissi, chè desio nel core

Egli si avea che il prence suo tornasse.
A Mausll così disse il re del mondo,

Prence Khusrèv: Come restava ascoso

Il tuo travaglio e la tua cura? Or noi

SÌ ci adoprammo per che i giorni tuoi

Fosser beati e il nome tuo fra i grandi

Grandeggiasse pur anco. — O nobil sire,

Mausiìl gli rispondea, deh! tu rinfresca

La sorte mia che giace, ond'io ne venga

E ponga un bacio a le tue staffe e lode

Faccia pur anco a maestà ch’è tua,

A tua grazia così! — Dopo tua cura,

Dissegli re Khusrèv, farò per queste

Parole tue risplender tuo tesoro,

E satisfar nel tuo desìo ben voglio

Il tuo dimando e innalzerò fra i prenci

D'alta cervice il nome tuo. — Traea

L’un piede allor fuor da le staffe; innanzi

Impaziente si fe' il prode, vigile


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— 131 —

In suo dimando, e l’aurea staffa e il piede

Baciò del suo signor. Davver! che attonito

Ei si restò per terror che n'’avea !

Ma poichè là si stava e inerte e a piedi

L’uom devoto al suo re, quel re del mondo

Ch'’ei tornasse in arcion ratto fe’ cenno,

Indi spronando il palafren da quelli

Deserti campi fino al sacro Fuoco

Venne d'Azergashàspe, assai correndo.
Mormorando sue preci ei nel delùbro

Entrava allor; trafitto era quel core

D’angoscia acerba. Ma venia dinanzi

A quell’inclito re fedele a Dio

Col Zendavesta in mano un sacerdote,

E allor dal fianco l’aureo cinto suo

Il re disciolse e gittò alquante gemme

Sul fuoco ardente. Fi sì, dinanzi a quella

Fiamma sacrata, con ossequio umile,

Venne e molto pregò fra pianti e lai,

De' sacerdoti superando voce,

E così disse: O di giustizia eterna

Giudice santo, de' nemici miei

La fronte atterra. Ben sai tu ch'io prego

Per giustizia che cerco, e meditando

Sentier men vo d’opre leggiadre. Ingiusta

Opra d’ingiusti oh! non accòr, Signore!
Questo egli disse e l'aurea sua cintura

Si strinse al fianco novamente e mosse

Verso ai campi di Duk, trafitto al core,

Sua via cercando. E poi che si tornava

Agli steccati de’ suoi prodi ancora

E già la terra si oscurava e lenta

Salla la notte, vigili a l'intorno

Sue vedette ei mandò che investigassero

Le cose di quaggiù. Come la gente

Là del Nimrùz ebbe novella certa


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— 132 —

Già ritornarsi per la via lontana
L'inclito re, luce del mondo, i timpani
Ratto sul dorso agli elefanti avvinse

E la terra ondeggiò come l'azzurro
Mare talvolta. All’inatteso annunzio
Rinnovavasi allor di tutti il core,

Tutti alleati a re Khusrèv ne andavano.

XIX. Lettere di BehrAm intercettate.
(Ed. Calo. p. 1929-1982).

Come giunse a Behràm novella certa
Già riprender vigor quella d'Irania
Imperiale maestà, cercossi,

Fra l'esercito suo, ricco d'onore

E di saper chi fama per la terra
Procacciarsi volesse. Era di tale
Dara-Panàh l'inclito nome, ed ei

A principe Behràm era devoto

E amico e fido. A sè chiamava allora
Sire Behràm l’inclito scriba e seco
Parole acconce avea, poi comandava
Che ampi fogli e patenti altri scrivesse
A que’ prenci superbi, a Gustehèmme,
A Bendùy, a Gherdùy prode e valente,
Quale s'avea fra i prenci tutti attorno
D'eroe la fama, anche a Shapùr e a quello
Endiàn cavaliero, a ognun che fosse
Di gagliardi l'erede. Ecco! l’epistola
Queste parole al suo principio fea:

Nel mio secreto a Dio, fattor del mondo,
Chieggo tal grazia perchè desti voi
Tutti siate dal sonno e per tal guisa
Non v’affrettiate al mal. Da che nel mondo



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— 133 —

Manifestossi fra regnanti e servi

De’ Sassanidi il seme, altro per essi

Non venne che malor sempre più grave,
L’andar raminghi per la terra e fieri
Scompigli e liti. E primamente fosca

Si fe’ la terra per la spada rea -
D’Ardeshìr Babekàn, quando nel mondo
Si rinnovò l’antica guerra. Allora,
D’ogni prence restò confusa e attonita
La mente chiara. Ma vogl’io primiero
Ardevàn ricordar, que’ prenci ancora
D'alma serena, del cui nome a un tratto
Orba la terra si restò, di doglia

Restò pieno l’ostel di lor grandezza.
Anche t'udisti quale incolse male

A Sufrày da Pirùz, tristo ne' suoi

Tristi consigli. Dalle sue catene

Sciolse il piede a Kobàd, Kobàd fra i prenci
Lui sol trasse a morir. Forza prendea
Robàd maligno e via dal core intanto
Virtù cacciava e reo costume in core
Prendea volente, sì che uccise poi
Quello sì fido, celebrato ed inclito,

E contro a lui de’ principi frattanto
Induravasi il cor. Chi non è degno

Di sua famiglia e le sue triste brame
Innanzi pone a' figli suoi, non degno
Degli estrani è pur anco, e niuno in terra
Cercasi avorio d’una pianta d’ebano

Là tra le fibre. Ond'è che la speranza
Non riponete ne’ Sassàni prenci,

Da salce che rosseggia al tardo autunno,
Vago rubin non si ricerchi; e allora
Che a voi si rechi questo foglio mio

(E lieta sia vostra fortuna!), voi

Questo sappiate che appo me cospicuo


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— 134 —

E vostro loco e le tuniche sempre

Han pettorali e maniche pur anco.

E pace e sonno a un loco avete voi

Ch’è a noi da presso, allor ch’è spento il sole

E allor che alto sen va. Ma qui da presso

Ratto che giunti voi sarete, questa

Alma mia fosca si farà serena,

Chè allor nullo pensier m'avrò di Grecia

E del suo prence, ma la testa sua,

Ma il trono suo calpesterò col piede.
Suggello di Behràm sovra l’epistola

Fu apposto allora e andava il messaggiero

Cercando la sua via. Qual è costume

De’ mercatanti, andavane veloce,

Con fiero incesso, di Khusrèv salia

Al regio ostello. D'ogni merce avea

Con seco un'ampia carovana e doni

Avea pur anco oltre a que’ fogli. Vide

La grandezza regal, vide l’esercito

Sì grande, sì che dir poteasi allora

Non restar per la terra un varco schiuso,

E disse in core: Or chi vorrà, con questo

Nobil signor, cercarsi aita e schermo

Presso Behràm, benchè gagliardo ? Tale

Son io di Persia e alcun nemico in terra

Veramente non ho, some qui reco

Di ben trenta cammelli. Oh! perchè mai

Darmi a morte dovrei, quando già sorge

Real grandezza da l'abisso? Intanto

Andrò, presso a Khusrèy di quello i fogli

Io recherò, novelli doni a lui

Così offerendo. — Ne’ pensieri suoi

Entrò costui nel regio albergo, i doni

Recando e i fogli del nemico duce,

Monete offerse e le offerì con tutti

Gl'incliti doni e con i fogli, e tutte


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— 135 —

All’iranio signor le intravvenute
Cose ridisse. Come i fogli lesse
Il re del mondo, sovra un aureo seggio
Assiso volle il messaggiero e disse:
Uomo accorto d'’assai, vile e dappoco
Behràm tu estima accanto a me. Tu intanto
Per ciò che festi, d'ogni voglia tua
Al fin se’ giunto, ma in cotesta impresa
Più di quello che hai già, non chieder nome.
E comandò che il regio innanzi a lui
Scriba venisse, e una risposta a quella
Inevitata lettera in ben lunghe
Epistole notò, così dicendo:
Prence che altera hai la cervice, noi
I tuoi fogli leggemmo e a noi dinanzi
Il messaggier vollimo assiso. E invero
A re Khusrèv siam noi ne le parole
Devoti e fidi, ma col cor siam teco
Pari a novella primavera. Allora
Che menerai l’esercito tuo prode
In su questo confin, chi mai di Grecia
Si darà cura o degli eroi di Grecia?
Tutti noi fuor trarrem le spade allora
E i greci eroi nell’orrida tenzone
Truciderem. L'esercito tuo grande
Quando vedrà prence Khusrèv, tua forza
Quand’ei vedrà con l’alto grado tuo,
Quel cor suo tremerà nel fatal giorno
Della battaglia e come volpe in fuga
Dal tremendo tuo aspetto andranne lungi.
Suggello appose a l'epistole sue
L’iranio sire ed a quel prence amico
Sì le affidò. Dissegli il re: Buon frutto,
O saggio, sì t'avrai di tua fatica!
E gli diè gemme e gli donò monete,
Assai rubini di gran prezzo ancora


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_ 136 —

A lui donò. Dissegli poi: Tu reca

Tosto a Ciubineh questi fogli miei,

Le udite cose gli ripeti; e allora

Che suo splendor ripiglierà la mia

Inclita sorte, libero da trista

Necessità ti serberò alla terra.
Dara-Panàh da quel regale ostello

Andavane così; correa sua via

Di nembo in guisa. Ei sì, giovane e forte,

L'epistole recava, e quelle epistole

Avea da lui l’altero capitano.

Come costui, bramoso di sua gloria,

Que’ fogli lesse, ogni più stolta brama

A sè chiamossi e mandò senno in bando;

Poscia, dopo l’epistole, la sua

Partenza apparecchiavasi, e gl'Irani

Stupian di tanto. Accorsero i vegliardi

Appo quel forte, e poi che l’opre sue

Vedean confuse e tenebrose, ognuno

Così gli favellò: Deh! non andarne,

Chè se tu vai, questo novello giorno

Discende a tarda età. Se in suol d’Irania

Viene prence Khusrèv, nulla vedervi

Ei non potrà che belligere spade

E clave in ferro; ma tu in questa sede

Imperial non perder tua fidanza,

Chè ben potria la sorte in strana guisa

Trarti in inganno. — E non aveano frutto

Queste parole su colui, chè cenno

Fe’ sì che a lui venisse alto a le porte

L'esercito fedel. Tutte ei raccolse

Le provvigioni ed ordinò sue schiere,

Battè i timballi e le falangi tutte

Dalla città condusse fuori. Corse

D'Azer-abadagàn verso li campi

Animosa de’ Persi la falange,


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— 137 —

E questa a quella gente era vicina
Già già d'assai, sì che ad erranti insetti
Tutte fùr chiuse del passar le vie.

Ma quel servo di re, di pugne amante,
Così dicea: Davver! ch'io la nemica
Schiera bramo veder! Vedrò chi sono
Questi di Grecia cavalieri, esercito
S'ei son di guerra e perchè sono. — Allora,
Tutti salian su’ lor cavalli i prodi,

Principe Ized-Gashaspe e Yelan-sineh,
L'esercito a mirar ch'era nemico;
Essi, di gran valor, prendean la via.

Poi che vedean l'esercito guerriero,
Tornavano e venian correndo al duce
E sì dicean: Falange ell’è cotesta
Che confine non ha; diversa è cosa
Da ciò che ne pensammo. — E di rincontro
I greci cavalier del prence iranio
Veniìan correndo al regio albergo e quivi,
Di re Khusrèv nella presenza, cinsero
L'armi lucenti. Oh! noi con questi Irani
Cerchiam la pugna! elli esclamàr.— Convenne
L'iranio sire in questo che volea
La gente greca, desiderio intenso.

XX. Prima battaglia di Khusrev e di BehrAm.

(Ed. Calc. p. 1932-1985).

Quando su la montagna tenebrosa
Ergea la fronte questo sol, levossi
D'’ambe le schiere un fiero grido, tale
Che detto avresti col rotante cielo
Confondersi la terra. Oscura intanto,
Per le spade levate, al sole ardente


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— 138 —

Si fea la gota, e l’esercito a manca
Ordinavasi e a dritta, e una montagna
Parve di ferro la pianura. Allora,
Al nitrir de’ cavalli ed alle voci
Dell'esercito accolto, il suol parea
Tremar sconvolto e rincorrere ai monti
Di sotto ai piedi; e Behràm bellicoso
Che cotesto vedea, trasse la spada
Fulgida e bianca. No davver! che in core
Timor non gli venia, non tema o affanno,
Mentre già il cor de’ leon feri al campo
Per terror si frangea. Gli ordini vostri,
Disse agl’Irani, schierinsi per voi,
Voi di Duk per i campi distendete
L'ampia falange. — E s'aggirò dintorno
All’esercito suo, solo egli intento,
Per guardarlo da destra e da sinistra,
E a Yelan-sineh disse poi: Nel mezzo
Dell’esercito mio tu resta intanto,
Qui nel cospetto de l’altra oste, ch'io
Oggi mi sono in quest'ampia falange
Un combattente, e qui starò indugiando
Anche nel tempo de la vasta fuga.

Ma Khusrèv riguardava al tristo campo,
Vedea la terra intenebrarsi tutta
Per l'esercito accolto, e oscura e fosca,
Qual è la strozza d’un leon, la gota
Del sol lucente; piover da le nubi
Ferri taglienti detto avresti allora.
Ond'è che il sire e Gustehèm con lui,
Niyatùs e Bendùy, dal tristo campo
Vennero ad una altura. Ivi, sul monte
Che di Duk si dicea, que' prenci assisero,
Volti ambo gli occhi a' lor fedeli al piano,
E dall'alto del monte ogni drappello -
Khusrèv prence vedea, sinistra e destra


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— 139 —

E il medio punto e l’ale ancor. Ma quando
Fragor levossi in questa parte e in quella
Di timpani sonanti e s’avanzaro
Belligeri gli eroi, detto tu avresti
Ch'era quella di ferro una montagna
E che nemico il ciel guerra portava
Alla terra di sotto. Allor che vide
La gran faccenda re Khusrèvy dall’alto,
Come vide mischiarsi e cielo e terra,
In pehlèvica lingua a Dio si volse:
Santo, che vinci ogni più grande in terra,
Oggi chi mai si tornerà beato
Dalla tenzone? e chi ben sa cotesto
Fuor di te che se’ giusto? Oh! di chi mai
Cadrà vinta la sorte e la sua lancia
Muterassi in vilucchi e in schegge acute?
Di principe Khusrèv l’alma ed il core
Così eran pieni di pensieri, e intanto
Dinanzi agli occhi suoi foresta oscura
Era la terra, quando fuor balzava
Principe Kut agli ordini dal mezzo,
Qual negro monte per le ferree maglie.
De le schiere dal mezzo ei venne a corsa,
Come salse più accanto alla ventosa
Cima del monte, fe’ a Khusrèv tai detti:
Signor d’altero capo, or. cerca e vedi
Ove mai sia quel servo tuo che l’arti
Hassi dei Devi, contro a cui tenzone
Già in Irania t’avesti e a cui dinanzi
Fuggisti, com'egli ebbe ogni sua brama
Laggiù compiuta. Da sinistra vedi
E da man dritta, ov’egli è mai, nel mezzo
Di tanti grandi, perch’io ratto a lui
L'arti insegni di guerra ed egli il core
Vegga e la forza d'uomini che fanno.
Da Kut come ascoltò queste parole


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— 140 —

Prence Khusrèv, per quell’antico assalto
Ebbesi il cor pieno d'angoscia. Detto
Avea colui: « Tu fuggisti da un servo,
De’ cavalieri via gittasti l’armi », —
Sì che non diògli per le sue parole
Risposta alcuna, ma quel cor d’affanno
Ratto fu pieno e quella mente sua
Piena di sdegno. Eppur, così poi disse
A Kut guerrier l'iranio prence: Vanne,
Vanne contro a l'eroe che bianco e bruno
Cavalca un palafren. Quand’ei ti vegga,
Ti verrà incontro a far battaglia, e tu,
Tu non fuggir, che per vergogna ed onta
Mordere il labbro non ti deggia poi.
Kut, come udia quelle parole sue,
Si ritornava, e fu davver qual fosse
Congiunto a vento repentino. Venne
Alto fremendo con la lancia in pugno,
Venne, come elefante in suo furore,
Della battaglia al campo. Oh! Yelan-sineh
Grido a prence Behràm così mandava,
Vigile e accorto, o cavalier belligero,
Sèrbati omai, chè venne un tristo Devo
Come elefante furioso, un laccio
Al culmo de l'arcion, l'asta nel pugno!
Behràm, come l’udì, trasse la spada
Dalla guaina rapido qual nembo,
Nome invocò di Dio. Khusrèv, che d'alto
Questo vedea, levossi in piedi e il capo
Tenne sorretto su l'aerea cima
Della montagna, volti gli occhi intenti
A Behràm ed a Kut, pieni di lagrime
Gli occhi e di cruccio pieno il core. Intanto,
Balzò dal loco suo con l'asta in pugno
Il greco eroe, puntò suoi piedi al suolo
Behràm, voglioso di poter. Ma nulla


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— 141 —

Poi che l'asta gli fe’ del suo nemico,
Contro a lui s'avanzò l’uom bellicoso
Protendendo la targa, e un colpo grave
Sì gli sferrò con la tagliente spada
AI collo e al petto, che partiane in due
In fino al casso la persona fiera.

Poi che il fragor de la cadente spada
A Khusrèv giunse, in rimirar quel colpo
Di Behràm, ei sorrise. Oh! gli occhi suoi
Soechiudea Niyatùs, prence guerriero,
E si crucciava di Khusrèv pel ridere
E gli dicea: Non bello, o glorioso,
È il rider, come fai, nella battaglia.
Altro non hai ne le battaglie tue
Che astuzie e fraudi, e veggo che il tuo core
Dorme, i tuoi padri in vendicar. Non vedesi
Qual era Kut, figlio d’Hezàreh, un prode
In Grecia o Irania e non in ogni terra
Colta a l’intorno. E tu ridendo vai
Poi che ucciso ei cadea! Sappi che cade
Precipitando la fortuna tua!.

Non di sua morte, re Khusrèv gli disse,
Non del tronco suo corpo io vo ridendo,
E questo sappi che qual d'altri gioco
Si fa da insano, colpi orrendi tocca
bal ciel rotante. Kut mi disse: « Un giorno
Tu fuggisti da un servo, e tal valore
In te non fu, sì che a giostrar con lui
Non discendevi! » E non è già vergogna
Da tal servo fuggir, quando son tali
Dell’assalto nel giorno i colpi suoi.

Ma queste voci da l’opposta parte
Mandò prence Behràm: Famosi prenci
Di nobile lignaggio, o Yelan-sineh,
O Ram, o Ized-Gashàspe, ecco! l’ucciso
D'uopo è legar di suo destriero al dorso.



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— 142 —

Al campo suo di qui "1 mandate, e il vegga,

Vezgalo il suo signor con gli occhi suoi.
Di Kut la spoglia de la sella al culmo

Uomini esperti di battaglie avvinsero

Con fermo nodo, e rapido il destriero,

Con quel guerrier d’alta cervice un giorno,

Al campo suo tornavane. Dolente

Fu il cor di re Khusrèv per Kut anciso,

E le sue genti sciolsero a l’estinto

Del laccio i nodi. Sparse muschio il prence

Su l’'aperte ferite e fe’ comando

Che, terse e asciutte, ricucite fossero

Acconciamente. In carbaso fe' avvolgerlo,

Con la corazza sovra il petto e stretto

Nel cinto il fianco, e al greco Imperatore

Con tal messaggio il rinvid: La spada

Di questo servo che d'un Devo ha l’arti,

In questa foggia recidendo cade

Nel giorno de l'assalto; e s'io da lui

Un dì fuggii, non è per me vergogna.
Tutti feriti al cor di Grecia i prodi

Erano, tutti avean trafitto il core

Senza d'armi tenzon. Versavan quivi

Stille di pianto i patrizi di Grecia,

Con lagrimose ambe le gote e il core

Pien di corruccio. Diecimila vennero

Eroi d'altera fronte e cavalieri

E valorosi e cattolici e ratto

E in cotal guisa impeto fèr, che il monte

Tutto alle voci de’ forti di Grecia

Crollavasi e scotea. Fragor levossi

E s'udîr voci di pugnanti duci,

Cozzar di clave ponderose e fiero

Urtar di ferri, e detto avresti il mare

Gonfio levarsi e gemere sanguigne

Stille rotando il ciel. Pei molti uccisi


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— 143 —

Già s’arrestan gli eroi fermi a’ lor posti

E chiuso è il varco. Oh sì! schiera infinita

Giacque uccisa de’ Greci e ognun giacea

Qual era duce tra que’ forti. Intanto,

Di lor per doglia, di Khusrèv trafitto

Andava il core, ed egli i corpi infranti

De’ vivi ancor fasciando iva con cura,

E gli uccisi in un cumulo dolente

Tutti gittar facea che d'un gran monte

Levossi in guisa. Behràm-cìd fu detto

Il cumulo, e Khusrèv togliea sua speme

Dai greci eroi. Dicea: Se l’uom di Grecia,

Un'altra volta ancor, mena l'assalto

In questa guisa, sappi omai che ratto

Libero andrà da popol greco il mondo;

Sappi che loro acciar tanto ha di peso

Quanto di cera un picciol globo. — Allora

A Serkib così disse il prence iranio:
Dimani, all’opra de la guerra i tuoi

Greci non addurrai; diman ti posa,

Per ch'io sospinga vindice uno stuolo

D'Irani all’armi. — Ed agl'Irani ei disse:
D'uopo è che voi, dimani e senza indugio,

Scendiate alla tenzon! — Farem cotesto,

Dicean concordi, perchè il monte e il piano

E le pendici uguaglinsi per noi!

XXI. Seconda battaglia di Khusrev
e di BehrAm.

(Ea. Calc. p. 1935-1940).

Ratto che si levò dal mare azzurro
Del nuovo sol la candida bandiera
E lor speme perdean le erranti stelle


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— 144 —

Ne l’ombre che fuggian, da l’una e l’altra
Chiostra del campo usciro i timpanisti
Con trombe ed elefanti. Ecco, di tibie

E di tube levossi alto un concento

E un barrir d'elefanti e di timballi

Un fremer cupo. Detto avresti allora
Che crollavansi il monte e la pianura,
Quando già, come penna di corvino
Augello in ciel, s'intenebrò la fulgida
Gota del sol. Poi che gl’'Irani al campo
Lor ordini schieràr, tutti con l’aste
Strette nel pugno e con lor ferri d'India,
Detto avrestù che l'ampia terra intorno
Era tutta a corazze e che le stelle
Prendean lor raggi da le lancie acute.

Poi che ordinato di sue schiere il mezzo
Ebbe prence Khusrèv, tutto l’esercito
Core si prese, ed eragli custode
Gherdùy a l'ala destra, ei ch’era forte
Ed animoso e amante di grandezza,
Eragli a manca un uom d'Armenia, nobile,
Con usbergo e la spada eretta in pugno
Qual d’Ahrimàne. Sipansàr v'è pure,
Endiàn e Shapùr, tutti alla pugna
E accinti e pronti. Gustehèmme intanto
Di re Khusrèv teneasi a lato e lui
Guardar dovea da’ colpi de’ nemici.

Ma principe Behràm che non vedea
Nel campo i Greci, s'indugiò, si stette
Silenzioso. Comandò che i timpani
Alti sul dorso agli elefanti avvinti
Fosser da’ suoi, e del mondo la faccia
Parve di Nilo la corrente allora.

D'un candido elefante in su le terga
Egli si assise, e nel destin la speme
Perdeano omai li soci suoi. Spingea


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— 145 —

Quell’elefante al destro corno e intanto
Fea tai detti a Shapùr: Deh! tu malvagio,
Questa non era la impromessa tua
Nella epistola tua, che tu venissi
A me di contro in tal campo di sangue!
Questo non è de’ liberi di Persia
Vero costume e insanamente il corpo
Tu stesso a uccider dài! — Figlio di Devi,
Shapùr gli rispondea, nel tuo servaggio
Alta hai levata la cervice. Or come
O nome o indizio hai tu d’un foglio mio,
Qual ricordando vai dinanzi a’ prenci?
Disse a Shapùr Khusrèv illustre: Quella
Epistola ch’ei dice, era conforme
Al suo consiglio. Ma condegno premio
Per tal foglio avrai tu, da me, dagl’incliti
Di quest'ampia falange. Allor che tempo
Sì ne verrà, favellerò con teco,
Purificando te dal reo sospetto.
Poi che la voce di Khusrèv intese
. Behràm guerriero, l'arte di coluì
Vide nel suo pensier. Fiero sdegnossi
Per l’opra grave ed onta gli sorvenne,
Ond’ei, nell’ira sua, desìo si prese
D’un aspro assalto. Con maligno intento,
Solo, sul dorso a l’elefante suo,
N'andò diritto e al medio punto ov'era
Prence Khusrèv, s’incamminò. Ma quando
Vide cotesto re Khusrèv, Deh! fiero
Leone di gran cor, disse a quel forte
Endiàn, su cotesto alto elefante
Pioggia di dardi rovesciate voi,
Come nuvola fosca a primavera
Fate voi gli archi vostri. — Or, degl’Irani
Qual era lieto nella sua fortuna,
Tese la corda all'arco suo. Ma intanto





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— 146 —

Dell’elefante di Behràm l’incurva
Proboscide tal fu, per le confitte

Punte mortali, che ben detto avresti
Dell’ardua belva da le aperte -piaghe
Uscir di sangue un nero fiume. Allora
Chiese prence Behràm un palafreno

E chiese un elmo che adornar potea
Una fronte regal. Novellamente
Ripigliavasi allor de le volanti

Punte la pioggia che cadean su quello
Destriero di Behràm, che alta ed eretta
Avea la fronte. A piè rimase allora
L'uom belligero e tosto il lembo estrenco
Dell’ampia veste si raccolse al cinto,
Indi lo scudo si recò alla fronte,
L’acuta spada levò in alto, e orrendo
Cacciò scompiglio ne le avverse schiere.
Da Behràm si fuggiano i fanti allora
Pel vasto campo e gittavano gli archi
Che Ciaci lor mandò. Ma in quell’istante
A Behràm fu recato un palafreno,

Ed ei sopra vi ascese, ei di guerrieri
Inclito prence, rapido e veloce.

Urlando egli correa del vasto campo
Al medio punto, ove l’iranio prence
Stava co’ prodi suoi. Quivi ei rompea
La media schiera sì che sparve a un tratto
Del duce iranio l’inclito vessillo,

Poscia di là ver l’ala destra in corsa
Andavane, e da sezzo eran de’ Persi

Le provvigioni. Ma poichè vedea
Khusrèv, a manca ei si ritrasse in corsa
Come agnel che da lungi ha visto il lupo.

Gherdùy custode era a quel punto, forte
E valoroso ed avido di gloria;

E il fratel come vide a sè dinanzi



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— 147 —

Il volto del fratel, tese la corda
Dell’arco e trasse. In cotal guisa i due,
D'uman sangue bramosi, accapigliavansi,
Che detto avresti ambo fra lor confondersi,
E lunga l’ora trapassava, e quello
Da questo già ritrar non si volea,
Fin che Behràm primo gridò: Di padre
Tu che se' privo, a che t’accingi al sangue
Del tuo fratello? — Vecchio lupo, a lui
Gherdùy rispose, non udisti quella
Antica istoria ? « Se il fratello è amico,
Buona cosa è davver; ma s'è nemico,
Miglior cosa è d’'assai viver senz’ossa
E senza polpe e vene! ». E tu se’ vile
E se’ malvagio e sanguinario ancora
E a Dio, fattor dell'universo, in core
Nemico sei! Contro al fratello suo
Non discende il fratel con l’armi in giostra,
Ove buon nome ancor l’adorni e segni.
Behràm, come ascoltò, si trasse a dietro
Da lui, ma in core s’adirò, ma tristo
E corruccioso andavane da lui,
E Gherdùy del suo prence si traea
Là nel cospetto e negra avea la faccia
Sua marzial pel nero ferro. A lui
Benedisse Khusrèv con molto amore:
Premio a te venga dal rotante cielo!
E degli ordini suoi dalla presenza
Al medio loco re Khusrèv si trasse,
E poi che di tal re già vacillavano
I valorosi, alcun mandava il sire
A Shapùr battaglier. Porgi tu aita
A Mausil! comandò. Per voi si pugni
E schiena a schiena alto s'appoggi. Forse
Splendida sorte in vostra mano avrete.
L’iranio prence a Gustehemme allora




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— 148 —

Mandò tal voce: Se de’ Greci alcuno
Qui destasse la pugna, ove sconfitto
Fosse Behraàm guerriero, ove in battaglia
Ferito ei fosse, fino al ciel la fronte
Superbi leverian cotesti Greci,
Parole più d’assai che n’è misura
Cacciando fuori. Non vogl’io che alcuno
De' Greci eroi sollevi alta la testa
E si pompeggi in questo ch'è di noi
Tremendo assalto, chè de’ Greci tutti
Il valor già vid’io. Son come greggi
Allor che sorge la bufera; e meglio,
Meglio è d'assai che con picciola schiera
Io con Ciubineh a contrastar mi provi.
Nell’alta impresa mia d'altri l’aita
Non vo’, chè in Dio proteggitor s'appunta
La mia speranza. — Gustehèm gli disse:
Iranio prence, non tradir tu stesso
La cara anima tua! Ma se cotesto
È tuo disegno, i più gagliardi eleggi
E a tua persona non dar morte in questo
Fatal campo di pugna! — Ottimo è tale
Disegno tuo, Khusrèv gli disse, quale
Manifestasti a me. Cerca frattanto
Che sia de’ prodi miei voglia secreta.
E quattro e dieci Gustehèm scegliea
Cavalieri d’Irania, incliti in guerra,
Da l’eretta cervice, e il nome suo
Primo adducea fra que’ gagliardi in giostra
Notato e scritto e dinanzi il ponea
Agli altri tutti. V'era poi quel prode
Shapùr con Endiàn, Gherdùy, sostegno
De prenci Kay, Bendùy pur anco e l'inclito
Azergashàspe, indi Shirzìl e quello
Rengùy, con elefanti e con leoni
Ardito in guerra. V'era sì Tokhàreh,


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— 149 —

Animator d’ogn'altro in fiera pugna,
Nemico acerbo a Yelan-sìineh, e v'era
Farrukh-zàÀd e Khusrèv di eretta fronte,
Anche Astàd e Pirùz, d’ogni nemico
Distruggitor; Khorshid v'era beato
Con prence Ormùzd, a cui dinanzi tutti
I nemici pareano erbe selvagge |
Cui tronca il falciator. Ma Gustehemme,
Inclito e prode, era di tutti il duce,
Quale in battaglia avea poter sovrano,
Fi che tra i forti in questa guisa elesse
Quattordici campioni e ad una parte
Rapido venne de l’iranie schiere.
Eroi devoti al mio comando, voi
Che alta levate la cervice, disse
A’ principi Khusrèv, tutti la fronte
A Dio volgete e consolate il core
Lieto e beato. Non è cosa in terra
Fuor che voglia di Dio; sempre cotesto
Fu da che in alto la vetusta volta
Stette del cielo. Morte aver pugnando
Meglio è d'assai che principe di noi
Facciasi un servo. Ma frattanto voi
Custodi a me siate fra l’armi. Indugio
Di scompiglio nell'ora oh! qui non vuolsi!
Benedissero a lui tutti que’ prodi
Con favella concorde e lui signore
De la terra gridàr; patto egli fecero
Che nessun dal suo re si ritrarrebbe
In quell’orrida pugna. Allor che intese
L'iranio prence, ritrovò sua pace,
Gradi cotesto e l’alto intento suo
Per que’ prenci toccò. Le schiere allora
Al nobile Behràm tutte affidava
E con quelli quattordici, gagliardi
E valorosi, andavane. Ma intanto


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— 150 —

Voce venia da le vedette. Giunge,

A Behràm di Ciubìneh ecco! si disse,

Un esercito avverso. — Alto in arcioni

Balzava a un palafren, vigile in core,

L'uom disioso di possanza, in pugno

Stretta una spada, con un laccio al culmo

De l’ardua sella; e ratto ch'ei scopria

Su' lor destrieri que’ gagliardi assisi,

Dagli armigeri suoi alquanti prodi

Scegliea cercando e a Yelan-sineh, Giusta,

Giusta prova, dicea, di suo valore

Diede in battaglia quel malnato. Or io

Che altri non è fuor di Khusrèv costui

E vedo e so, qual osa in questo campo

Di tenzoni avanzar. Discende in giostra

Con quegli uomini suoi pregiati e forti,

E fors’ei da sè stesso innanzi a fieri

Alligatori scende in armi. D'uopo

Non ho con lui di più di venti prodi

Su' lor cavalli, nè ben so de' suoi

Questo o quello chi sia. Vengami innanzi

La terra tutta, e bast'io sol contr'essa.

Nulla son io, s'in manco al suo paraggio.
Al prode Azergashaspe e a Yelan-sìneh

Ei così disse: Lor valor non celano

I valorosi, nè si vuol che noi

Siam più di quattro. La fortuna mia

Contro a Khusrèv m'è protettrice. — Intanto

Eravi un uom che l'atra notte al giorno

Nell’alma trista preferia; suo nome

Gian-firùz era, ed a costui l'esercito

Affidando Behràm, tosto ne andava

E correa con quei tre velocemente

Vigile e accorto. Ma Khusrèv che lungi

Per la sua via Behràm scoverse, a’ suoi

Fidi compagni fe’ tai detti: Viene


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— 151 —

Schiera nemica! Or voi nel petto il core

Non vi serbate corruccioso e mesto,

Chè venne tempo a noi di qui star fermi.

Io con la clava mi terrò di contro

A Ciubineh malnato, e la battaglia

Con gli altri prenci fate voi. Quattordici

Amici siete ed ei son tre. Sconfitta

Deh! mai non sia che veggasi per voi!
Niyatùs e l'esercito de’ Greci,

Tutti d'un tratto, per manco di speme,

Si cinser l’armi e da quel campo al monte

Salîr correndo, ove di questa e quella

Schiera nemica era la vista aperta.

Dicea ciascun: Deh! perchè mai quest’inclito

Iranio prence la sua dolce vita

Perder vuol per un serto? E qui son molti

Cavalieri nel campo, ed ei da stolto

Corre soletto alla tenzon! — Ciascuno

Levò le palme al ciel, chè il prence iranio

Pensavasi ciascun trafitto e spento.
Behràm guerrier poi che incitò il cavallo

Con Yelan-sineh, con Azergashàspe,

Tutti gli amici di Khusrèv ne andaro

Dispersi attorno. Ei fu qual lupo, e quelli

Sì gloriosi qual timida greggia;

Deh sì, gli amici di Khusrèv che sciolto

Vider da' ceppi il tristo Devo, a un tratto

Per tema sbigottian, restavan soli

Gherdùy, Bendùy e Gustehèmme. Allora

Di Dio chiamava il santo nome il prence

Incoronato; ei sì, manco di speme,

Signor del mondo, il suo destrier volgea,

Quando già gli era a tergo Azergashàspe

Forte correndo. A Gustehèmme ei disse:
Forte m’incalza la fortuna, e questo

A che senza ragion fiero scompiglio,


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— 152 —

Or che le spalle mie videro in fuga
Volte i nemici miei? — Già già t'è presso
Il cavaliero, Gustehèm gli disse,
E tu sei solo; come dunque ancora
La pugna sosterrai? — Khusrèv guardava
Dietro a le spalle, e di quei quattro innanzi
Vide Behràm Ciubineh. Ecco! sè stesso
Per riguardar dal reo nemico, tutta
Ei lacerò la bruna sua gualdrappa,
Mentre lungi da lui stavansi a dietro
I due suoi fidi cavalieri e a tergo,
Avido di vendetta, era il nemico.

Ma là di contro angusta era una gola
Della montagna, allor che già vicini
Come pardi venlano al fuggitivo
I tre guerrieri. Della gola il fondo
Era chiuso dal monte, e là rinchiuso,
Da sue genti lontan, rimase il prence
Dell'ampia terra. L’inclito garzone
Balzò dal palafren, salì correndo
A. piè sul monte. A piè n’andava e intanto
Sbarrata innanzi era la via; trafitta
Era l’alma perciò del nobil sire
D'alta ferita, e per quel loco angusto
Che il trattenea, poi che di scampo via
Là più non era, con veloci passi
Gli era dietro Behràm. Deh! a te che pieno
Di frodi sei, dicea costui, bassezza
Ora sorvien dopo l'altezza tua!
Perchè tua morte a me abbandoni e il peso
Gittar ne sembri su le spalle mie?

Poi che stato del prence alla distretta
Era venuto e gli era dietro un ferro
E una rupe dinanzi, a Dio si volse
E così disse: Almo Fattor del mondo,
Tu che mutar della fortuna avanzi,


<pb n="8.153"/>
— 153 —

In questo loco di distretta sii
Proteggitor; non io le stelle in cielo
Volgomi a supplicar! — Come levussi
La fiebil prece da quel monte, apparve
Sul ripido sentier Seròsh beato,
Verdi le vesti tutte e sotto a lui
Candido palafren. Deh! che a tal vista
Alma riprese re Khusrèv! D’accanto
Come gli fu, la man del prence iranio
L'angiol si prese (meraviglia questa
Per Dio santo non è); poi che dinanzi
Tolto l’ebbe al nemico, agevolmente
Lungi l’addusse e lasciò andar la mano.
Khusrèv dissegli allor: Quale il tuo nome? —
E dicea questo e lagrimava. E l'angelo
Gli rispondea: Seròsh è il nome mio.
Lungi dal lagrimar, poi che ottenesti
Sicurezza da me! Tu d'ora in poi
Sara’ prence del mondo, e non t'è d'uopo
Che saggio addimostrarti ed avveduto.
Disse cotesto e via da lui disparve,
Nè alcun pel mondo mai tal meraviglia
Giunse a veder. Meravigliando stette
Behràm che ciò vedea. Molto invocava,
Fattor del mondo, Iddio, quando gli cadde
Per la persona un tremito improvviso
Ratto al veder del fuggitivo prence
L'opra e il deslo già già compiuto. Ei disse:
Con uomini finchè sarà la guerra,
Deh! mai non sia che in me valor si scemi!
Ma poichè la battaglia è con alate
Perì vaganti, sulla mia fortuna
Che già s’infosca, lagrimar fa d'uopo.
E Niyatùs di contro, in su la cima
Della montagna, grazia a Dio chiedea
Giusto e verace, e le sue belle gote


<pb n="8.154"/>
— 154 —

Graffiavasi Maria nella distretta

Del dolce sposo, re del mondo. Ancora

Stavan sul monte le falangi ed erano

Alle sue falde e alla pianura, e pieno

Era d'ansia e di duol de’ Greci il core.
Deh! qui t’assidi, Niyatùs diceva

A_ Maria dolorosa; io temo assai

Ch'estinto giaccia dell’Irania il prence.
Ma in quell'istante, da l’opposta parte

Della montagna, pel dirotto calle,

Da sue genti lontan, mostrossi in vista

Prence Khusrèv, e ratto la sua schiera

Inclita in guerra giubilò, disciolto

Andò il cor di Maria dal fiero duolo.
Come Khusrèv giunse a Maria vicino,

L'alto prodigio che mostrossi a lui,

Narravale e dicea: Deh! sposa mia,

Di greco Imperator nobile figlia,

Rese giustizia a me giusto e verace

Il Giudice supremo! Oh! non avvenne

Per viltà del cor mio, non per bassezza,

Chè mostrasi codardo entro la pugna

Sol chi è tristo di cuor. Là, nella gola

Della montagna, senza amici e scorta

Io mi restai, nel dolor mio l'Eterno

Chiamai piangendo, e il mio Signor che cela

Le cose di quaggiù, gli alti secreti

A questo servo disvelò. Non vide

Questo ch'io vidi, ne’ suoi dolci sonni,

Fredùn illustre, mai nol vide un giorno

O Tur o Salm od Afrasyàb, ch'io vidi

In questo dì, compagni miei che eretta

Avete al ciel la fronte, un chiaro segno

Di mia vittoria e del poter sovrano.

Or rinnovate dell’assalto l’impeto,
Ricordando Khusrèv nella tenzone!


<pb n="8.155"/>
— 155 —

XXII. Terza battaglia e sconfitta
di BehrAm.

(Ed. Calc. p. 1940-1942).

In quell’istante giù dal monte scese
L'esercito fedel, mentre la terra
De' cavalieri per la negra polvere
Intenebrava. Da l’opposta parte
Stava Behràm pieno di duol, pentito
Dell’opre sue compiute; e poi che manco
Era di speme, rapido a l'istante
L'esercito sospinse, e luce al giorno
Più non restò. Dicea: Chi mena in guerra
Le sue falangi, abbia saggezza e possa
E marzial virtù. Gli eroi che videro
I giavellotti miei, che la guerriera
Indole mia notàr, me preferirono
A cotesti monarchi. Io la corona
Atterrerò di Nushirvàn. — Allora
Impetùoso e cieco egli avventossi
Fuor da sue schiere contro al prence iranio,
Tese all'arco la corda e sì v’appose
D'un sol legno una freccia. Ei repentino
Il suo prence colpia nella cintura.
Ma tortuosa la mortal sua punta
Andando vi s'infisse. Uno scudiero
Come vedea di quella freccia il colpo,
Venne e la estrasse dal serico panno,
E d'asta un colpo del nemico al cinto
Vibrò l’iranio prence. Era una maglia,
Nè le giunture sue l'asta cadente
Spezzar potè; così la ferrea punta
Di quell'asta possente in due n'andava,
Ma pieno di terror restava il core


<pb n="8.156"/>
— 156 —
Dello stolto guerrier. Come s’infranse
Quell’asta sua, s'adirò il prence e un colpo
Menò di clava del guerrier nemico
Ratto al cimiero; ma la ferrea clava
S'infranse nel colpir, s'avvinghiò al sommo
Dell'elmo e si fissò. Pur, chi vedea
Quel grave colpo, chi sentia del ferro
L'alto stridir, fe' voti e auguri e tutto
L'esercito del re vigor riprese,
Sì che in difetto di Behràm guerriero
L'intento si restò. Come d’un tratto
Agli occhi di Behràm e luna e sole
D'ombra si ricoprîr, contro sua voglia
Si trasse a dietro dal suo re. S'avvide
Ch'iva congiunta a stento e a duol la sua
Impresa grave e si ritrasse a dietro
Dall'opre di valor, dalla battaglia.

Ma d'Irania le squadre e in un di Grecia
Come vedean di re Khusrèv nell’armi
L'inclite prove, innanzi s’avventaro,
Trasser le spade della gran vendetta
Tutte d'un moto e fèr, quale un gran monte,
Un impeto gagliardo. Ecco! sen vanno
Dietro a cotesti i prenci tutti e rompono
E scompiglian l'esercito e il disperdono.

Appo al suo re con fiero incesso allora
Andavane Bendùy. La tua corona
Superì il cerchio de la luna, ei disse;

Ma un esercito è qui come locuste,
Come formiche, e preso n'è il deserto

E la landa remota e il campo intorno.
Bello non è per opra stolta il sangue
Così versar, nè accapigliarsi è bello

D'un re col servo. Ma se alcun la vita
In don ci chiede, meglio è ciò che ucciso
O trafitto vederlo entro la pugna.


<pb n="8.157"/>
— 157 —

Dissegli re Khusrèv: Se alcun si duole
Delle sue colpe, non io vo' di lui
Farmi castigator. Tutti qui sono
Sotto l'egida mia; sono al mio serto
Attorno sì quai fulgidi pendenti.
Poi che il vessillo de la notte in alto
Si sollevò da le montagne oscure,
Ambe le schiere separàrsi e a dietro
Si ritornàr. Da le vedette allora
Voci alterne levàrsi e pur s’intese
Di sonagli un concento; oh! in quella notte
Ben pochi assai dormìan! Di là si trasse
Bendùy allor che amò sua gloria, e venne
Fra questa gente e quella al medio loco,
Rapido in corsa. Ma un gagliardo ei scelse
Dall’esercito in pria, di bella voce,
Facondo parlator, quale un araldo,
E gli fe’ cenno che in arcion balzasse
A un arabo destrier, pronto ed accinto
Un bando a proclamar. Com’ei si trasse
In mezzo a questa e a quella gente, al punto
Là "ve ben poco alle nemiche squadre
Restavagli di via, levò l’araldo
Quest'alto grido: O servi al nostro prence,
Di colpe rei, che per la terra intorno
Ite cercando vostra sorte, a quello
Che fia tra voi più peccator, che in questa
Orrida pugna maggior gloria s'ebbe,
Per Dio condona le peccata il sire
Dell’ampia terra, le peccata sue,
Quante ei fe’ manifeste e quante ascose.
Come andò per la notte oscura e tetra
Cotesta voce, a questa voce ognuno
Porse l'orecchio, e tutti i prenci illustri,
Seguaci di Behràm, tosto a partirne
Ad uno ad uno s’accingeano, e quando


<pb n="8.158"/>
— 158 —

Quest'almo sol, che illumina la terra,

Sul monte si levò, quando la terra

Qual d’un bel drappo di lucente seta

Il giorno rivestì, vuote di genti

Eran le tende alla pianura, e intanto

Di ciò che feasi in quella notte, inconscio
Era Behràm. Là dentro a’ padiglioni
Alcun non si vedea, fuor che fedeli

E amici di Behràm; questo soltanto!

Ma Behràm, come avea di ciò novella,
Venne e passò per quelle tende e a’ suoi
Amici disse : Miglior cosa è omai
Per noi la fuga che restarsi in pace
Con vicino scompiglio. — E chiese allora
Mille cammelli da’ custodi e mille
Dromedari gagliardi, che dal labbro
Bianche gittavan spume, e quante cose
Erano a carreggiar ne’ suoi tesori,
Strati e tappeti, eburnei troni, argento
Ed oro ancor, collane e braccialetti
D'oro e corone, tutto in alte some
I suoi valletti accumulàr. Balzava
Egli in arcioni, a ritrarsi dal campo
Del corpo e del pensier già pronto e accinto.

XXIII. Fuga di BehrAm.

(Ed. Calc. p. 1942-1944).

Come il suo trono s'apprestò nel cielo
Questo fulgido sol, dal regal fianco
Partian gli esploratori. Ei non vedeano
Là ne’ recinti alcun mortal, nè molti
Padiglioni ei vedeano in piedi ancora.

Le vedette tornàr, dicean cotesto


<pb n="8.159"/>
— 159 —

Al prence iranio, e quel suo cor dolente

Si fea pel campo abbandonato. Allora
Scelse tremila fra’ gagliardi suoi,

Con lor gualdrappe e loro usberghi al petto
Nobili cavalieri, e cenno intanto

A Nestùd fe’ che accinto alla persona,
Forte e virile, ad inseguir correndo,
Balzasse in sella. Ma Nestùd ne andava
Pien di corruccio il cor, ch’egli non era
Uom da Behràm in giorno di tenzoni.

Anche Behràm per sue raccolte genti

Fiducia non avea nel suo diritto,

Non nella terra sua. Iva costui

Per deserto sentier, pien di terrore

E d'ansia il core, e menavasi intanto
L'argento e l’or con sè. Lor palafreni
Sospingean da l’un canto de l'esercito
Ized-gashàspe e Yelan-sineh e lungo
Deserto un calle conducean le squadre,
D'antichi prenci favellando insieme.

Un villaggio mostravasi da lungi
Squallido e tristo, e degno quel villaggio
Non era già d'un prence. Innanzi andava
Behràm a tutti già pentito, il core
Pien d’'affanno e d'angoscia, e allor che a tutti
Secche le fauci eran per sete, ei primo
In casa entrava d'una donna antica.
Affabile e cortese essi la lingua
Moveano a favellar, chiedean dell'acqua,
Chiedean del pane alla .vegliarda, ed essa
Che lor detti ascoltò, vecchio e sdruscito
Un suo vaglio recava e là stendea
Attrito un cuoio, d'orzo un pane scarso
Posto nel vaglio. Ma porgea frattanto
A principe Behràm delle verbene
Il fascio sacro Yelan-sineh; eppure


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— 160 —

Ei ridir non potea sue preci antiche

Per l’acerbo dolor. Le incominciando,

Cibavansi così del tristo pane,

E stavano a mirar que' prenci illustri

Alquante donne del villaggio. Allora

Che d’orzo il pane fu gustato, ei chiesero

Stilla di vino e a mormorar lor preci

Sciogliean la lingua. Se di vin desio

Hai tu, signor, disse la donna antica,

Vino è qui ancora, e v'è una zucca armosa

A cui tolsi il coverchio e sì ne fei

Un cavo nappo, e vel posai di sopra.
Disse Behràm: Poi che c'è vin, deh! come

Esser nappo miglior potria di questo ?
Andò colei, recava il nappo e il vino,

E principe Bekràm per quel novello

Nappo lieto si fea. Nella sua mano

Colmo di vino ei sel recò, l’antica

Ospite sua perchè piacer n’avesse,

Ella pur anco, e disse: Inclita madre,

Delle opere del mondo oh! quale hai teco

Certa novella? — Tante cose udii,

L'ospite annosa rispondea, che tutto

Ne andò stordito il mio cervel. Ben molti

Oggi venian dalla città, soltanto

Della battaglia ch'ebbesi Ciubìneh,

Favellando tra lor. Dicean che tutto

Ritratto s'era appo l’iranio prence

Lo stuol de’ prodi suoi, che senza scorta

Il duce ne fuggì. — Deh! santa donna,

Behràm le disse, di cotesto parlami,

Chè forse tratto di prudenza fue

Di Bebràm questo; o forse egli a prudenza

Innanzi pose il piacer suo. — Rispose

L’antica donna allor: Deh! perchè mai,

O glorioso, la pupilla tua


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— 161 —

Un tristo Devo intenebrò? Non sai
Che al tempo che sospinse il palafreno
Contro al figlio d’Hormùzd Behràm ardito,
Figlio a Gashàspe, si ridean di lui
Quanti han saggezza, e niun fra i prenci mai
L’andò contando? — E quei rispose allora:
Oh! se Behràm ebbe desio di bersi
Entro una zucca il dolce vin, tu sopra
L'antico vaglio serba d’orzo un pane,
Innanzi, là, fin che si mieta ancora
L'orzo novello! — E s’adagiò la notte ©
Co’ suoi compagni al tristo loco e s’ebbe
Per coltrice la veste e la corazza
Agli omeri di sotto. E non discese
Il sonno a lui, ned ei trovò sua pace,
Chè si cercava il suo desìo, ma sempre
In ciò che mai non volle, ei s’incontrava.
Poi che sciolse del ciel gli alti secreti
Questo fulgido sol, di fieri colpi
Il principe guerrier fece i timballi
D'un tratto tempestar. Quanti eran seco
Prodi campioni ei seco addusse, e quelli
Prendean tosto la via, forti e gagliardi.
Novello era un canneto in su la via
E molti v'eran dentro uomini intenti
L'alte canne a troncar. Com’ei da lungi
Prence Behràm e l'ampia sua falange
Altera e forte discoprìian, Deh! sempre,
Gridarono a Behràm, vivi tu lieto |
Oh! perchè ne venisti a questa via
D’esto canneto? Innanzi a te pur sono
Schiere ben molte, e i forti alla battaglia
Già già pel sangue si apprestàr le mani.
Disse Behràm: Qui non son cavalieri
Se non di regie squadre. Io bene udii
Che nel tempo che a correr nostra via




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— 162 —

Da nostre tende ci apprestammo, il duce

Scelse Nestùd, un uom d’altere voglie,

Ma senza trama e senza ordito in sua

Anima trista, ond’ei con cavalieri,

Tremila forse, quali in giorno ‘d'armi

Resister ponno, dietro a noi venisse

Forte correndo. Or io, tosto che il vegga,

Al termine segnato il viver suo

Menar saprò. Ma voi le cinghie intanto

A’ cavalli stringete e l’ampie file

Tutti serrate. — Strinsero le cinghie

Rapidamente i cavalieri allora,

Le indiche spade strinsero nel pugno,

Gittàr le fiamme entro al canneto, quelle

Genti ivi accolte scompigliando. Tutte

Bruciàr le canne in questa parte e in quella,

Quei giacque ucciso e questi arso restava.
Ma Behràm battaglier, tosto che vide

Nestud venirne, al rapido destriero

Le briglie abbandonò. Tolse di sella,

Entro a le spire del suo laccio attorto,

Il suo nemico ed i suoi prodi intanto

In guisa turpe gli avvincean le mani

Con vincoli dolenti. Oh! la sua vita

Chiedea Nestùd. Signore inclito in armi,

Dicea piangendo, a che vuoi tu il mio sangue

Versar? Del mio destin crudele e tristo

Abbi, signor, pietà! Deh! non uccidermi,

Per ch'io poi ti preceda in ogni loco

Forte correndo, poverello umile

Addetto al tuo servir. — Trovar sul campo

Della battaglia un uom quale tu sei,

Behràm gli disse, unqua non ebbi caro.

Reciderti non vo', che onta avre’ io

Se a te simile un cavalier disceso

Fosse con meco a contrastar, la testa.


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— 163 —

Ma tu, poi che scampato alle mie mani
Ratto sarai, va forte, e ciò che visto

Hai qui da me, narra a Khusrèv. — Cotesto
Ratto che udia Nestùd, baciò la terra

E benedisse al cavaliero assai.

Da quella selva fino a Rey ne andava
Behràm allor con suoi guerrieri in armi,
D’inclit'orme quaggiù. Là s’arrestava,
Prendea riposo e ne partia, movendo
Rapido e fiero al principe di Cina.

XXIV. Il campo di BehrAm distrutto.

(Ed. Calc. p. 1945-1946).

Ma di rincontro al mesto campo scese
Là "ve già stette con le sue falangi
Behràm guerrier, Khusrèv illustre. Tutto
Alla rapina abbandonò quel vallo
E sportelle ricolme e diademi
Alle sue genti dispensò. Balzava
Indi sul dorso a un rapido destriero,
Accinto a dir le preci sue. Dinanzi
Eragli un loco abbandonato e tristo,

Ed egli a piedi vi scendea per quella
Sua nova intenzion. Quivi, dinanzi

A Dio signor, prostravasi alla terra

E dicea: Deh! Signor, giudice santo,
Dal nudo suol me sollevasti incontro

Al mio nemico e di favor misura
Nell’opra tua passasti! Or qui son io
Adorator di te, servo non degno,

Al tuo precetto, almo Signor del mondo,
Camminante conforme. — E di là venne
A’ suoi recinti, ed appo lui recavasi


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— 164 —

Un suo fido ministro. Ivi precetto

Fe' che venisse il regio scriba innanzi,
Scritta per lui su rilucente seta

Una epistola sua. Di quante cose

In quel campo accadean dell’aspra guerra,
Un cenno al greco Imperator scrivea
L'iranio sire, e benedisse in pria

Al Giudice del ciel, da cui vittoria

Ebbe e fortuna e militar valore.

Scrisse poi: Da Colui che il mondo fea,
Ogni favor vid’io nel mio secreto,

Ch’io venni già con le mie squadre al tempio
D'Azergashàspe in corsa e ne tornai

Di mia vendetta disioso. E quei

Sì m'incalzò ne la battaglia orrenda,

Che angusto era per me del pugnar seco
Lo spazio. Ma poichè nol proteggea

Iddio santo dal ciel, quel fiero vampo
Ratto si spense e tacque ogni scompiglio.
Così, quand’ei trovossi ed orbo e scemo
D'aita e non restàr le sue falangi

Ferme sul loco, all'alba del mattino
Rapidamente se n'andò fuggendo.

Noi disperdemmo sue restanti schiere
Tutte d’un tratto e suscitammo il fuoco
Nel vasto campo suo. Noi, per precetto
Di Dio vincente, ogni suo varco intorno
Anche sbarrammo a lui. — Posero allora
Suggel di prence su quel foglio, e tosto
I messaggieri si prendean la via.

Con quel foglio del sire, il messaggiero
Del greco Imperator nobile e illustre
Andavane a la reggia. Alto dal trono
Poi ch'ebbe letto il greco re quel foglio,
Giù ne discese, ei principe e signore
Di vigile fortuna, e così disse


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— 165 —

A Dio dinanzi: O Duce de’ mortali,
Eterno sempre se' al tuo loco! Al tuo
Servo donasti la vittoria, e quello

Ben sei tu che solleva e umilia e atterra.

A’ poverelli ei dispensò monete
In copia allora e cibi anco diè attorno
A some di giumenti, anche a quel foglio
Risposta scrisse, bella quanto è ancora
Di paradiso un nobile virgulto.

Di quel suo foglio al cominciar, di Dio
Ricordo ei fe’, di Dio, re di vittoria,
Signor di maestà, d'alta giustizia,

Della luna signor, signor del sole,

Sire di forza e di possanza. Questa
Grandezza tua, quest’inclita fortuna,
Tu da Lui riconosci e in verso a Lui,
Fin che vivo sarai, d'animo grato —
Mostra la prova. Sol leggiadre e giuste
Le cose tue farai pel mondo, in parte
Secreta e in parte manifesta, sempre.

Una corona ch'egli avea, ricordo
De’ prischi Imperatori e qual serbava
Per tempo in che venir doveagli all'uopo,
Una real collana e due pendenti
E mille e cento vesti aureo-dipinte,

Egli inviava. Di monete d’oro

Some eran cento di cammelli e copia
Grande di perle e di rubini. Ancora
Una croce inviava, in gemme fulgide
Tutta fregiata, e un trono che coperto
Era di gemme imperiali; e v'era
Intesta d’oro una tunica verde,
Fulgida a’ lembi suoi d'inclite gemme.

Con questi doni e con sue ricche offerte
Intorno da gittar, quattro ne andavano
Filosofi di Grecia, e tosto incontro


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— 166 —

Loro inviava re Khusrèv suoi mille
Nobili cavalier d’inclito pregio.
Appo Khusrèv ne andavano que’ grandi,
Ne andavan tutti co’ novelli doni,
E Khusrèv che miravali ed il foglio
Imperial leggea, meravigliava
Per tal ricchezza ingente. Ei disse allora
Al suo ministro: Queste, in gemme ornate,
Vesti di Grecia a costume di quelli
Incliti duci de’ villaggi Persi
Non son conformi, ch’elle son di foggia
Di cattolica gente. Or, se la croce
Risplenderà sa queste nostre vesti,
Costume fia di tal che ha fede in Cristo.
Che s'io non vesto questi panni, il sire
Che li inviò, ne andrà cruccioso e forse
Altro di me farà pensier. Ma intanto
Fa ch'io li vesta, e i principi famosì
Tutti a una voce diran sì che forse,
Per cosa alcuna, si rivolse a Cristo
De' popoli il signor, da che si vede
Cinto e ricinto da coteste croci.
Disse a Khusrèv quel suo ministro: Forte
Non reggesi la fè per vestimenta,
Signor d'Irania. Addetto se’ alla fede
Di profeta Zerdùsht, anche se un vincolo
Or ti congiunge a' greci Imperatori.
La regal vesta egli vestì, sospese

Alta sul trono la corona sua
Di gemme adorna e cenno fe' che ratto
Fosser levate le cortine e i prenci
Introdotti nell'aula. Entravan tutti
E Irani e Greci e a questi in mezzo ogn'’altra
Gente pur anco. Ma qual era in essi
Ricco di senno e pur vedea la vesta

-  Dell’iranio signor, ch’egli seguia


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— 167 —

Del greco Imperator consigli e cenni,
Ratto s'avvide. Ogn'altro disse: Oh! forse
Che in suo secreto questo re del mondo
Si fe’ di Cristo e di sua fè seguace?

XXV. Alterco di NiyAtfs e di Bendày.

(Ed. Calc. p. 1947-1948).

Al dì che venne, fe’ adornarsi il trono
Prence Khusrèv e la regal corona
Si pose in fronte. In un giardin di rose
Ornato a festa elli imbandîr le mense,
E a Gav si volse re Khusréèv e disse:
Vanne, e di Grecia tutti i prenci aduna.

Venne allor Niyatùs co’ Greci eroi,
E a quella mensa tutti assiser quivi
Co’ filosofi greci; e allor che scese
Prence Khusrèv dal trono suo regale,
Con quella veste in greca foggia, adorna
Di molte gemme, con regale incesso
Là sorridendo venne e si sedette
Alla mensa regal. Bendùy allora,
Delle verbene col fastello in pugno,
Venne d'un tratto, e incominciò le preci,
Che son dei re, quel principe del mondo,
Supplici detti a mormorar sì accinse
Sommessamente. Niyatus che vide,
Lungi i pani scagliò, si trasse a dietro
Da la mensa regal nel suo disdegno
E disse: Croce e mormorar di preci
Insiem confusi? Vituperio è questo
A Cristo re pel greco Imperatore!

Ma Bendùy che vedea, la man riversa
Battè, di sopra da le apposte mense,


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— 168 —

Contro la gota di colui, di croci
Adoratore. E si crucciò di questa

Opra che vide re Khusrèv e quale

È di fiengreco il scialbo fior, nel volto
Impallidi. Deh! che cotesto eroe

Che non ha senno, a Gustehèmme ei disse,
Mai non dovria fra liti e fra contese

Bersi del vin! Qual mai contesa egli ebbe
Col greco Niyatùs? Davver! che poco

Sè stesso ei cura in facile litigio!

Ma Niyatùs uscia di là. Balzava
Rapido in sella e andavane al suo campo
Ebbro quasi dal vin. Per far battaglia
Il greco usbergo ei si vestì, la cena
Per rovesciar di re Khusrèv, e seco
Tutti di Grecia, di pugnar bramosi,
All’ostello regal volsero il volto
I cavalieri. Niyatùs intanto
Rapido come nembo un cavaliere,

Di greco sangue, di Khusrèv spedia

Alla dimora con tai detti: Oh! dunque
Bendùy codardo con la man riversa
Ogni fedele a Dio batte a le gote!
Mandalo, o prence, a me; se no, vedrai
Alto scompiglio di tua gente. Allora

Più innanzi a me tu piegherai di quanto
Piegasti innanzi ad un tuo servo, quale
Di re dei regi l’alto seggio agogna.

Khusrèv come ascoltò, n’ebbe disdegno
E disse: Fede in Dio celar non vuolsi
Da niuno in terra. Da que’ giorni antichi
Di Gayumèrs e di Gemshìd al tempo
Di re Kobàd, niun fe’ ricordo mai
Di Cristo, e non sia mai che de’ miei padri,
Principi eletti e santi, io sprezzi il rito,
Passi alla fè di Cristo, e le mie preci



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— 169 —

Sedendo a mensa mormorar non voglia,
Fatto a Cristo fedel. Che se tu stesso
Computo fai, sappi ch'io pur de’ Greci
Vidi quanto è valor nel dì dell'opra.

Io la contesa di cotesta gente
Assopirò, disse a Khusrèv Maria.
Bendùy che altera ha la cervice, affidami,
Perché il veggano ancor mirando al viso
I greci prodi, e incolume il ritorni
A te da presso. Non cercò litigi
Stoltamente nessun. — L'iranio prence
Là presso a Niyatùs Bendùy mandava
Con dieci cavalier; Maria pur anco”
Andavane con lui, donna avveduta,

Di cui le labbra nobili consigli

Avean pur sempre. Vanne or tu, le disse
Prence Khusrèv, ed al fratel del tuo
Inclito genitor così favella:

« O malaccorto, qual contese agogni,

Tu non vedesti ciò che fece al sire

‘ D'Irania il greco Imperator con sua
Alta grandezza, con battaglie ed armi,
Con alleanza e vincolo di sangue,

Con ricchezze e con uomini e tesori
Adorni e pieni. E tu que’ patti e il vincolo
Di sangue infranger vuoi, del greco sire
Da me cacciar la maestà. Ma udisti

Dal greco Imperator che alla sua fede
Non fia ribelle re Khusrèv, tornato

In suol d'Irania; e non sai tu che mai
Dall’antica sua fè l’'uom che nutrito

Fu ne’ Persi villaggi, non ritornasi

A dietro? E la parola e stolta e folle

A che gittando vai? Ma tu piuttosto

Al sen ti stringi di Bendùy la fronte,
Non dir parole che toccar non ponno


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— 170 —

Uman core più mai, del greco sire
L'opra e la cura non sperdere al vento,
E mai non sia che ricordar tu deggia
Inutilmente ogni consiglio mio ».

Maria, come ne venne al prence greco,
Tutte ridisse le parole, e intanto
Qual rosa fresca si tingea la gota
Di quell’inclito in armi. Ei di Maria
Il priego accolse ed il consiglio, e frutto
Ebber di lei parole acconce. Allora
Egli in cor s'ammollìa per l'atto fiero
Di principe Bendùy, sì che vergogna
Di rimirarlo in volto avea. Ma ratto
Ch'egli "1 rivide, in piè levossi e chiese
Dal guardian del suo tesoro un forte
E nobile destrier. Sorrise alquanto
E gli fe’ inchieste e gli fe' doni, e poi
Ambo a prence Khusrèv si ritornarono.

Come rivide Niyatùs, gli volse
Questi accenti Khusrèv: Cor stolto e vano
Mai non cercasi il ben. Nulla cercavasi
Bendùy guerrier fuor che scompigli e alterchi,
Ma tu angusto non farci e tetro il mondo
Per cagion di costui. Del greco sire
Per impeto del cor l’opra e la cura
Tu non sperdere al vento e qui rimani
Perchè alcun tempo letiziar con teco
Qui possiam noi, ch'io son trafitto al core
Del genitor pel sangue sparso e cinto
Di grave affanno ho il fianco mio. Di voglia
D'alta vendetta ho gonfio il cor per questo
Bendùy malvagio e contro a lui la lingua
Ho piena sì d’acerbi detti assai,
Imprecanli a costui. Ma se per questa
Religion ch'è sua, male ei favella,
Da l'uom ch'è stolto, non cercar saggezza.


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— 171 —

Almo signor, prence del mondo, a lui
Rispose Niyatùs, non cercar senno
In uom di Grecia ebbro dal vin. Tu adopra
In quella fè degli avi tuoi tua cura,
Chè a sua religion non si ribella
Chi è saggio e accorto.— Poi che in tal soggetto
D'ambo il sermon si dilungava assai,
Al campo suo fe’ Niyatùs ritorno.

XXVI. Partenza dei Greci.

(Ed. Calc. p. 1949-1951).

Cenno a Kharrad-Berzìn fe’ il prence allora
E disse: Un loco a numerar gli eserciti
Appresta omai, degli scrittoi tu appella
Le genti qui. L'esercito de' Greci
Annoverando, giovinetti e vecchi
Tutti contar ti piaccia. Anche due volte
Darai stipendi de’ tesori miei |
Agli armigeri Greci, onde non veggano
Rancura nostra nel donar. — Per quelli
Che degni eran fra lor di regal vesta,
Atti ad opre famose in giorno d'armi,
Ricche vesti apprestar l’iranio fece
E nobili destrieri in quella sua
Inclita reggia ricercar. Di gemme,

Di cavalli e di schiavi aureo-succinti

Tale ei fe' un dono a Niyatùs, che il dono
D'ogn’altro regio donativo assai

Misura oltrepassò, passò le norme

De’ prenci tutti. E le città che un giorno
A Grecia tolse re Kobàd, e quelle

Che si togliean Hormùzd e Kisra d'alto

E nobile natal, tutte egli rese


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— 172 —

A Niyatùs e ne descrisse il patto,
Miele infondendo in una coppa, d'atro
Veleno infetta. Verso Grecia allora
Andavano gli eroi di greco sangue,
Alla terra ne andavano fiorente
E amena e gaia. A stazioni due
Venia con quelli re Khusrèv d’altera
Fronte levata, e dato un dolce addio
A Niyatùs, a dietro si tornava.

La settimana che segui, levossi
Con dieci cavalier, quali avveduti
Erano e accorti e amici suoi. Dal campo
D'Azergashàspe andavane al delùbro,
Miravane la volta e dal regale
Palafren discendea. Così ne venne
A piè, con occhi lagrimosi e tristi,
Smorte le gote sue com'è talvolta
Pallido il sole; e come giunse accanto
Al. sacro fuoco, gli velàr le lagrime
Ambe le gote. Sette giorni e sette
Il Zendavesta egli leggea, dattorno
Al sacro fuoco, in umil atto, ancora
Fi s'aggirava, e al giorno che seguìa
Dopo que' sette, poi che già vicina
Era la festa di Sadèh, sen venne
Fuori dal tempio e diè alla sacra fiamma
Ciò che promise un dì, conforme a detti
Ch’ei disse già dinanzi a’ prenci suoi.
D'oro e d'argento e di gemme pregiate,
Di monete e di gemme imperiali,
Ampio fe’ un dono e diè monete ai miseri,
Sì che nessun per quella terra attorno
Restò non pago. Di là venne poi
D’Endiv alla città, perch'egli parte
D'alcuna gioia avesse mai. Quel loco
Era il confine del deserto e niuno


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— 173 —

Ben conoscea di quella terra il pregio

Qual fosse inver. Nell’inclita dimora

Che Nushirvàn si fece un dì, ’ve molti

Giorni sereni avea trascorsi, un nobile

Soggiorno a re Khusrèv le genti sue

Ordinarono intente e v'apprestaro

Un aureo seggio. Di là venne e assise

Dell’avo suo sul nobil seggio, ei principe,

Khusrèv-Pervìz, dell’ampia terra, a Dio.

Caro e devoto. E comandò che ratto

Ascendesse lo scriba al suo cospetto,

Venisse, consiglier per dargli aita,

Il sacerdote. Per gl’Irani allora,

Qual’era norma di regnanti prischi

E di nobili prenci, ivi notaronsi

Editti molti, e presiedeva all’opra

Bendùy illustre, ei d’ogni cosa esperto

E di nobil consiglio e saggio molto.
Tutta donava Khorassàn il prence

A Gustehemme e precetto gli fea

L’antiche leggi e di giustizia l’opre

Di rinnovarvi, suo ministro in tutte

Le imprese sue Burzmiìhr, di nobil seme,

E scriba esperto. E poi che questo cielo

Che alto si muove, al suo desio conforme

Così ne andava, Darab-ghird provincia

Ed Istakhàr egli donava ancora.

L’aureo suggello a quel decreto appose

E rapido il posò ne la man destra

Di Ram-Berzin e cenno fe’ che tosto

Il recasse a Shapùr. Giovani schiavi

Anche affidògli e splendida una vesta.
Altro decreto, qual de’ prenci è norma,

Che si recasse ad Endîàn, fe’ cenno

Sire Khusrèv, che la città leggiadra

Davagli di Kirmàn, lui noverando


<pb n="8.174"/>
— 174

Fra gli altri prenci. Un'altra terra ei dava
A Gherdùy battaglier, ponea sul foglio
L'aureo suggello, ed a Babùy ancora
Di Ciàci attribuendo le castella,
Con un trono d'avorio il regio editto
Sì gli inviava. Annoverò pur anco
Le chiavi tutte de le porte attorno
De’ suoi tesori e di Tokhàreh al figlio
Tutte affidò. Fatto cotesto, il nobile
Signor del mondo volse a grandi e servi
Gli sguardi attorno e comandò che ognuno
Qual fosse prence, obbediente al cenno
Di Kharràd fosse di Berzin, che libero
Fosse e disciolto di Kharràd precetto
Pel mondo attorno e scritto il nome suo
Sovra gli editti. A quanti poi con l'inclito
Iranio prence rimanean fedeli
Della pugna nel dì, veste regale
Ei porse in dono e a governar castella
E terre gli inviò nella sua gioia.

Facondo banditor di bella voce,
Di vigil core, e grande in quella terra,
Ne andava attorno. O servi al nostro sire,
Dicea, del mondo reggitor, sue lodi
Non faccia alcun di voi, fuor che per sue
Opere giuste. Non si cerchi alcuno
Vendetta, sangue mai non versi, e guida
Non facciasi ad alcuno all’opre triste.
Che se lagnasi alcun de’ servi miei
Ed hassi da qualcun d'’esti guerrieri
Offesa o danno, il violento e reo
Nulla s'avrà fuor che un confitto palo
Per loco suo, nell'altra vita il cruccio
Del fuoco ardente. Ognun di voi signore
È de’ tesori suoi, di quanto ancora
Per lui s'accumulò con sua fatica.


<pb n="8.175"/>
— 175 —

Per voi si goda, e ciò che avete, attorno
Ite donando, e chi di voi non have,
A chieder venga. Son tesori nostri
In tutte le città, per cura intenta
Degli avi nostri accumulati, ancora
Per nostro faticar, sì che dicemmo
Al tesorier che vesti e cibo ancora
Ei doni a chi non ha. Quando fia d’uopo
D’alimento ad alcun, prendasi ed aggia
All’alba di quel dì da’ tesorieri
Tre misure di grano al suo bisogno.

Così, di tal signor per la giustizia,
Qual è superno paradiso il mondo
‘ S’addimostrava, e benedìr si vuole
A re Khusrèv-Perviz. Che se v'è un prence
Di tal costume, d'un ch'è dotto ed empio,
Migliore ei fia d’assai, quand'egli canti
A Dio sue lodi, e a far più bella e amena
Quest'ampia terra ponga industria e cura.

XXVII. Lamento di Firdusi
per la morte del figlio.

(Ed. Calc. p. 1951)

Son passati di me cinque e sessanta
Anni fugaci, e ch’io la man distenda
A ricchezze, per me più non è bello.
Che s'io de’ miei consigli alcuna parte
Non mi prendessi, al morir del mio figlio
. Gontinuo penserei. Tempo era mio
D’andarne, e se n'andò quel giovinetto,
Sì che per suo dolor son io qual corpo
D'anima privo. Or io m'affretterei
Per veder se il trovassi, e se il trovassi,
A lui direi rimproverando: « Tempo


<pb n="8.176"/>
— 176 —

Gli era mio dell'andar; senza mia voglia

Perchè mai te n’andasti e il mio riposo

Portasti teco? Eri tu a me l'aita

Ne’ mali miei; perchè lontan da questo

Vecchio compagno tuo altro viaggio

Così cercavi? Forse che compagni

Giovinetti trovasti, e però tosto

Da me fuggivi? ». Allor che trenta e sette

Anni già si compìan del giovin figlio,

Parve la terra non trovar conforme

Al suo desio, sì che ne andò soletto.

Aspro fu meco in ogni tempo, meco

Ebbe corruccio e mi volgea le spalle.

Così ne andava, e qui lasciò dolore

E grave affanno; questo cor nel duolo

Sommerse e gli occhi miei pose nel pianto.
Ed ora ei venne ad un'eterna luce,

Là ’v'egli appresta al padre suo dolente

Un loco eletto. Sì volgea ben lunga

Stagione in ciel, nè de’ compagni miei

Di là tornava alcuno. Or veramente

Gli occhi il figlio a me volge; egli è del lungo

E lento mio tardar mesto e cruccioso.
Cinque e sessanta .gli anni miei, di lui

Trenta soltanto e sette ancora! Ei nulla

A questo vecchio dimandò, ma lunge

Soletto si partia, rapido e in corsa,

Io tardo e intento ad aspettar qual frutto

Verrà da l’opre mie. Ma splendiente

Renda l’anima tua l'Eterno in cielo,

Difesa all'alma tua faccia l’Eterno

La tua saggezza! Ed io da quel supremo

Giudice chieggo ch'è Fattor del mondo,

Da Lui sostentator, santo, di nostro

Cibo dator ne’ giorni nostri in terra,

Ch’Ei ti perdoni le tue colpe e renda

L’oscura stella tua fulgida in alto!


<pb n="8.177"/>
XXVIII. Behràm presso il principe
di Cina.

(Ed. Calc. p. 1952-1954).

Lunga or dimmi una storia e mi racconta
Imprese di Behràm, com’egli giunse.
Là, di Turania alle città, di Cina
Presso il monarca e a’ prodi suoi. — Venièno
Incontro ad esso cavalieri eletti,
A diecimila fra gli eroi di Cina,
Di vigil core. E v'era il figlio ancora
Del re di Cina col fratello innanzi,
Con ogni sacerdote, a lui ministro
E consiglier. Com'’egli innanzi giunse
Al regal trono del monarca illustre,
Il benedisse e prestavagli omaggio
Behràm Ciubineh; quando il vide, ratto
In piè levossi il nobile signore
E il baciò in fronte e con la man la gota
Gli accarezzò. Gli fe’ dimande assai
Del faticar del suo lungo viaggio,
Di sue battaglie e del contrasto fiero,
Di re Khusrèv e di sue genti in armi,
Ized-Gashàspe e Yelan-sineh ancora
Interrogò, gli eroi che ogni pensiero
Deposto avean di scontri e di battaglie.

Come si assise ad un sedil d’argento,
Del re di Cina si prendea la mano
Behràm, dicendo: Benedetto sire
Principe e duca de' Turani armigeri
Che sono in Cina, ben sai tu che niuno
Securo vive per la terra attorno
Per Khusrèv tristo e reo. Se alcun riposa




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— 178 —

Da sue fatiche, il punge e morde, e allora
Che vive quei beato ed aitante
Della persona, aggiugnevi corruccio
Alto e molesto. Che se tu m'accogli
Qui, nel tuo tetto, e protettor mi sei
Nella fortuna mia propizia o avversa,
In questa terra che valor non have,
Amico deh! mi sii, consolatore
Nella fortuna mia propizia o avversa
Mi sii tu sempre. Se molestia alcuna
Ti vien da ciò, n’andrò lontano e il loco
Del mio riposo cercherommi altrove;
E se tu a me non aòconsenti, in terra
D'India discenderò dalla tua terra.
Dissegli il prence: Eroe d'altera fronte,
Necessità di cotal giorno mai
Non t’incolga per me! Qual mio congiunto
Io qui t'avrò. Deh! qual congiunto? Assai
Più t'avrò caro de’ miei figli. In questo
Darammi aita questa terra mia
Co’ prenci e servi, e a te darò comando
Sugli altri duci e libero e disciolto
Fra i grandi ti farò di qual ti tocchi
Alto bisogno. —- Un sacramento ancora
Volle da lui prence Behràm, chè quelle
Eran parole, ed ei chiedea da lui
Vincol che l’alma gl'inceppasse. Allora
Disse di Cina il re: Per Dio supremo,
Di me, di te guida possente, amico
Io ti sarò fin che son vivo, nella
Buona o rea sorte a te consolatore.
Indi apprestàr due nobili dimore
E chiedean vesti d'ogni foggia. Allora
E schiavi e panni e cibi eletti ed ogni
Cosa più bella da formar giacigli,
Quanti vengono all'uopo in auro e argento


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— 179 —

Preziosi utensili, auree monete

E gemme imperiali, il re di Cina

Inviava a Behràm, sì ch'ebbe luce

L'alma sua fosca. De le mazze al giuoco,

Agli usati convegni, alle pianure

Ove cacciar solea, mai non andava

Di Cina il prence ove con lui non fosse

Cotesto amico. In questa foggia ei tennesi,

Ei di Cina signor, sempre lodando

Behràm guerrier, benedicendo ancora.
Era un principe allor, del re di Cina

Diletto amico, nelle sue battaglie

Possente aiutator. Maggior di lui

Di nascimento egli era, e Mekatùreh

Il nome suo. Gioria mai sempre avea

Per lui di Cina il re, d'ogni sua brama

Il compimento. All'alba egli solea

Venirne al suo signor, ponea le labbra

Sulle sue dita per baciarle, in quella

Guisa che il servo omaggio rende a un inclito

Di Cina regnator, poscia anche mille

Recavasi con sè monete fulgide

Tolte al tesoro di quel nobil sire,

Sperto in gran cose. Ciò vedea più volte

Behràm guerrier, sì che stupito e attonito

Al re di Cina ei riguardava; e un giorno

Sorrise e disse: O nobile signore,

Davver! che pregio hai tu dell'’ampia terra

Fra i prenci tutti! Ma vegg’io che al tempo

Che i tuoi raccogli qui, mille monete

Ogni mattina prendesi cotesto

Turanio prence. In cotal dono tuo

Ove d’auro qui fosse più d’assai

D'una miniera, destinata parte

A lui soltanto ella saria. — Costume

Tale è di noi, rispose il re; cotesto


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— 180 —

E onor di nostra fè, sì che, se alcuno
Più gagliardo è fra noi nelle battaglie
E più fermo d'’assai nel fatal tempo
Della distretta, ov'ei più chieda, nulla
Gli neghiam noi. La cupidigia sua
Muove or costui per suo bisogno estremo,
Ed egli presso a noi grado maggiore
Ha veramente e sol con le monete
Acquetarlo possiam. Che se da lui
Togliessimo favor, ne avria disdegno
La gente nostra e pel ribelle esercito
S'infoscherebbe il nostro dì sereno.

O di genti signor, sovra te stesso,
Behràm gli diè risposta ambizioso,

Il festi donno. Allor ch'è sire in terra
Taluno e forte e vigile dell’alma,

Le redini disciolte al servo suo

Non abbandoni. Or, s'io ten liberassi,
Forse che grato ti sarla? Ma forse
D'uopo ha' d’assai di suo fedel consiglio.

Potere in questo hai tu, disse il signore,
E in cotesto deslo consiglio è tuo,

Tuo l'accordo con me. Che se tu puoi
Libero farmì da colui, troncata
Avraì ben tu l'antica mia contesa.

Disse Behraàm: Dimani a l'alba, allora
Che Mekaturceh i nummi venga a chiedere,
Non gli sorrider tu, non voluer gli occhi
A rimirarlo aperti e non rispondi,

O se rispondi, solo il fa con ira.

Quella notte passo. Venne al suo prence
Di gran mattino Mekatureh, e a lui
Di Cina il prence gli occhi suoi non volse,
Udir non parve del turanio eroe
I detti, e Mekaturch alto uno sdegno
Pel re di Cina concepia, turbavasi,


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— 181 —

Sbarrando gli occhi, ed a gridar si fea

Contro al suo prence: Re famoso e illustre,

Oggi deh! perchè mai nel tuo cospetto

Vile son fatto? Forsechè cotesto

Prence di Persia che venìa con trenta

Amici suoi nel regno tuo, s’affanna

Perchè tu volga da giustizia a dietro,

E tenta ancora i prodi tuoi disperdere?
Avido e ingordo, perchè mai, rispose

Behràm allor, tant'impeto dispieghi

In tal contesa? Poi che il re di Cina

Alle mie norme ed al consiglio mio

Sen va conforme e non volge sua mente

Dal patto mio ben fermo, io più non soffro

Che ogni alba qui tu venga e a tuo grand’agio

Disperda al vento il suo tesor. Tu in questo

Ti appunti sì, perchè trecento hai teco

Gagliardi cavalier, perchè, qual preda,

Cerchi il leone in ogni tua battaglia.

Ma ciò non val, perchè tu chieda al prence,

Ogni mattina, di giumenti a some

Le auree monete. — Le parole sue

Mekatùreh ascoltò. D'odio e di cruccio

La sua mente s'empiè per l'avventura,

E con ira e con impeto distese

Ratto la mano e di compatto legno

Trasse una freccia dal turcasso. Allora,

Così disse a Behràm: Questo è il mio segno

E l'interprete mio nelle battaglie.

Dimani, al tuo ritorno in questa reggia,

Mira alla punta mia. — Behràm che udia,

Ratto stese la man; di puro acciaio

Trasse una punta, ad un compatto legno

Infissa e ferma, e porsela al turanio

E disse: Questa, qual ricordo mio,

Abbiti intanto. Vedi tu in qual tempo


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— 182 —
All’uopo ti verrà. — Dalla presenza
Del re di Cina Mekatùreh uscìa,
Alle sue tende rapido tornava.

XXIX. Morte di Mekàtfreh.

(Ed, Calc. p. 1954-1955).

L'oscuro lembo suo come ritrasse
La notte ombrosa, quando l'alba apparve
Sui monti bruni, un suo guerresco arnese
Mekatùreh vestì, venne stringendo
Turanio ferro in pugno. Allor che il seppe,
Richiese un palafren Behràm guerriero,
Chiese un usbergo quale ornar potea
Prence che regni. E scelsero tal loco
Ove giammai, per campi e per deserti,
A contrastar non discendean le fiere.
Ma di Cina il signor, tosto che intese,
Balzò in arcioni e vennero con lui,
A lui fedeli, i prenci suoi turani,
Sì a veder qual dei due leoni agresti
E furiosi più vicin s'avria
Suo tempo del morir. Tosto che sceso
Fu Mekatùreh della giostra al campo,
Fino alle nubi sollevò del piano
Turbinosa la polvere e tal voce
A Behràm che recava alta cervice,
Mandò da lungi: Quale hai tu ricordo
Di marzial virtù? Vuoi tu primiero
In tal giostra colpir? vuoi che sia primo
Questo, cuor di leon, turanio duca,
Al suo prence fedelî — Fa, fa tu primo,
Behràm gli rispondea, chè a tal contesa
Col tuo parlar cominciamento hai posto.

Mekatùreh invocavasi l'Eterno,


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— 183 —

Poscia dell'arco all’uno e all’altro estremo
Innestava la corda. Ei quella corda

E quella freccia allegramente strinse
Nella sua mano, e come fu da lui
Tratta a dietro la punta, ei sciolse il pollice
E con quel dardo il cavalier nemico
Colpì diritto alla cintura. Il ferro

Non traforò della cintura il ferro
Ampio-splendente, e stavasi da lungi
Behràm per alcun tempo e s’attendea
Che Mekatùreh del pugnar stanchezza
Avesse alfin. Che morto ei fosse intanto
Ben si pensava Mekatureh, ond’ei

. Alto gridava e da quel campo d'armi
Già fea ritorno, quando a lui tal voce
Mandò Behbràm: O di giostrar voglioso,
Ucciso non m'hai tu; non correr dunque
Alle tue tende. Tu parlasti in pria,

Or resta ed odi la risposta, e allora
Che udito avrai, se vivo ancor rimani,
Potrai tornarti. — Una volante freccia
Trascelse allor di ben compatto legno,
Atta a forar nemici usberghi; il ferro
Contro tal punta era qual cera o quale
Friabil pietra, ed ei cacciolla al fianco
Dell’animaso cavalier. Davvero!

Che sazio d'oro e di battaglie sazio

Fu quel duca d’eroi! Chinò la testa,
Pien di lagrime agli occhi, e la sua sella,
Fatta in legno di tuz, loco gli fue

‘ Di sonno eterno. Mekatùreh, al tempo
Che del bianco destrier balzò in arcioni,
Ambo a la sella i piedi suoi si avvinse
Primieramente, e allor ch’ei fu trafitto
Da quella punta del nemico, in sella
Rimase ancora e tentennando il suo
Belligero destrier parve correggere.


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— 184 —

Deh! tu che aneli al tuo desio, gridava
Behràm di Cina al re, costui, costui,
Che amò sua gloria, chi l’avel gli scavi
Cercasi omai! — Meglio riguarda, il prence
Di Cina rispondea, ch'ei dorme vivo
Sul culmo dell’arcion. — Deh! tu magnanimo,
Behràm soggiunse, va sotterra omai
La sua persona! D'ogni tuo nemico
S'addormenti così la trista spoglia,

Come dorme costui sul palafreno
Che di sangue turanio un dì nascea! .

Un cavaliero il principe animoso
Dì Cina allor presso al leon mandava,
Famoso un giorno, là caduto. Avvinto,
Miseramente ucciso il vedean tutti,

Dai mutamenti della rea fortuna

Omai tranquillo e riposato. In core,
Nascostamente, ne ridea gioioso

Il re di Cina, e meraviglia in lui
Sorgea per quello, cavalier famoso

Su l'ampia terra. Alle sue case ei venne
Pensoso intanto, ma toccar le stelle
Parea col serto di regal signore,

Tanta gioia era in lui. Monete ed armi
Ei chiese poscia e palafreni e paggi,
Corone ed ornamenti imperiali,

Denari e gemme da gran re, stromenti
Di guerra, vari e assai. Dalla presenza
Del re di Cina un messaggier togliea

I ricchissimi doni, al tesoriero

Di Behràm battaglier per affidarii.


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— 185 —

XXX. Il leone Keppi.

(Ed. Calc. p, 1955-1959).

Dopo cotesto, poi che in ciel passavasi
Stagion non lunga, e notte e giorno pace,
Maestra di virtù, regnava in terra,
Avvenne da que’ dì che fiere agresti
Fùr viste, più d’assai che altri si pensa,
Là sui monti di Cina. E v'era ancora
Una fiera selvaggia, assai maggiore
D'un palafren nel tristo corpo. Avea
Due negri ciuffl a sommo il capo, quali
Intorte funi, biondo il corpo e negra
La strozza e negri ambo gli orecchi. Niuno
Mai la vedea fuor che ne’ caldi giorni,

E quali artigli di leone agreste

Eran gli artigli suoi, del ciel le nubi
Passavan gli urli, ed ella anco le pietre
Nelle fauci profonde si traea,

Mentre grami per lei si feano i giorni
Anche ai possenti di quaggiù. Chiamarla
Ognun solea leone Kèppi, e quella
Terra a l'intorno andavane dolente.

Di Cina il prence una leggiadra figlia
Avea, qual luna, se vantar potesse
La luna in ciel due brune trecce e due
Turgide labbra di rubino e quale
Argenteo stelo un sottil naso e due
Labbra dischiuse ad un sorriso e meste
Pupille e brune. Che se mai sul capo
Raggio di sol toccavale, dolenti
E padre e madre si vedean per quella
Lor figlia lagrimar. Che un giorno uscisse


<pb n="8.186"/>
— 186 —

Alla campagna la fanciulla, accadde,
Per aggirarsi al verde bosco attorno,
Quando, intento a cacciar, di Cina il sire
In altra parte da quel bosco andava

E dentro al suo castel con un ministro
Si consigliava la regina. Al loco
Giugnea frattanto dilettoso e ameno
La giovinetta con un dolce vino,

Con giovani coppieri e di gagliardi
Con altre figlie. Come lei dall'alto
Della montagna vide Kèppi, rapido
Giù ne discese e l'ingoiò. Partìa

Da questa terra l’infelice a un tratto
E repentina; il vivere terreno

Tronco fu a lei, leggiadrissima gota.

E il re di Cina, come n’ebbe annunzio,
Livide e fosche fe' le guance e il crine
Strappavasi la madre. Ei tutto l’anno
Stettero a lagrimar per doglia acerba,
Arser d'affanno come se cocente
Li toccasse una vampa, arte cercavano
Contro l’orribil serpe, onde poi sciolta
Andasse da tal duol terra di Cina.

Ma poichè la tenzon con Mekatùreh
Fece Behràm, quand'egli in campo uccise
L'uom bellicoso, per vederlo andava
La regal donna ed a ciascun dicea
Dell’opere di lui. Ch'ella pur vide
Il cavaliero, accadde un giorno, e cento
Incliti Irani gli eran presso; ancora
Molti sergenti il precedeano e il prode
Una sua guida avea con sè. Fe’ inchiesta
La regal donna e disse: Oh! chi è costui
Con tale alta persona e tal di Dio
Inclita maestà? — Lungi tu sei
Da ciò che brami, dissele un valletto,


<pb n="8.187"/>
— 187 —

Se Behràm valoroso anche non sai

Di nome! Ei fu signor d'Irania bella
Per alcun tempo, e di suo serto allora
Andò l’altezza a superar d'assai

In ciel la bianca luna. Ora i più forti

D'eroe Behràm gli danno il nome, e invero

Il nome ei tolse di valor fra l'armi
Ai prenci irani. Da ch'ei venne in Cina
Da Irania sua, di sotto al palafreno
Trema la terra. Il nostro prence ancora
Il dice suo signor, gli pose ancora
Un diadema su l'eretta fronte.
Dissegli la regina : Oh! sarìa d'uopo
Che sotto a l’ale sue dolce conforto
“ Avessimo per tanto onor ch'egli have!
Una grazia da lui veracemente
Io chiederò, se pur non volge a vile
Cotesta impresa il mio signor. Costui
Forse potrà da l’orrido serpente
La mia vendetta dimandar, pur ch'egli
Ascolti il mio dolor, le voci mie
Ad imprecar rivolte. — Ove racconti,
Il paggio disse, al nobile guerriero
L'orrido caso il re d'ogni più giusto,
Di lion Kèppi non vedrai tu segno
Più mai quaggiù, se non ucciso, allora
Che i lupi ne trarran le membra sparte.
La regal donna, come udì coteste
Parole acconce, n’ebbe lieto il core,
Disciolta andò della perduta figlia
Dall’acerbo dolor. Corse e ne venne.
Del re di Cina alla presenza e tutto
Quivi ridisse ciò che vide e intese.
Disse di Cina il re: Saria cotesta
Onta e vergogna in loco ov'è pur sempre
Un cavalier quale son io. Se detto




<pb n="8.188"/>
— 188 —

Sarà per noi che leon Képpi un giorno
La figlia mia si divorò, fia questo
Della mia casa in vituperio. E quegli
Davver non sa che l'orrido serpente
Anche un monte di ferro col pestifero
Alito tragge a sè. Ben che di prence
Inclita sia la figlia, è pur di prence
Cara la vita. — Oh! la vendetta mia,
La regal donna rispondea, per quella
Ch'era pupilla agli occhi miei, dimando!
Sia di me gloria o sia vergogna, tutto
Io ridirò perchè il desìo si compia.
Anche lungo su ciò tempo si volse,
Ed ella nascondea quel di vendetta
Amor feroce a tutti. E fu che un giorno
Fece una festa il re di Cina e a tutti
Diede l'accesso i prenci suoi. Mandava,
E fatto invito a Behràm battagliero,
Sovra un trono d’argento, allor ch’ei venne,
Il fe' seder. Ma come dietro ai veli
Delle sue stanze udì le voci allegre
L'inclita donna, rapida si mosse
Behràm gagliardo a rivedere. Assai
Laudi gli fece e il benedisse ancora
In questa foggia: Per te sian fiorenti
Cina e Turania! Or da te illustre chieggo
Un mio desire. Al mio desìo propizio
E amico deh! tu sii! — Tuo gli è il comando,
Behràm le disse, tua la possa e il velle
In ciò che chiedi. — E la regina disse:
Di qui non lungi è un dilettoso loco,
Atto a tripudi. Al verde loco, giovani
Di Cina, al cominciar di primavera,
Fanno una festa. Ma più in su di quella
Foresta verde, quanto un trar di freccia,
Tu scorgi un monte più che pece assai


<pb n="8.189"/>
— 189 —

E bruno e tetro. Su quel monte è un drago,

Onde pur sempre da sventura è colta

Questa terra di Cina. Egli è un leone

Ch'io Kèppi dico, nè di lui diverso

Nome conosco. Ma una figlia mia

Ebbimi già dal principe di Cina,

Tale che il sol rendeale omaggio. Un tempo

A quel loco di festa ella ne andava

Dalle sue stanze, quando il prence nostro

Alla caccia scendea con una scorta.

Discese allor dall’orrida montagna

Il fiero mostro e dentro a le sue fauci

La figlia nostra si traea. Frattanto,

Ad ogni cominciar di primavera,

Andò a quel loco dilettoso e bello

Il re di Cina per sue cacce, e niuno

De' robusti garzoni in questa nostra

Città rimase, degli eroi nessuno

Incliti in guerra qui restò, ma tutti

Da leon Képpi truculento e fero

Ebbero morte. Disertò quel crudo

La nostra terra sì fiorente. Eppure

Cavalieri belligeri ed eroi,

Atti a grand’opre, molti ènno saliti

Correndo al monte. Ma quand'ei da lungi

Veggon l'artiglio dell’orrido drago

E il petto e il dorso e la cervice e il capo

E l’irte orecchie, e allor ch'eì rugge e freme,

D’ogn'uom guerriero il cor si fende. Oh! quale,

Qual è mai tigre o leon truce o in acque

Temuto alligator che di tal mostro

Timor non senta? E non ardisce alcuno

Muovergli incontro, ov'ei de la sua sorte

£omputi i casi a lui propizi o avversi.
Disse Behràm a lei: Dimani, all'alba,

Andrò, vedrò pur io quello di festa


<pb n="8.190"/>
— 190 —

Loco temuto. Col poter di Dio

Che ci dà forza, Creator superno

Della luna e del sol, quel dilettoso

Loco di festa sgombrerò dal serpe,

Ratto che il primo albor la via ci additi.
Quando mostrossi in ciel l'argenteo disco

De la pallida luna, allor che sciolse

Le brune trecce sue la notte ombrosa,

Gli eroi di Cina si sperdean. Ne andavano

Ebbri dal vino, e ognun si ritornava

Da quel loco di festa al suo soggiorno.
Ma quando apparve maestà del sole

Fulgido in alto e le sue trecce attorse

La notte bruna, un suo guerresco arnese

Behràm si rivestì, fidata in Dio

La dolce vita. Ei portò un laccio e un arco

E cento frecce di compatto legno

E con due punte un'asta lunga, fiere

Atta a colpir. Come sen venne al monte

Alto e dirotto, che tornasse a dietro

De’ suoi la scorta comandò. Ma quando

A lion Kèppi si trovò più accanto

Il nobile guerrier, detto tu avresti

Che soltanto per lui tutta adombravasi

L'alta montagna. L'armi cinse il prode

Là tra le rupi e con l’attorto laccio

Balzò in arcioni. Soffregando in pria

L'arco suo forte e rilegando il nervo,

Iddio chiamò dator di grazie e un fiero

Grido mandò, su la ronchiosa pietra

Posò la mano e da la roccia dura,

Della mano al toccar, fuoco schiantava.
Entrava allora in una fonte chiara

Leone Képpi. Dentro all’acque sue

S'avvoltolava, indi nè uscìa, chè quando

Erano molli dell’orrendo serpe


<pb n="8.191"/>
— 191 —

Gl'ispidi peli, nessun danno a lui
Feano i dardi d'alcun. L'orribil drago
Allor s'avanza e già desia quel prode
Entro gittar ne la profonda strozza,
Quando una freccia di compatto legno
L'’uom valoroso vibragli di contro.
Davver! che sazio delle giostre sue
Fu lion Kèppi! Un'altra freccia ancora
Behràm al capo gli avventò diritta,
Sì che qual’onda l’atro sangue uscìa
Per la bocca dal petto. Ei ben vedea
Qual de la belva e l'impeto e la possa,
Onde ratto una terza e cuspidata
Freccia scagliò contro agli artigli suoi
E quarto il laccio sciolse poi. Balzava
©. Rapido allor su la montagna eccelsa,
E di là de la belva in mezzo al petto
L’asta avventò, sì che le pietre attorno
Andîr di sangue intrise. Il valoroso
Trasse la spada allor, quel corpo immane
Del fero serpe in due divise e il capo
D'un colpo ne troncò. Qual cosa vile
.Abbandonando il lurido carcame,
Giù calossi dal monte e al re di Cina
Venne con fiero incesso e lieto in core,
Di lion Kèppi a raccontar l’impresa.
Ma già salito al dilettoso bosco
Era di Cina il re con la sua donna,
Ambo correndo a concitati passi
Della montagna al vertice. Levossi
Voce di gioia fra gli eroi di Cina,
Sì che fendersi al grido alto e sonoro
Detto avresti la terra. Ei benedissero
A Behràm battaglier, gemme con oro
Gittàrgli in copia, e al petto suo frattanto
Forte il serrava il re di Cina; sempre,


<pb n="8.192"/>
— 192 —

D'allora in poi, sire chiamollo. Al regio
Albergo suo come sì rese ancora

Di Cina il prence, messaggier scegliea
Cortese e dolce e di cofani cento

D'auree monete da’ tesori suoi

Inviava un suo dono e vesti ancora

E giovinetti paggi e cose assai

Anche in meno ed in più. Che a lui venisse
Il regio scriba, anche fe’ cenno, e un inclito
Editto ivi notàr su rilucente

Foglio in seta cinese. Ecco! una figlia

A principe Behràm concesse allora

Il nobil sire, perchè in Cina il suo
Soggiorno egli fermasse e la sua sede,
Poscia una vesta, quale è pur costume

Di quella terra, gli apprestàr, per lui
Molte celate e molti cinti chiesero.

A ogni duce d'Irania, il re gli disse,
Ove degno ei ne sia, questo tu dona.

Di Behràm, da quel giorno, altro non fue
Cura o pensiero che cacciar per boschi
E prender cibo; niun corruccio in lui
Pel tramutar della fortuna, e tutti
Di Cina ì cavalier d’altero capo
Desìo pungente di Behràm nel core
Avean pur sempre, e de la gente ognuno
Così dicea: Noi ti siam servi, noi
Per te siam vivi su la terra. — Intanto,
Behràm godea la dolce vita e doni
Facea pur anco, e a lui benedicea
Ogni abitante di quel loco estrano.


<pb n="8.193"/>
— 193 —

XXXI. Lettera di re Khusrev
al principe di Cina.

(Ed. Calc. p. 1959-1962).

E fu cotesto fin che annunzio venne
In suol d'Irania, de' gagliardi al sire
Fin che annunzio toccò : Regno e tesori
Ha Behràm più di te, nè per averli
Ebbe rancura. — Pien d’affanno e doglia
Fu re Khusrèv per tal pensiero e afflitto
Per l’opre di colui fu il mesto core.
Consigliavasi allor co' prenci suoi
E favellava e opinion dicea.
Di varie cose e per la notte oscura
Anche indicea che il regio scriba a lui
Venisse ratto. Qual di freccia è punta,
Egli aguzzava al calamo la punta
E un'epistola sua di Cina al prence
Ratto scrivea. Deh! sì, quale un pugnale,
Detto avresti, gli è il calamo scorrente.
A Dio signore, unico in ciel, fe’ laudi
Primieramente, ch’Egli è guida a tutte
Opre leggiadre, almo fattor del sole
E de le stelle e della luna, in trono
Qual pone i regi a governar. Chi male
Cercasi in terra, Egli castiga, e accresce
Divina maestà ch'è de' regnanti.
Ei di nostro saper, di ciò che ancora
Non conosciam, dell’opre giuste o ingiuste,
D'ogni difetto e mancamento in noi,
Conoscitor si mostra, Ei che nel cielo
Unico vive, ch’Ei non ha compagno,
Non ugual, non consorto. Il ben raccoglie
Chi del ben fe’ ricerca. Oh! mai non viva




<pb n="8.194"/>
— 194 —

Quei che a male operar la man fe' presta!
Ma chi scelse di Dio retto sentiero,

Ben vuolsi che rifugga da pensiero
D'animo ingrato. — E di Behràm-Ciubìneh
Il nome poscia ricordava (mai ‘

Compiuto il suo desio costui non vegga
Per l’ampia terra!): Avea l’iranio prence
Un servo ingrato, sconoscente al sire,
Sconoscente a l’Eterno. Era un fanciullo,
E nome non avea, non voglie oneste,

Ed allevollo il padre mio nel tempo
Ch’era propizio. Come il re del mondo
Educossi costui, fe’ ciò che a lui .

Ben s’'addicea per sua natura. Intanto,
Non son pel mondo l’opre di cotale
Nascoste inver tra principi e tra servi.
Non l’accoglie chi ha pregio, o chi d'’eccelso
Grado è in virtù. Presso di te sen venne,
E accolto sì l'hai tu, la man gli hai preso
Qual di un gran prence. Or qui nessun cotesto
In uom ch'è giusto, pensa mai, nè in questo
Io m’accordo con te. Dimenticasti

Forse l’opre di lui, quando cruccioso
N'andasti sì per suo disdegno, allora

Che molto ei ti colpì con una sferza

A sommo il capo? Ciò davver non piacque
A niun de' tuoi! Ma tu non déi tua gloria
Senza frutto lasciar, non déi tua pace

A Behràm dare a prezzo. Allor che questo
Mio regal foglio ti sia dato, pensi

‘La fosc'anima tua. Che se quel servo

Co’ ceppi intorno al piè m’invierai,

Di molta aita sarai largo a noi.

Se no, d’Irania manderò d’armati

Ampia una schiera ed in turania terra

Il giorno infoscherò sereno e chiaro.



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— 195 —

Come giunse quel foglio al re di Cina,
Ratto ch’ei di Khusrèv quali pur fossero
I detti intese, Come tu verrai
Dimani all’alba, ei disse al messaggiero,
A questa reggia, la risposta chiedi
A questo foglio. — Andava il messaggiero
Pieno d’affanno il cor, nè in quella notte
Ebbe sonno o quiete. Fi là si tenne
Fin che rivide fulgida la lampa
Del nuovo di, sì ch’ei tornò correndo
Alla magione del signor di Cina.

Il re di Cina uno scrittor d’epistole
Si prese allor con nero muschio e calami
E con fogli cinesi in seta candida.
Rispondendo ei scrivea: Laude da principi
A. Dio creante da me servo! — Epistola
Di te già lessi, aggiunse poscia, e assidermi
Innanzi feci il messaggier. Davvero!

Che a’ servi tuoi per questa via favelli?
All’antica tua casa oh! non s’addice
Che alcun di voi non riconosca prence
Per principe qual è, che in servil loco
Seder non faccia chi gli è servo! Mie
Cina e Turania in ogni lor confine

E diadema fra gli Heytàli ancora

Son veramente. Da che vissi, tale

Non son io che le leggi e i patti infranga,
E tu con meco non gittar coteste
Parole insane. Poi che in man mi presi
La mano di Behyràm, se poi rottura

In quel patto inducessi, ei veramente
Chiamar non mi vorria fido e leale,

E in me non è timor fuor che di Dio
Verace e santo. Che se crebbe in alto
La tua grandezza, ove in te fosse mai
Senno maggior, bello saria cotesto.


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— 196 —

Pose a quel foglio un suo suggello e disse:
Or si convien che in rapido cammino
A vento aquilonar congiunto sii.
Andavane pertanto il messaggiero
All’iranio signor, correa la via
In minor tempo d’una luna; e quando
Lesse quel foglio il prence iranio, assai
N'’ebbe corruccio e della rea fortuna
Ebbe sgomento. Ei mandò attorno e tutti
Chiamò gl’Irani e ripetè con elli
Del re di Cina le parole. Ancora
L'epistola mostrava e quei leggeano,
Iranì prenci, e in gran pensier restavano.
E n'’ebbe alfin cotal risposta: O gloria
Di tua grandezza, o di prenci corona,
Coteste cose e facili e lecgére
Non pensarti nel cor. Ma con accorti
E saggi vecchi tu consiglio tieni,
E, per tal foglio, impetùoso in tale
Impresa non andar! Non far che questa
Splendida lampa d’un’antica gloria
S'offuschi ratto. Un uom d’Irania scegli
D'età provetta, ed eloquente e saggio,
E atleta e scriba. Ei vadane di Cina
Al principe di qui, parole ei dica
E il secreto ne ascolti. Ei sappia ancora
Behràm chi fu ne’ primi giorni suoi,
Indi, poi che fu duce, a che anelando
Tanto restò fin che compiuta fue
L’ardita impresa, e come poi suo servo
Il suo prence volea. Che se non bene
Approda l’opra di costui che mandi,
In un sol mese, ei resti ancora, a un anno
Tragga l’indugio suo. Ma poi che genero
É di Cina al signor Behràm gagliardo,
Agevole non è le triste cose


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— 197 —

Ricantar di costui. Vuolsi che molte
Parole dica in favellar cortese
Colui che mandi, e il suo disegno ascoso
Alcun, chè non si vuol, mai non conosca.
Ma da quel di, come sapea che alcuno
Epistole recò di Cina al sire
Da suol d'Irania, rapido correndo
Venne Behràm guerrier del re di Cina
Là, nel cospetto, e così disse: O prence
Che molta hai lode, bene udii che quello,
Malnato e reo, l'uno e poi l'altro scrive
I fogli suoi. Ma tu di Cina un forte
Esercito ti scegli onde a te venga
L'Irania terra in potestà. Irania
E Grecia ancor m’acquisterò col ferro
E te sire dirò di quel confine
Ampio e remoto. Le notturne scolte
In Grecia e Irania disciorranno il labbro
Solo a gridar nel nome tuo. Ma il capo
Io frattanto a Khusrèv malnato e reo
Troncherò. Deh! che incolume di lui
Non resti il capo, non il piè! Quand’io
M'accingo a te servir, dalla radice
Dei re Sassàni svellerò la stirpe.
Il re di Cina, come udì, la mente
Ebbesi ingombra da pensieri e questi
Gli si affollàr nel tempestoso core
Sì come piante in una selva. Ratto
Fe’ a’ più vecchi un invito, agli eloquenti,
Ai saggi tutti e a chi memoria avea,
E disse ciò che disse in prima a lui
Behràm guerriero, e dall'intimo core
Ogni secreto via disciolse. Allora,
Da que’ saggi raccolti e da’ congiunti
E dagli estrani tal risposta egli ebbe:
Lieve impresa non è; che la misura


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— 198 —

Già già si colmi de' Sassàni prenci,
Malagevole è ancor. Ma se un esercito
Mena in guerra Behràm, la via mostrando
A chi è più saggio, molti egli ha in Irania
Fidati amici; e se di Cina il prence

Gli fia sostegno ed alleato in guerra,

Per la fortuna tua rapidamente

Si compirà cotesta impresa e voglionsi
Pure ascoltar di Behràm le parole.

E Behram che ascoltò, parve d'un tratto
Farsi giovane in cor, sorrise alquanto,
Altro disegno assunse. In un consiglio
I prenci tutti convenìan concordi,
Sceglier doversi due garzoni, a cui
Grado potea di principe e signore
Addirsi, forti in sopportar fatiche
E belligeri ancor. Cinùy di nome
Era un prence gagliardo in Cina allora,
E v'era un altro da l’altera fronte,
Zengùy il nome suo. Mandava allora
Di Cina il sire, e questi due chiamando,
Agli scrittoi del dar stipendi attorno
Li volle assisi. Dell'assalto al giorno,
Disse a cotesti il nobile signore,

Accorti siate voi. Gli occhi volgete

A Behràm sempre, di sua gioia al tempo
E nell'istante del suo sdegno. I guadi
Tutti occupate del Gihùn, sperdendo
L’acque sue chiare e tempestando forte.

Un esercito audace (erano illustri,

Eran valenti quai leoni in guerra)

A cotesti affidò. Ma da l’ostello

Di principe Behràm fragor di timpani
Ratto s'intese e per la densa polvere
Si fe’ oscura del sol la gota fulgida.
Volse di Cina a suol d'Irania in giorno
Di Sfendarmùd, all’apparir dell'alba.


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— 199 —

XXXII. Andata di KharrAd-Berzîn.

(Ea. Calc. p. 1962-1967).

All’ inclito signor d'Irania bella
Come annunzio venìa che fuor del bosco
Era balzato il tristo lupo e forte
Manipolo d’eroi menarne seco
Behràm gagliardo, sì che al ciel sereno
La luce egli rapia, queste parole
Ei fe’ a Kharràd-Berzin: Per tanta impresa
La via ti prendi al regio ostel nemico.
E in Irania e in Turania e sei tu sempre
Il più saggio e in valor di tua favella
Il più possente. — Così apria le porte
Del suo tesoro e tante ne traea
Gemme regali e cinti aurifulgenti
E spade acute, che stupiane in core
Kharràd-Berzin, chiamava Iddio signore
Nel secreto dell'alma. E allor ch'ei prese
La via di Cina con gli eletti doni,
Altro per il Gihùn trascelse un varco;
Giunse a l’ostello del signor di Cina
E levò il guardo e scelse un nunzio suo
Perch'ei dicesse che alla regia casa
Del prence iranio era salito il messo.

Il re di Cina, come udì, l'ostello
Tutto fece adornar, fe’ cenno ancora
Di dar l'accesso, e il messaggier d'Irania,
Poi che fu giunto più da presso, sciolse
La lingua a favellar, rese a quel grande
Inclito omaggio e così disse: Allora
Che a me comando farai tu, la lingua
Fia che disciolga a favellar chi è servo.


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— 200 —

E il re di Cina rispondea: Diventa
Giovane il cor dell’uom già vecchio e attrito
Per dolce favellar. Di' quelle cose
Che han nobil frutto in sè, chè la parola,
Detta, è midollo, e, taciuta, è corteccia.

Kharràd-Berzin, come cotesto intese,
Le parole d’un dì ratto a la mente
Si ricondusse e fe' sue laudi a Dio
Primieramente, a Dio possente e forte,
Della fortuna reggitor, che questa
Volta azzurra creò, creò la terra
E il tempo e questo cielo alto rotante
E il mondo di quaggiù. Tutta è di Lui
La potestà, servi siam noi, parlanti
Di sua giustizia. Diadema ed alto
Seggio ei -dona a costui, misero un altro
Rende e tapino, nè per quello amore
Ha, non per questo egli ha corruccio, e niuno
Questo ben sa fuor di Lui sol, che il mondo
Creava un giorno. Per l’avel nascemmo
Principi e servi, e senza voglia a morte
Devota abbiam nostra persona. Or io
Movendo da Gemshìd, principe illustre,
Da Tahmuràs degno di laudî, sire
Dell’ampia terra, e dopo lui scendendo,
Fino alla testa di Kobàd monarca,

I prenci tutti vo' membrando illustri,
Prence Khusrèv e Rùstem glorioso,

A Isfendiàr per la medesma via

Così scendendo. Ma una tomba oscura,
Dopo il viver di qui, fu la lor sorte,

E veleno gustàr d’un dolce balsamo

In loco, ovunque. Ed or, della persona,
É il prence iranio tuo congiunto, lieto
Per tua grandezza, corruccioso e mesto
Se danno hai tu. Nel tempo de’ regnanti


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— 201 —

Che aveansi lode, padre alla sua madre
Già fu di Cina il re, sì che in tal giorno
L’antico patto rinnovar si debbe,

Da che n'andò per altra via dispersa
Ogni opra nostra. Benedetto sii

Da Colui che concede alta vittoria,

E de’ regnanti che han corona, il capo

. Suolo ti sia che col tuo piò calpesti!

Così parlava, e il principe di Cina
Orecchio gli porgea. Dissegli poi:

Deh! tu che vendi sapienza attorno,
Se in Irania è cotal che riconosca
L'opre del cielo in fuor di te, davvero!
Ch'egli basta d’assai! — Nel regio ostello
Orrevol loco gli apprestava e accanto
Il fea seder. Per suo comando allora
I doni eletti il messaggier recava,
Numeravali tutti al tesoriero
Ad uno ad un partitamente. Oh! disse
Di Cina il prence, per mancar di doni
Povero e derelitto in su la terra
Non sii tu mai! Che se da me tu brami
Alcun dono ottener, dillo, perch'io
Questo ancora ti faccia incontanente;

Se no, ben tu sarai per doni tuoi
Più splendido appo me, qual diadema
Per sapienza sovra i prenci tutti.

Loco giocondo gli apprestàr, di tutte
Fogge vi poser vesti; indi alla mensa,
Indi alla caccia ed a’ banchetti e al dolce
Gustar del vino stavasi l'iranio,
D'inclit'orme quaggiù, presso di Cina
AI nobile signor. Cercava ei sempre,

E un di che sciolto e libero il vedea,
A favellar con subitano ardire
Corse e in tal guisa incominciò: Malvagio


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È Behràm di natura, e d’Ahrimàne,

D'opre triste cagion, d’assai peggiore.

Prenci esperti ei tradì per cosa tale

Cui ricordar, quanto un obolo vile,

Pregio non ha. Dal nulla suo lo trasse

Hormùzd regnante incoronato, e in alto

Il sollevò, per pregio ch'egli avea,

Più assai di questo sol. Niun per la terra

Quale il suo nome conoscea; ma in terra

Pur si compiva ogni sua brama. E s'ei

Molto appo te con opere leggiadre

Or si comporta, ei frangerà il tuo patto

Alfine alfin, come già il franse un tempo

Con l'iranio signor. Fedele al prence

Egli non è, non è fedele a Dio.

Che se tu il mandi appo l’iranio'sire,

Dell’iranio signor solleverai

L'inclito capo fino al ciel superno

Di questa bianca luna, e Cina poi

Tua sarà con Turania e il tuo soggiorno

Al loco farai tu che più t’aggrada.
Queste parole come udì, turbossi

Di Cina il prence, intenebràr quegli occhi

Nel rimirar Kharràd-Berzin. Deh! queste

Parole tu non dir, dissegli allora,

Chè appo noi l'onor tuo tu offuschi ratto,

Ch’io malvagio non son, non son di patti

Violator. Di questa terra il grembo

Ha per sua veste funeral colui

Che patti infrange. — Come udì cotesto

Kharràd-Berzin, che dell’oprar freschezza

Ratto avvizzia, conobbe e vide, e al prence

Di Cina disse allor: Nobil signore

D'alto lignaggio, a che dicendo vai

Queste parole tue? L'iranio prence

Di Ciubineh è per te d’assai migliore,


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— 203 —

Chè da lunga stagion l’iranio sire
È tuo congiunto. — Il mio secreto, allora
Disse a Kharràd novellamente il sire,
Io fuor trarrò dall’intimo del corc.
Se il greco Imperator ruppe sua fede
Con re Khusrèv allor che fè v'aggiunse
Con impromessa, forsechè fia d’uopo
Ch’io come quei nell’opre mie m'adopri,
A Behràm battaglier frode intessendo?
Mille, pari a Khusrèv, schiavi a me sono,
E pregio ancor di nascimento illustre
Ho mecò inver. Quel prence tuo non vale
Il re di Grecia, che prestògli esercito,
Tesori e terra a soggiornar. Ma il forte
Behràm è tal, che notansi ne’ libri
L'opre famose delle sue battaglie.
Genero egli è di me, sommesso ed umile,
E trarmi a dietro dal suo patto, oh! in quale
Guisa potrei? — Novellamente il core
All’iranio Kharràd si strinse in petto;
Ei con arte sottil ratto si volse
A inganni e frodi. Ripensando ancora
A sè stesso ei parlò: Di noi ricordo
Far più non vuol di Cina il re, chè speme
Gli diè Behràm d'Irania bella, e sono
I detti miei fruttificar di salce.

Come la speme nel signor di Cina
Cancellavasi in lui, per manco d’arte
Alla regina ei si volgea. Cercava
Chi più accanto le fosse onde serena
Si ritornasse l’anima sua fosca,
E vennegli alle mani un maggiordomo,
E l’abitar con lui vennegli ancora
Acconcio e all'uopo. Di Khusrèv ridisse
Nel suo cospetto le parole e lieto
Fe' per esse quel cor d’uom vano e stolto.


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— 204 —

Deh! tu m'aita, gli dicea l'iranio,
Appo la donna tua regal, perch'’io
Scriba diventi sulle porte sue.

Il tuo desio per la regal mia donna
Mai non fia che si compia, il maggiordomo
Gli rispondea nell’arti sue fidato,

Chè genero è di lei Behràm-Ciubineh
Veracemente e da lei vien possanza
In Behràm battaglier. Ma tu se’ tale
Che scrivere ben sa; d'arte sottile
Fa, fa ricerca, e non svelar cotesto
Alto arcano di te non pure all’aure.

Kharràd-Berzin come cotesto udìa,
Principio o fine al suo dolor non scorse.

Vecchio turanio eravi allor (suo nome
Kalùn era davver), che vile e abietto
Avean gli altri Turani. Or le sue vesti
Eran di cuoio e di miglio bollito
La sua vivanda. A Mekatùreh antico
Congiunto egli era sì della persona,

E la sua mente per Behràm guerriero
Piena d’alto scompiglio e di tumulto,
Ond’ei sempre nel cor per quell’ estinto
Avea desìo di sua vendetta e piena
D'imprecanti parole e di scongiuri
Contro a Behràm la lingua sua, chè quando
Miseramente Mekatùreh ucciso

Per mano di Behràm giacque nel campo
In fatal giorno, per dolor ch'egli ebbe,
Turbossi il core di Kalùn, piangente

La notte e il giorno per acerba doglia.

Kharràd qualcun mandava e a quell’afflitto
Invito fea, nel loco ampio ed illustre
Volealo assiso. Anche donò monete,
Anche denari gli diè in copia e vesti
E cibi molti gli spartì. Chiamavalo


<pb n="8.205"/>
— 205 —

S'egli al desco sedea, volealo assiso

Più in alto assai d'ogni più illustre. Intanto,
Di pensier gravi era la mente piena

Di Kharràd sapiente, esperto in molte
Opere di quaggiù, d’alto intelletto

E paziente in cor, sì che in disparte

Col maggiordomo del regale ostello
Molte parole consigliando ei fea

Della donna regal di Cina illustre;

Ma s'egli andava appo il signor di Cina
La notte o il giorno, a favellar le labbra
Unqua non disciogliea. Disse frattanto

Al prence iranio il maggiordomo antico:

Se conoscenza hai tu di medic'arti,

Tu che se’ grande e notar sai tue cifre,
Se il nome tuo lontana fama ancora
Vantasi, ora davver! che alla regina
Caro sarai qual diadema in fronte,

Poi che vinta da morbo è la sua figlia.

Tal conoscenza è in me pur anco, ei disse,
E man porrò, se tu per me favelli,

A tanta impresa. — Andavane correndo
Il maggiordomo alla regal sua donna

E le dicea: Novello e sapiente

Un medico qui giunse a’ nostri alberghi.

Deh! vivi tu beato e in godimenti,

La regal donna gli rispose. Adducimi,
Adducimi colui, non indugiando.

Venne a Kharràd-Berzìn e così disse:
D'uopo è che celi il tuo secreto. Or vanne
Alla regina e il nome tuo le annunzia,
Fa di te stesso medico valente, —

Di lieto aspetto. — Andavane coluî,
Fermo nell'arti sue, dalla regina,
E l’egra figlia sua scovria da morbo
Al fegato colpita. Ei sì fe’ cenno


<pb n="8.206"/>
— 206 —

Che acqua di melagrano incontanente

Altri apportasse e crescion verde ancora
D'acque scorrenti e l’erba che lattuga
Altri suole appellar. Via dal cerèbro

Volle scacciar de la febbre l’ardore,

E tosto, al trapassar di sette giorni,

Per comando di Dio, qual bianca luna
Ch'è luce al mondo, fu la donzelletta,

SÌ che recava da’ tesori suoi

La regal donna di monete fulgide

Una sportella e vesti cinque, d’oro

Inteste, e disse: Queste cose indegne

Deh! prendi, o saggio, e chiedi a me qual cosa
Anche t’è duopo. — E quei rispose: Questo
Deh! ritieni appo te; cosa che vengami
All'uopo un giorno, a dimandar m’appresto.

Ma di rineontro fino a Merv ne andava
‘ Behràm guerrier, l'esercito ordinando
Rapido sì qual è di fero augello
Rapida l'ala. E venne alcuno intanto
Di Cina al sire e così disse: Alcuno
Che di Cina o Turania in suol discenda
D'Irania, non lasciar. Che s’ei recasse
Di noi novella a re Khusrèv, per questa
Novella sua novelli doni avria.

Fe’ un bando il re di Cina e così disse:
Senza il nostro suggello ove qualcuno
Scenda in terra d'Irania, in parti due
Ne fenderò la ribelle persona;

Giuro per Dio che la persona sua
Non vo' che per argento altri redima!

E Kharràd per due lune ivi si tenne
Il suo segreto ben guardando. Alfine,

Del cor suo ne l’angustia, a sè chiamando
Kalùn protervo, il fe’ seder su l’inclito
Suo seggio e disse: In alcun giorno mai,


<pb n="8.207"/>
— 207 —

Per tutto il mondo, alcun non è che sciolto
Abbia da doglia in suo secreto il core.
Lunga stagion tu mendicasti in Cina

Da questo e quello un pane d'orzo e miglio
E di cuoio le vesti. Ora il tuo cibo ©

È il bianco pane e d'agnelli le carni

E di fulgida seta attorno rechi

Le vestimenta. Così fu a quel tempo,

Or gli è così come tu vedi. Oh! quante
Udir dovesti imprecazioni e quante
Benedizioni! Ma frattanto a cento

Anni toccava di tua vita il tempo,

E molti inver son gli anni tuoi. Tremenda
A te serbo un'impresa, in che otterrai

O regio trono o tetro avel. La gemma

Io piglierommi del signor di Cina,

E tu vanne di qui rapidamente
Travalicando l’ampie regioni,

Chè appo Behràm andar t’'è d'uopo e lungo
Tempo in Merv t’arrestar. Vesti frattanto
Di negro cuoio un ampio arnese e togli

Un pugnal teco e la tua via divora.

Giorno del mese che Behràm si appella,
Tu nota e osserva, ed in quel giorno all'alta
Soglia ch'è di Behràm, luce del mondo,
Vanne diritto. Egli quel giorno estima

E nefasto e infelice, e noi molt’anni
L’avemmo ad osservar. Non vuol che molta
S’affolli gente intorno a lui quel giorno,

E di drappi di Grecia ei si riveste.

Di’ tu frattanto che un messaggio rechi
Del re di Cina dalla figlia a lui,

Gioioso prence, e ignudo entro la manica
Serba intanto il pugnal, serbalo ascoso

Fin ch'ei te solo chiami a sè. Ma quando
Appo Ciubineh te n’andrai, cotesto


<pb n="8.208"/>
— 208 —

Digli tu aperto: « Quella figlia altera

Così mi disse »; — e quando gli dirai
L’alto secreto nell'orecchio, ascohdi

Le tue parole ad ogni estrano. E allora
Ch'ei ti dirà: « Quale il secreto? Dillo,
Dillo tu a me! », — vanne affrettato a lui,
Colpisci di pugnal, tutto gli squarcia
L’umbilico profondo e balza poi

Qualche scampo a trovar. Quei che la voce
Udranno del trafitto, all’ampie stalle,
Lungi da lui, discenderanno, ed uno

Verrà a' cavalli, altri a’ tesori, e nulla
Molestia ti verrà se ucciso l'hai.

Che se alcun ti uccidesse, oh! molte cose
Viste hai già su la terra e il male e il bene
Provato hai tu. La tua vendetta ancora
Compita avrai, la legge tua pur anco
Avrai seguita. Ma di te nessuno

Forse darassi alcun pensier, per farti,

In quell'ora fatal, danno ed offesa.

Che se da morte sciolto vai, davvero!

Che il mondo ricomprasti e il giusto prezzo
Anche ne desti. Una città frattanto

Re Perviz ti darà, ti darà parte

A governar di questa terra ancora.

XXXIII, Morte di Behràm Cifbîneh.

(Ed. Calc. p. 1967-1972).

Kalùn al saggio così disse: Guida
Or vuolsi a me. Davver! che giunser gli anni
A cento omai; nella miseria mia
Altri vo’ trarne ancor. Di te riscatto
Esser ti possa questa mia persona


<pb n="8.209"/>
— 209 —

E l’alma insiem, chè il patto mio con teco
È fermo sempre. — Come udì cotesto,
Corse Kharràd-Berzin da quella casa
Fin che sen venne alla regina e disse:
Tempo venia di ciò che bramo, ed io
A te il dirò, donna preclara. In ceppi
Stanno di là dal fiume alcuni miei
Congiunti cari, e ben si vuol che sciolga
Tu a me que’ ceppi. Per me togli adunque
L'impronta del suggel del re di Cina,
E sappi che così vita mi rendi.
Ebbro ei si dorme, la regina disse,
E forse potre’ io con la mia mano
Apporre al suo suggel molle la creta.
Creta da impronte di suggelli chiese
A Kharràd la regina, indi sen venne
Dell’ebbro al capezzal dirittamente
Dalla sua stanza e quella creta appose
Al suggello regal; venne di poi
E diè l'impronta a chi da lei cercava.
Lo scriba allora benedisse a lei,
Venne e l'impronta pose in man di quello
Vegliardo antico. La regale impronta
Kalùn si tolse e come fero augello
Rapido venne fino a Merv, nascosto
Di tutti al guardo. Ivi restò, quel giorno
Fin che giugnesse di Behràm ; nè lieto
Per esso era Behràm. Solo egli stava
Con un famiglio in solitario ostello,
Postisi innanzi melagrane e pomi,
Mele cotogne rubiconde. Solo
A quell’albergo andò Kalùn, dicendo
Questo al custode delle porte: Un messo
Ecco! son io di quella figlia eletta
Del re di Cina, o tu che gloria cerchi.

Uom di guerra non son, non son di Persia,



<pb n="8.210"/>
— 210 —

Ma un suo secreto mi dicca colei,
Donna avveduta, perch’io ratto a questo
Inclito prence il ridicessi. Chiuse
Ell’ ha le porte per lui sol, chè presa
Ell'è da morbo ancor, grave d'un figlio.
Che se di me consapevole il fai,
Al tuo signor che ha bella fama in terra,
Incoronato, ridirò il messaggio.
De le porte si mosse il guardiano,
Degno di molto onor, correndo assai
Fino alle soglie dell'ostel del prode
E disse: Venne qui d'infausti segni
Un messaggier; vesti ha di cuoio e afferma
Che de la figlia del signor di Cina
Messaggi» reca al nobil prence, lieto
Nel suo desire. — E Behràm disse allora:
Questo gli dirai tu: « Mostra il tuo volto
Là da la porta di quest’ampio ostello ».
Andavane Kalùn fino alla porta
E per l’ampia fessura entro la stanza
Sporgea la testa. Come il vide (un vecchio
Era misero e stanco), Ove tu rechi
Un foglio a me, disse Behràm, tu il porgi.
O re, disse Kalùn, messaggio è il mio,
Null'altro invero, nè voglio parole
Dire innanzi ad alcun. — Dissegli: Adunque
Entra qui tosto e parlami all'orecchio
Nascostamente e non cercar pretesti.
Col pugnal nella manica celato
Kalùn entrava. — Sua malizia allora
Mostravasi e perfidia! — Ei s’avanzava
All'orecchio per dirgli il suo secreto
E il ferì di pugnal. Grido n'andava
Per l'ampia casa, chè ratto a l’istante
Ch°'ei diè quel grido, accorser dalla via
Genti affrettate appo il lor prence, ed ei


<pb n="8.211"/>
— 211 —

Gridava: Or tosto l’afferrate e inchieste

Fategli di chi mai la via gli apprese!
Accorse ognun ch’era al palagio, e trassero

In turpe guisa il fiero vecchio, e tutti

Seco adiràrsi i famigli raccolti,

E duramente con colpi di mano

E di pugni il battean. Soffrì que’ colpi

Nè il labbro sciolse l’infelice mai

Del di da l'ore medie alle medie ore

Di quella notte che seguì; ma poi,

Rotto le mani e i piè, l’abbandonaro

I famigli adirati in mezzo all’ampia

Chiostra del loco ed a Behràm tornàrsi,

Trafitti all'alma e costernati ei vennero.
Dalla persona del trafitto eroe

Usciva il sangue ed erano le labbra

Tutte a sospiri e livida la faccia,

Quando pur venne la sirocchia e tutte

Le chiome si svellea dall'erto capo.

In grembo ella prendea del suo trafitto

La testa smorta e dolorosamente

Dicea piangendo e sospirando : O prode,

O forte cavalier, per cui le selve

Abbandonava ogni leon gagliardo

Travolto in fuga, chi divelse mai

Dal loco suo la nobile colonna

Che il mondo sostenea? chi l'elefante

Tremendo in suo furor gittava al suolo?

Deh! cavalier che aspetto avéèi di prence,

Del mondo vincitor, che vil paura

Non conoscevi ed atterravi in giostra

Del deserto il leon! Ma tu non eri

Ossequente a Khusrèv, ma tu non eri

Adorator di Dio, sì che trafitta

Fu la persona tua forte e gagliarda

Di prence e di guerrier. Deh! nobil monte


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— 212 —-

Alto e levato al ciel, chi ti divelse

Senza radici dal profondo mare

De le bell’acque? oh! chi svellea cotesto

Agil cipresso verdeggiante, e questo

Di grandezza real serto lucente

Chi mai gittava al suol? Chi all’ improvviso

Colmò d’arene questo azzurro mare,

Chi gittò ne la fossa il nobil monte

Che superbo incedea? Ma noì stranieri

E soletti siam qui, senza sostegno

E senza amici, e vili abitiam noi

Di estrani le città. Pur ti diss'io:

« O di genti signor, della tua fede

L'albero non schiantar dalla radice,

Chè se pur de’ Sassàni una soltanto

l'iglia restasse, la regal corona

In fronte sì porrebbe e l'ampia terra

Tutta sommessa gli saria, la sua

Fausta corona a rasentar la volta

Andria del cielo. A que’ consigli miei,

Alle parole mie, non diede ascolto,

Ben che proficue, il duce. E tu frattanto

Di ciò che festi, se’ pentito, e rechi

L'anima tua peccaminosa e trista

A Dio dinanzi. Così danno incolse

A quest'inclita casa, e agnelli noi

. Ci femmo ed è qual lupo ogni nemico.
Di lei come ascoltò quelle parole

Il trafitto guerrier (vedea colei

Di nobil core e d'inclito consiglio

Strapparsi il crine e graffiarsi le gote

Con l’ugne intorte, pieno il cor d’affanno

E di lagrime gli occhi e d’atra polve

Cosparso il volto), dolorosamente

E lento sciolse a favellar la lingua

E così disse: Deh! sorella mia


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— 213 —

Di nobile natal, nulla è che possa

A tuo consiglio pareggiarsi ; eppure

La mia misura sì colmò. Non ebbero
Frutto su me li tuoi consigli allora

Che mi fu guida un tristo Devo. Prence
Che avanzasse Gemshiìd, unqua non fue,
Da cuì nel mondo era timor con speme.
Ei pur, dei Devi a le parole stolte,
Lasciò il dritto sentier, fece a sè stesso
Oscuro e tetro il mondo. Anche l’accorto
Kàvus regnante che reggea la terra,
D'orme preclare e di fortuna amica,
Precipitò per le parole stolte ,
D'un tristo Devo, e qual l’incolse danno,
Udisti raccontar. Volle del cielo

Salir le chiostre per veder la volta
Roteante del ciel, l’errar del sole

E della luna. Ma dall’etra ei cadde
Precipitando, là da Sàri alpestre,

In mezzo all'acque. Me pur anco un Devo
Trasse di via, dall’opere leggiadre
Distogliendo la man. Dissemi: « Un giorno
Tua si farà l’imperial corona,

Tu avrai poter dai giorni in che riluce
In Arîéte il sol fino a quel tempo

Ch'’egli è ne’ freddi Pesci ». Or io mi pento
Del mal che feci, e se perdona Iddio,

Di Dio cosa è ben degna! Era cotesto
Scritto sul capo mio. Come potrei
Dell’opere trascorse ìl fiero duolo
Nell'alma sopportar? Ma sopravanzano
L'acque irrompenti il capo mio, già sperdesi
Ogni mia doglia, ogni mia gioia al vento!
Scritto era questo, e ciò ch’esser dovea,
Accadde intanto, nè misura omai

Di mali crescer può, non può scemarsi.




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— 214 —

Que’ tuoi consigli son pur sempre un dolce

Ricordo all'alma mia, le tue parole 7

Sospese ancora ènno all'orecchio. Intanto

E del giusto operar termin si tocca

E dell’ingiusto e inutili parole

Tu non ridir. Deh! sollevate omai

La fronte a Dio signor, fate sostegno

A voi medesmi della sorte amica

Che vi sorride, e contro a' mali in terra

Proteggitor vi sia l'Eterno. Motto

O di gioia o di duol far non vi piaccia

Appo ad alcuno, chè la parte mia

Questa. fu in terra, ed or compiasi, e tempo

Venne per me d'uscir da questa terra.
A Yelàn-sineh così disse: Tutte

Io qui t’affido le mie schiere e il seggio

E il loco e di monarca il grado augusto.

Guarda tu attento alla sorella mia,

Donna preclara, ed ella di consigli

Ti gioverà per la tua vita in terra

Veramente d'assai. Ma voi, miei fidi,

L'uno dall'altro separar voi stessi

Mai non vogliate; in mezzo a voi non sia

Alma discorde. Lungo tempo in questa

Nemica region non vi restate,

Ch’io men parto già stanco d’esto seggio

Alto di prence. A re Khusrèv ne andate

Tutti d'un moto e favellate a lui

E sue parole d’ascoltar vi piaccia,

E dite ancor: « Con te si riconcilia

Behràm; con lui ti riconcilia, o sire,

Poi che con te riconciliossi ». E allora

Che a voi dal vostro re verrà perdono,

Lui solo dite il vostro sol, la vostra

Luna pur anco. A principe Gherdùy

Molti saluti voi per me recate


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— 215 —

E il tristo caso come avvenne, dite.

Udii che giunse da l’irania terra

Kharràd-Berzin con un regal messaggio

In suol di Cina; und'è che dite voi

Ratto a Gherdùy: « Da lui del sanzue mio

Chiedi vendetta e da cotanta impresa

La fronte a dietro non voltar ». Ma intanto

Deh! voi mi fate il mio sepolcro in una

Delle iranie città, questo palagio

Che detto è di Behràm, tutto atterrando.

Molto soffrii pel re di Cina, e mai

Non vidi che un sol dì, grato e cortese,

Alcuna lode ei mi facesse; oh! questa

Certo non era del mio lungo affanno

La ricompensa, perchè un tristo Devo

Ad assalirmi egli inviasse. O forse,

Quand'egli udrà del tristo annunzio, fine

O principio veder dell'opra rea

Ei non potrà. D' Irani opra è cotesta,

Non d’altri già; fu istigator dell’opra -

Un Devo in mezzo a lor. — Fe' cenno poi

Che uno scriba venisse ed una epistola,

Senza indugio per lui, per lui scrivesse,

Così parlando al regnator di Cina:
Morto è Behràm! Tapino e derelitto

Morto è Behram senza toccar sua meta.

Or tu, signor, sostieni esti meschini

Che rimangon di lui, tu li disciogli

Da ognì rancura e da nemico male,

Ch'io male a te non feci mai, giustizia

Cercando e senno con intenta brama.
Alla sirocchia sua molti consigli

Ei dava ancora e il capo suo diletto

Al seno si stringea. Le labbra appose

AI lobo dell'orecchio di colei

Per darle un bacio e fe’ pieni di lagrime

Ambo gli occhi già spenti e l’alma rese.


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— 216 —

Piansero accanto a lui le genti accolte,
Visser la vita nel dolor del core
Miseramente, e la sorella in lagrime
Per fiero duol si disciogliea, que’ detti
Ricordando di lui partitamente,

E il cor le si fendea per tanta e acerba
Doglia inattesa. Ma una bara angusta
Ella gli fe' di bianco argento, e il corpo
Dell'estinto guerrier tutto ravvolse

In broccati lucenti; in bianco lino

Era la sottoveste. Anche dattorno

Alla persona gli gittò di canfora

Eletta copia per tal foggia e guisa

Che tutto il capo ne coverse ancora.

Di nostra vita ch'è sì breve, queste
Son l’opre. Poì che sai che lunga in terra
Dimora non farai, non corrucciarti,

Non gustar del dolor, ma e notte e giorno
Bevi d'un vin gagliardo, e pien di gioia
Abbiti il core e sorridente il labbro.

Ratto che intese il principe di Cina
Qual, per brama d’onor, misero fine
Behràm incolto avea, di quell’estinto
Gli giunse il foglio, e il messaggier narrava
Ed ascoltava il re. Colmo d’affanno
Fu al tristo annunzio quel suo core e gli occhi
Gonfi di pianto e livide le gote.

Ma poichè di tal’opra infida e rea
Alto egli avea stupor, tutti i suoi saggi
A sè raccolse convocando e disse
Quale Behràm guerriero alta sventura
Incolto avesse. Pianse allor di duolo
Ognuno che ascoltò, piansero in Cina
Le genti tutte per l’estinto, ed arsero
Di fiera doglia, e vampa là non era.
Ma il re di Cina a investigar gli eventi


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— 217 —

Ad uno ad unsi diè, su chi la colpa
Veracemente a ricader venìa,
Cercando intento; e seppe allor che quella
Opra era di Kharràd, chè frodi e inganni
Erano l’artì di costui. Deh! come,
Sclamava il prence, mi sfuggia colui,
Malvagio cane, onde potè fra noi
Tal vampa suscitar di acerba doglia?
Ma due figli s'avea Kalùn antico
In turanico suol, congiunti molti
E d'ogni grado, e il re di Cina, tosto
Ch’ebbesi annunzio dell’oprar suo tristo,
Un incendio destò, n’arse la casa
E il villaggio e il castel, que’ due suoi figli
Alle vampe gittò, tutti sperdendo
Lor parchi averi. E come giunse tempo
Della regina, lei da le cortine
Fuor trasse pe’ capelli e l'ampio e ricco
Di lei tesoro a le sue stanze addusse,
Nè fe’ stima di tante ivi da lei
Fatiche spese. In ogni parte attorno
Dromedari inviò furenti ed ebbri,
Ma in suo poter Kharràd non venne allora.
Allor, quanti eran servi in Cina a luì,
D'azzurre vesti ei ricoprì; stagione
Lunga ei restò per Behràm nel dolore,
Chè per l’opre di lui lieto egli andava.
Ratto che giunse a re Khusrèv, narrava
Kharràd-Berzin ciò ch'egli fe’, che vide
E che ascoltò. Di re Pervìz il core
S'allegrò di cotesto, or che disciolto
Erasi omai da quel nemico suo
Ricco di pregi e di valor. Donava
Monete in copia a' poverelli attorno
E vesti ancora e cose molte assai
Di vario prezzo. Scrissero una epistola


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— 218 —

Ad ogni sire, ad ogni re disciolto
In suo comando, in pehlèvica lingua,
Narrando ciò che fe’ Dio regcitore
Del mondo e creator, come disperse
Il reo nemico e l'atterrò. Ma il prence
Un'epistola al greco Imperatore,
Qual’ era degna di monarca, scrisse,
E feste intorno si apprestàr per sette
Giorni seguenti, e vin gagliardo e suoni
In ogni villa si cercàr. Mandava
A’ delùbri del Fuoco attorno attorno
Incliti doni re Khusréèv, regale
All’inclito Kharràd mandava un dono
E gli dicea: Ch'io ti cedessi il trono
E il mio serto regal, d'uopo sarìa.

Così piena gli fea d'imperiali
Gemme la bocca, e il tesorier ben cento-
mila monete splendienti e d'oro
A’ piedi gli gittò fin che uguagliarno
L'alta statura sua. Chi s’allontana
Dal suo prence e signor, dissegli saggio
Il tesorier, vede oscurarsi a un tratto
Il sereno suo dì, s'anche egli fosse
Qual era in guerra Behràm valoroso,
Cui d’un colpo atterrò miseramente
Uom di Turania antico. — I prenci tutti
Benedissero al re: Deh! mai non sia
Orbo di te regal suggello o serto
Imperial! Ma chi non vuol che splenda
Il tuo volto di re, ben che sia pieno
D'amor ver noi, come Behràm si muoia!


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— 219 —

XXXIV. Messaggio dell'Imperatore di Cina
a Gordìeh.

(Ed. Calc. p. 1972-1974).

Come sgombrò d'ogni altra cura il petto
Di Cina il prence, per il sangue sparso
Quando fu il suol qual poltiglia tenace,
Così un giorno ei dicea: Dall’uom ch'è vile,
Opre vengon soltanto e infide e triste.

Dal glorioso che Behràm fu detto,

Gioia mi venne e d'ogni dolce brama

Il compimento. Or io, perchè codardo

E fiacco e vil dovrei ritrarmi a dietro

Di quell'illustre da’ congiunti? Biasmo
Faria di me chi ciò narrarsi udisse,

Fede più non porrebbe a’ giuramenti
Ch'io pronunciai. Nè di suo picciol figlio
Curai l’angoscia, nè pensier mi diedi
D’alcun de' suoi cognati. E poi ch'egli era
Congiunto a me per la mia dolce figlia,
Dell'anima col senno e con l'amore

E col cor m'’era avvinto. — E fe’ comando
Che a lui venisse il fratel suo. Parole
Dissegli assai più che non è misura,

E aggiunse: Vanne in Merv, di qui partendo,
Rapido sì, come in giardin cammina
Veloce un fero augel. Vedì i congiunti

Di Behràm battaglier, molti per essi

Fa voti e auguri e di' che di cotanta
Sventura che gl’incolse, io, per l'Eterno
Il giuro e il trono della mia grandezza,
Sentor non ebbi, e che ferito al core

Son pur anco di ciò, che in tale angoscia


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Io sarò avvinto fin che vivo in terra.

Per vendicarlo, già lavai col sangue

Tutta la terra mia, sì che dintorno

Sono per le città detti imprecanti

A me di contro, per lui voti e auguri.

Di tal dolor per quante io far potessi

Vendette acerbe, se l'azzurro cielo

D'alto su questa terra anco traessi

Pel sangue dell'eroe di gloria amante,

Un sol desìo su cento di vendetta

Compiuto non avrei. Ma dal precetto

Di Dio signor non va più in là nessuno,

E questo sa chi ha fior di senno. Tale

Era destin del prode, e fu cotesta

D'un tristo Devo opra d'incanto. Or io

Sempre a quel patto sto che dissi un giorno,

Fermo a le leggi e a l’impromesse antiche.
Ma separata una epistola sua

Inviava a Gordieh. Donna avveduta,

Disse, che intatto di tua veste rechi

E puro il lembo, l'indole tua bella

È verità con uman senso e nobile

Grandezza, lunge da difetto. Molto

All’opre tue già ripensai nell'ora

Che in secreto sedea quasi a consiglio

Il senno mio con questo core. Ed ecco

Ch'io già non vegygo chi di me ti sia

Sposo miglior. Deh! vieni adunque e adorna

Col tuo consiglio questo nostro albergo,

Ch’io ti terrò, quanto l'anima mia

E la persona mia, diletta e cara,

E sì farò ch'io mai non rompa teco

Il fermo patto. E d'ora in poi comando

Sarà di te su le castella nostre,

E questo cor su ciò che vuoi, qui pongo

Mallevador per te. Ma tu frattanto



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- 221 —

Ciò che hai qui, ti raccogli, e innanzi ai saggi
Di’ la proposta mia; vedi poi quale
Consiglio allor ti venga in core e segui
Il senno tuo con l’anima serena.
Il senno tuo su le parole mie
Fa che comandi e consapevol poi
Mi fa del tuo pensier chiaro ed aperto.
Com'egli udì, qual tortora che vola
Via da un cipresso, venne in Merv correndo
Il nobile fratel del re di Cina.
Ei venne sì di gloria amante, e seco
Avea quel foglio e seco il suo desio,
Venne ai congiunti di Behràm e disse
Ciò che gli disse il re di Cina, ch’ei
Di quell’ucciso per la ria vendetta
Era cruccioso. Aggiunse poi: Deh! saggi,
Deh! sacerdoti grati al ciel, di vigile
Core mai sempre, per l’acerbo caso
Ricca v’abbiate voi la ricompensa
E al caro estinto sia propizio Iddio,
Giusto giudicator! Morte fu quella
Non lieve già, ma trista e repentina,
Quale in terra giammai niun si pensava.
L'epistola regal secretamente
Ei porse allora a la sirocchia e il detto
Del re di Cina ripetè, di sue
Nozze parlando e de' consigli suoi,
Dei detti onesti e dell'antica sorte
E della nuova, de’ costumi eletti
Di donna e del suo senno, or che de' mali
Consolatrice è pur la donna e saggia
Di consigli datrice. Il garzoncello
Così parlava, e quella, da l’intatto
Lembo, femmina pura alto silenzio
Tenea dinanzi a le parole sue.
Ma poichè il regal foglio ella si lesse


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— 222 —

E le parole del signr di Cina

Fermo in sue voglie intese, allor che insieme

Senno e saper congiunti ella ebbe, in core

Questa risposta meditò a quel foglio.
L'epistola mi lessi, ella dicea,

E il senno mio posimi accanto. Il sire

Di Cina così fe' come pur fanno

I prenci, come fan di cose esperti

I monarchi quaggiù. Splenda per lui

La pupilla di noi per molta gioia,

Or che tanto ei desìa nostra vendetta,

E mai non sia che vedova si resti

Di lui la terra, ma per lui più lieta

Sia la corona della sua grandezza!

Da rancura trafitto unqua non sia

Il suo bel cor, non gli sia tolta mai

Dolce speranza di quaggiù! Ma intanto,

Quando noi sederem l'un l’altro accanto,

Da un capo all’altro leggerem del sire

L’epistola, e qual fia tra noi più grande

E senno avrà, la domanda del sire

Farassi a ripensar. Ma in nostra casa

Or non son che lamenti, e non è questo

Propizio tempo a favellar di tanto.

Del prence estinto poi che tocchi al termine

Il grave lutto, scampo a noi non fia

Del re di, Cina dal voler, nè al suolo

Poss' io d’Irania ritornar, chè niuna

Cosa è miglior per donna intatta e pura

Di vago sposo. Ma s'io tosto in via

Così scendessi, oh! che di me quel saggio

Iranio prence dir potrebbe? Immersa

Nel mio dolor se a gioir m'apprestassi,

Opera non farei degna di donna

E saggia e accorta. Ogni più savio allora

Me impudica direbbe, e il re di Cina


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— 223 —

Me svergognata proclamar potria.

Ma per tal lutto come sian trascorse

Quattro lune, appo il re d'Irania bella

Un cavaliero invierò. Le cose

Che udir fia d’uopo, ascolterò, da' saggi

Che son facondi, quali uscir dovranno.

Indi in un foglio mio le cose udite

Ridirò tutte, come là dal sire

Venuto sia chi lui consigli e guidi.

Tu intanto, o messaggier, di qui ti parti

Lieto e gioioso e qual ti diei messaggio

Di Cina al prence a ricordar ti appresta.
Molti diè doni al messaggiero, e quegli

Da Merv lieto partì, saggio ed accorto.

XXXV. Fuga di Gordìeh.

(Ea. Cale. p. 1975-1976).

Ma poi, la donna giovinetta e saggia,
Col suo fidato consiglier si assise
In molta pace e così disse: Giunse
Novello annunzio a me, qual nel mio core
Unqua non fia che per etade invecchi,
Chè me richiese, principe del mondo,
Il re di Cina e le parole sue
Adornò tutte in tutte guise. In lui
Non è difetto e grande egli è, monarca
E di gran core e del turanio esercito
Moderator. Ma fin che visse il mio,
Pari a leon, nobil fratello, niuno
Far di me cenno osò fra gente molta,
Ché Behràm battaglier sì mi guardava,
Orba del padre, per dieci anni e dieci,
Da che moriva il padre mio. Se alcuno
Me a lui chieder si fea, per fiero sdegno


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— 224 —

Quella sua mente si turbava. Intanto,

Di Cina il prence, nobil re, non vile

È fra i mortali veramente e possa

Egli have e dignità. Ma s’egli adopra

Perchè si faccia fra Turania e Irania

Vincol di sangue, da quel dì fatale

Ch’ei farà il patto e l'alleanza, fiero

Vedrà corruccio al fin dell’opra e affanno.

Vedi che d'Afrasyàb altro non ebbe

Fuor che vampa di sol che lo distrusse,

Un giorno Siyavish. Il dolce capo

Ei diè d’un tratto a manifesta morte,

Ei giovinetto, di cui mai l'eguale

Da mortal madre non nascea. Deh! quali

Opre poi fece di quel grande il figlio

Quando Turania e il suol d’Irania insieme

Con l'armi devastò! Ma voi frattanto

Fate che noi per via secreta e chiusa

E repentina dal turanio suolo

In Irania portiam questa novella ;

Un'epistola mia già per Gherdùy

Composi, chè al cor mio grave rancura

Ebbi di ciò. Cotesto egli palesi

All’iranio signor, sì gli appresenti

Il nostro affanno e il nostro duol. Cotesto

Com’egli udrà, per la forza di Dio,

Al sagace mio dir porrà sua fede.
Ognun le rispondea : Fin che tu sei,

In Cina e Irania la regina sei,

Nè già potria dal loco tuo scrollarti

Di ferro un monte. Ai valorosi in guerra

Col valor tuo tu se’ la guida, e accorta

Più d'ogni saggio ben sei tu, più saggia

D'ogni avveduto consiglier. Siam noi

Tuoi servi tutti e il comandar gli è tuo,

In tal desìo la legge è tua col voto.


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Com'ella udì, l’esercito raccolto
Volle in ordin veder, pose sue genti
Agli scrittoi per dar monete attorno
E venne a riguardar l’ampie falangi
E in questa parte e in quella. Ecco! scegliea
Cento e sessanta e mille eroi gagliardi,
Di cui, nell'ora della gran faccenda,
Niun cavalier volgea la fronte a dietro
Dinanzi a dieci. E poi che attorno assai
Monete ella donò, fece a sue case
Ritorno ancora e così disse ai prodi
Che aman la pugna: Qual di voi già vide
L'alta correggia di sue staffe, in core
Mai non si turbi nella sua fortuna,
Umile od alta. Da raccolta folla
Dì nemici crudeli egli non tema,
Anche se capi sanguinosi e tronchi
Cadessero su lui dalle vaganti
Nubi del ciel. Le redini da questa
Nostra partita egli non volga a dietro,
Non tema se correndo a lui di contro
Il nemico ne vien. Vuolsi che noi
In Irania passiam, vuolsi che accanto
AI sire andiam d'ogni gagliardo in terra,
Chè in turanico suol come stranieri
Siam veramente, nè sostegno o amico
Vantar possiamo, fra cotesti grandi
Noi grami e oppressi. Andar si vuol nell'ora
.Che l’etra oscura si farà, nel tempo
Che dal grave dormir stordita sia
De’ nemici la mente. Al partir nostro
Increscioso non serbate il core,
Anche se venga esercito di Cina
A contrastar con voi. Chè veramente
A nostre terga principi verranno
Con le lor clave ponderose. Intanto,
Firpusi, VIII. 15


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— 226 —

L'alma recate su le palme vostre
Nell'estremo periglio, e se nemica
Gente qui giunge, e ricevete e date
Colpi tremendi. Che se in tal disegno
Vostro consiglio non s'accorda, niuno
Da questo loco muova innanzi il piede.

Dissero ad alta voce: Ecco! siam noi
Tuoi servi tutti, nè dal tuo consiglio
Ci partirem, non dal comando tuo.

In questo s’accordàr, levàrsi poi
Tutti, la guerra con gli eroi di Cina
Ad apprestar. Coi più famosi in guerra
-E Yelan-sineh e prence Ized-gashàspe
Balzarono in arcion. Morir con gloria,
Ognun dicea, meglio è d’assai che in vita
Rimanersì e veder Cina festante.

Ratto scendea la donna accorta e saggia
Alla pianura ver le carovane
E i cammelli volea che a lei dinanzi
Passasser tutti. De’ cammelli addotti
Tremila ella scegliea, perchè sovr' essi
Grave di provvigioni imposto fosse
Il carco. Allor che fu la notte oscura,
Balzò in sella Gordieh, quale un eroe
Dall’alta fronte, con la clava in pugno,
Sul dorso al palafren gittata in pria
D'inclito prezzo una gualdrappa e cinto
Un ricco usbergo e cinto un ferro e un elmo,
Qual di guerrier, postosi in fronte. Rapida
Qual è bufera, ella traea l’esercito
Per la dirotta via, nel giorno splendido
E nelle notti tenebrose e oscure.


<pb n="8.227"/>
— 227 —

XXXVI. Morte di Teburg.

(Eà. Calc. p. 1976-1979).

Ma da sue schiere venian molti allora
Fidati alla mercè, venian chiedendo
Al re di Cina aita. A lui sen venne
Il fratello e dicea: Deh! glorioso
Signor di genti che alla pugna anelli,
Al suol d'Irania volgesi un esercito
Arditamente, e vengon molti aita
A me chiedendo disertori. Eterna
Sulle tue porte resteria vergogna
Di tanto, o re; di te la terra tua
Si riderebbe con tue genti ancora.
Come intese cotesto, ecco! che sparve,
Per l’ira molta, vivido colore
Del re di Cina dalle gote. Affréttati,
Ei disse al fratel suo, mena le tue
Armate schiere, e vedi omai qual punto
L'esercito che va, tocchi di via.
Se tu gli arrivi, impetuosa foga
Non adoprar, ma dolci primamente
Parole adduci. Niun di quei conosce
Nostro costume, e chi ci è avverso forse
Infuse in essi tal timor. Tu parla
Parole dolci e ai fuggitivi in atto
Affabile ti volgi e col valore
Lor solleva la fronte. E se qualcuno
Viene a giostrar con te, virtù dispiega,
Lungi mai sempre da ogni indugio. D'essi
Fa in Merv un ampio cimitero e il sangue
Renda rosso quel suol qual è di fero
Augel la piuma. — Con seimila eroi


<pb n="8.228"/>
— 228 —

Cavalieri belligeri, trascelti
Di Turania fra i prodi, il capitano
Allor sen venne. Al quarto dì raggiunse
I fuggitivi, e quella che nel petto
Avea cor di leon, donna preclara,
Tosto che vide le falangi armate,
Pensier per esse non si diè nel core,
Ma da sue file, qual bufera in volta,
Al cammellier sen venne. A tergo pose
Le provvigioni e dell’assalto corse
Il loco a riguardar. Del suo fratello
Vestia la donna l’armi rilucenti,
Balzava in sella a un palafren veloce,
E già in battaglia questa schiera e quella
Ordinavasi allor, posta la vita
Nelle lor palme per desìo gagliardo.
Tebùrg allor, che il principe di Cina
Vecchio lupo dicea, balzò dinanzi
All’esercito e disse a’ prencì Irani:
Forsechè quella donna e saggia e accorta
In quest'ampio drappel non si ritrova?
Poi che Gordieh quell’armi ponderose
Avea vestite, cinti i fianchi suoi
Qual è costume de’ guerrieri, lei
L'animoso Tebùrg non riconobbe,
Sì che il tallon sul fianco al palafreno
Forte premendo, corse innanzi a lei,
E dissele: Di’ tu dov’io potrei,
Fra queste schiere, dell’estinto prence
La sirocchia cercar? Ch'io pur con essa
Ho a dir parole e degli antichi tempi
E de' novelli ancor. — Gordìeh rispose:
Ecco! ch’io quella son che il palafreno
Contro a’ leoni truculenti incita.
Di lei che là sedea sul palafreno
Qual leon battaglier, come la voce


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— 229 —

Tebùrg intese, alto stupor gli venne.

Ei disse: Nel suo regno il signor nostro

Te sola scelse perchè tu a lui fossi

Dolce ricordo di Behràm gagliardo,

Eletto cavalier. Disse che questa

Ricompensa del ben che fea quel prode,

Egli daria dove ascoltar ti piaccia

Le sue parole. « Affrèttati, pregavami,

E di'a colei: « « Se di quel ch'io ti dissi,

Piacer non hai, sappi che il ver non dissi,

E ch'io pur anco dal disegno mio

Mi traggo a dietro. Ma tu andar non déi

Da’ miei confini; deh! non farlo, ancora

Se un dolce sposo tu non brami » ». Queste

Cose le annunzia per tal guisa, e questo

Consiglio mio se non le aggrada, in ceppi

Ratto la poni. Chi a la stolta impresa

Così la spinse, le parole sue

Più ch'è misura, d'avventar presunse ».
Da questo campo di battaglie, a lui

Gordìeh rispose, in altra parte vadasi,

Lungi da nostre schiere. Io la risposta

Per ciò che di’, là ti darò, consiglio

Ti porgerò per ciò che chiedi, acconcio.
Uscia Tebùrg delle falangi accolte

Via dal cospetto e sen venia con lei

Inclita e ardita, e quella accorta e saggia

Ratto che il vide là da solo, il volto

Sciogliea dall’elmo nereggiante. Disse :
Behràm vedesti, un cavalier pugnace,

Anche applaudisti a le battaglie sue.

D'un solo padre e d'una madre sola

Egli era meco, ed ora il tempo suo

Al termine toccò. Ma di te prova

Io frattanto farò, ch'io con la voglia

Teco a giostrar m’inclino. E se tu degna


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— 230 —

Di sposo mi vedrai, dillo, chè forse

Per farti sposo a me tu basti assai.
Questo ella disse ed incitò il destriero,

E corse dietro a lei Ized-gashàspe.

AI cinto di Teburg ella un tremendo

Colpo d’asta vibrò, sì che l’usbergo

Ne trapassò coi fulgidi gheroni,

Ed ei di sella a capo innanzi cadde

Miseramente. Sotto a lui l'arena

Divenne un rio di caldo sangue. Allora

Yelan-sineh guerrier con una eletta

Di prodi suoi verso il campo dell'armi

Incitava il destrier; tutto ei rompea

L'esercito di Cina incontanente,

Molti guerrieri trucidando e molti

Atterrandone ancor, molti ferendo,

E andavano con lui dietro a’ fuggenti

Fino a due parasanghe i suoi guerrieri,

Non molti in sella degli avversi eroi

Incolumi lasciando. Era quel piano

Un rio di sangue in ogni suo confine,

Un si giacea tronco del capo, e l'altro

Col capo in giù travolto e sanguinoso.
Come vittoria ebbe colei, si mosse

Là verso Irania, al re de’ prodi andando

Rapidamente. In Amùy si posava

E alquanti giorni rimanea, nel seno

Molte cure accrescendo, e un foglio suo

Al fratello del cor scrivea nell'ansia,

A Gherdùy battaglier, notificando

Ogni opra sua compiuta. Allor che spento

Giacque Behràm guerrier (scrisse colei)

Del suo fratello con l'angoscia e il duolo,

Molti per me, per te, diede consigli

Acconci e saggi. Deh! quell’alma sua

Scevra d’affanno sia per noi] « Dirai,


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— 231 —

Dissemi ancora, all'’inclito sovrano
D'Irania bella qual da me consiglio
Udito hai tu! ». Ma poi che giacque estinto,
Venneci a tergo formidabil schiera,
Guerrieri tutti celebrati in guerra.

Ora, in aspra tenzon tale fec' io

D'essi governo, che battaglie mai

Più non vedranno da tal giorno o cene.
Molti sono con me principi illustri,

Nè però vuolsi che periglio o danno
Lor tocchi mai. Frattanto io su la via
Qui m'’assido a veder se la risposta

Mi recherà la stella mia propizia.

Indi sedette in molta pace il sire
D'Irania bella, poi che tolto fue
Dall'alto suo sentier Behràm gagliardo,
Nè vide allor quale de’ grandi a lui
Odio recasse e ribellante incontro
Gli stesse a contrastar. Ma un giorno al suo
Nobil ministro così disse: Oh! come
Potrìa celarsi l'intimo pensiero?

Ad ogni istante chi uccideami il padre
Mi passa innanzi ed è congiunto mio
Di sangue! Ma poichè piena di doglia
E la serena anima mia, di prence
Opra farò qual mi si addice. — Allora,
La regal mensa fu imbandita, ed ei
Bevve del vino e Benduùy truculento
Pose in ceppi in quel dì, poscia si volse
E fe’ tai detti al consiglier: Dal corpo
Or gli troncate e mani e piè col ferro,
Perch’egli poi, privo di mani, il sangue
A spargere dei re più non si accinga.

All'infelice e mani e piè fùr tronchi
Ratto a l'istante ed ei morì, lasciando
A re Khusrèv l’anima sua feroce.


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— 232 —

Indi un suo fido in Khorassàn mandava
Con molti prieghi. A favellar la lingua,
Disse, non muover tu con uom vivente,
Ma di qui vanne fino all’erme porte
Del guardian de' miei confini. Al prode
Gustehèm dirai tu: « Non indugiarti
Per niuna guisa, e poi che letta avrai
Questa epistola mia, vieni a me ratto ».

In Khorassàn giugnea quel messaggiero,
All’ostello giugnea dell’opulento
E ricco sire e gli dicea qual fosse
Alto precetto di Perviz, chè prence
Novello egli era e spargitor di sangue.

XXXVII. Nozze di Gustehem e di Gordìeh.

(Ed. Calc. p. 1979-1981).

L'esercito de’ suoi, come ciò intese,
In via sospinse Gustehèmme e tutte
A sè chiamò le falangi disperse,
Fin che toccò di principi e d'illustri
L'alte città, fin che d’Amòl, da Sàri,
Ei discese in Gurgàn. Quivi egli udia
Che crudel si facea l’iranio prence,
Trucidando improvviso il fratel suo,
Bendùy preclaro. Fi sì le man co’ denti,
Il tristo annunzio in ascoltar, si morse
E dall’arcion del baio palafreno
Al suol balzò. D'eroe la rilucente
Veste squarciossi e lagrimando il capo
Sparse di polve, ch’ei vedea che il sire
Dell'ampia terra lui volea pur anco,
Il padre a vendicar, punir di morte,
Sì che in sospiri e in gemiti dal loco


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_ 233 —

A dietro si tornò. Detto tu avresti
Che a rapida tempesta era congiunto.

Così raccolse le disperse genti
E alla foresta di Narvèn discese
Rapido in corsa, e come giunse accanto
D’Amòl ai monti, in quella selva oscura
L'esercito menò. Fe' da ogni parte
Impeti e assalti, ed era sua vendetta
L'improvviso assalir. Da tutte parti,
Ov’eran genti inoperose e vuote,
Venian le genti a lui servir, d’un pane
Per il misero prezzo; e dove un campo
Era d'armati dell’iranio sire
(E di tal gente Gustehèmme avea
Contezza certa), su lor teste rapido
Ei si gittava, l’esercito avverso
Intento a scompigliar coi fieri colpi.

Ma di rincontro, come venne al sire
Gherdùy gagliardo, sì narrògli quale
Governo fea, con le sue forti schiere,
Dì lui la suora, degli eroi che il prence
Mandò di Cina, quando in Merv con l’armi
Tutti gli sgominò. E di rincontro
Anche sapea che di Behràm guerriero
Andava colma la misura il prode
Gustehèmme e sapea che con immensa
Schiera d’armati si partia dal fianco
Del superbo signor famoso in guerra
Gordìeh preclara; anche sapea che in guerra
L’avea seguita esercito di prodi,

Qual governo ella fea d'esti campioni
Che di Cina venian. Quel valoroso,
Ad incontrar la donna illustre, fuori
Menò sue schiere, e qual tempesta in volta
Fuori balzò dalla foresta oscura.
Gordìeh che il seppe, s'avanzò veloce


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— 234 —

Co' prenci suoi, con gl’ incliti guerrieri,

E Gustehèm che su la via lontana

Tanta schiera vedea, spronò il cavallo

Di sue genti dal mezzo. Ei venne allora
Pieno d’angoscia appo Gordieh, portando
Per l’estinto Behràm acerba doglia ;
Anche narrava di Bendùy caduto
L'affanno e con la manica tergea

Stille di pianto da le ciglia. Ei vide
Ized-gashàspe e Yelan-sìineh e ratto,

Ben che lontano, lagrimando scese :
Dal suo destrier. Narrò che tratto a morte
Avea Bendùy l’iranio prence allora

Che da lui si rivolse la fortuna,

Sì che detto avrestù non esser figlio

Di Bendùy d'una suora il prence iranio
E Bendùy di sue membra il caldo sangue
Non aver dato pel suo re. Bendùy

A piè del suo signor l’anima forte

Parea spirar, se lungi ei n'era, e tristo
E cruccioso si fea. Ratto le mani

E ì piedi il prence or gli troncava in quella
Guisa davver che ben s'addice a sua
Crudel natura. Ma, frattanto, oh! quale
Speranza è in voi per lui? Frutto dai rami
Di tristo salce mai non spunta, e il sire
Farà di voi peggior governo assai,

Sì che a vil prezzo scenderan le carni
Per le iranie città. Com’ei da lungi
Yelan-sineh vedrà, n’avrà disdegno,
Rinnovando il pensier di sua vendetta,
Chè tu pur fosti, o Yelan-sineh, duce

Aì valorosi di Behràm, per lui

Toccasti in terra ogni tua voglia. Intanto,
Se da colui si guarda alcun, migliore
Consiglio fia, meglio fia assai se acuto


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— 235 —

Gli sta alla gola un suo pugnal. Ma, voi

Se meco a un patto v'accordate, in tutto

E del meno e del più consiglio pongasi.
Ognun che intese quel consiglio, in core

L'accolse ratto, chè ciascun cercava

Da perigliosa via balzar lontano.

Rapida ei sciolse a favellar la lingua

Appo Gordieh, tutte membrando a lei

Di Behràm l’opre; e vinta alle parole

Cadea colei, chè nel suo cor possenti

I pensieri scendean. Tutti s’accolsero

A Gustehemme valoroso intorno,

E il suo consiglio torbido ed oscuro

Ebbesi luce allor. Cotesta donna,

Ei disse un giorno a Yelan-sìneh, forse

Che d’uno sposo non favella? o forse

Ch’ella grandezza per tal via non brama?
Così rispose: S'io favello a lei,

Investigarne con parole molte

Il core ne potrò. — Donna preclara,

A Gordieh così disse, in questa terra

Di dar consigli ti scoversi degna.

Dal re di Cina di fuggir scegliesti,

E questo ben ti sta, chè l’alma tua

A’ Persi inclina. Or che di' tu del prode

Gustehèmme ch’è zio del nostro prence,

Duce di schiere e principe gagliardo ?
Sposo che vien d'Irania, ella rispose,

Mai non fia che disperda il nostro seme.
E Yelan-sineh a Gustehèm la diede

Inclita sposa, a Gustehemme, eroe

D'anima forte e di monarchi figlio,

Ed ei la tenne quale un fresco pomo

Che nell'alto degli alberi non teme

In basso di cader. Tutte le schiere

Che verian da Khusrèv in quelle parti,


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— 236 —

Lor vieta sorte là vedean d'un tratto
Rinnovellarsi, e quei, come una gente
Venuta in armi andavane dispersa,
I vinti eroi ne proteggea pur anco.

XXXVIII. Morte di Gustehem.

(Ed. Calc. p, 1981-1983).

E fu cotesto fin che lungo tempo
Anche trascorse. Piena di cordoglio
Era per Gustehèm l'alma del sire,
Sì che un giorno a Gherdùy, nell’ira sua,
Ei disse: Gustehèm si fe' congiunto
A Gordìeh, presso a lui già già si affollano
Schiere infinite, ed io mi penso e credo
Ch’ella cotesto consigliava ai prodi.
D'esploratori miei da Amòl qui venne
Un tale, e ciò che in pria celato stava,
Si divulgò. — Questo ei dicea, la luce
Fin che in ciel si perdè, fin che gli eroi
Ebber la vista dal veder distolta.
Ma quando là recàr lampade e vino
I paggi intenti e sgomberàr l’ostello
D'ogni più estrano, re Khusrèv si assise
Con principe Gherdùy, di molte e varie
Cose intento a parlar per questa guisa:
Ampia una schiera e belligera e forte
Di qui ad Amòl mandai. Tutti feriti
E tutti avvinti ritornàrsi i prodi,
Si ritornàr pieni di affanno e in gemiti
E in struggimento. Un solo mio consiglio
Ho in me frattanto, ben che lieve ei sia
Di re pel trono e per il serto. Allora
Che la diritta via Behràm Ciubineh


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— 237 —

Perdea d’un tratto, amica nostra sempre
Fu Gordìeh valorosa. Arte sottile
Or io serbo appo me (tu innanzi a gente
Motto non farne), e tosto un foglio acconcio
Scriver n'è d'’uopo per colei, che uguagli
Un rivoletto di odoroso. vino
Di paradiso in un giardin: « Dal tempo,
Io le dirò, che tu mi se’ propizia
Ed alleata in tutte l’opre mie
E in ogni loco, si volgea stagione
In ciel ben lunga, nè la lingua mia
Osò pure al mio cor svelar l'arcano.
Ora è stagion di favellar propizia,
Chè m'è Gherdùy quanto la mia persona
Diletto e caro. Vedi tu se un'arte
Usar t'è dato per che alfin si perda
Di Gustehemme il capo reo, schiacciando
Qual di sotto a una rupe alto cadente
Gustehèm, conquistando e la mia casa
E questo core. Come tanta impresa
Compiuta avrai, l'esercito tuo prode
E quanti amici tuoi son per la terra,
Grazia avranno appo me, vili e dispetti
In nessun loco a me saranno. A quelli
Che vorrai tu, darò province e terre,
Per ch'elli sì quai prenci in lor dominio
Abbiansi potestà. Vieni tu intanto
Al mio dorato gineceo, compiuta
Ratto che avrai la mia vendetta. Molti
Io pongo in ciò miei giuramenti e aggiungo
A’ consigli di pria consigli ancora ».

Gherdùy rispose: Vivi tu beato
Come la stella del mattin fra gli astri
Che dalla Spiga han nome! Ecco! tu sai
Ch'io de' miei figli l’anima diletta,
La mia terra fiorente e la mia casa,


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Nulla del capo tuo veracemente

Stimo al paraggio, anche se molto pregio

Han tali oggetti. Or'io mandando a quella

Sirocchia mia cotal, renderò luce

Alla sua mente ottenebrata. Un foglio

Col suggel del mio re qui chieggo intanto,

Con le sue cifre splendide qual luna

In ciel sereno. E la mia donna ancora

Alla mia suora invierò, mandarido

In tal messaggio mio lungi da lei

Ogni sospetto, chè cotesta impresa

Opra è sola da donna, assai di donna

Atta a' consigli. A quest'io vo’ pensando,

E ben si vuol che il tuo messaggio vada

Alla sirocchia mia. Quale è tua voglia,

Ratto si compira l'impresa ardita.

Nulla aggiunger si vuol, nulla scemarvi.
Re Khusrèv che l’udì, lieto si fea,

Sì che fuggian, qual'aura, dal suo core

Gli antichi affanni. Carte ai tesorieri

Chiese a l'istante e da contuso muschio

Di color bruno sue parole acconce

A chiedere si fe’. Scrisse una epistola

Qual è un giardino, pien di fresche rose

Qual di fanciulla turgide le guance,

Di sacramenti e d'impromesse piena

E di patti e di molti ammonimenti

E di lusinghe. E come fùr le cifre

Del regal foglio asciutte e terse, in muschio

Vi fu apposto un suggel. Scrisse pur anco

Gherdùy guerriero un’epistola sua

E molti ancora vi spiegò consigli

Acconciamente. Al principiar del foglio

Ciò che fece Behràm, qual tristo nome

Fece alla casa e alla sua terra, ei disse

E proseguì: Concedagli l'Eterno


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— 239 —

Il suo perdono, ed egli mai di tante
Sue guerre e liti non si penta! Senno
Chi nell'alma non ha, all’opre sue

Non riguarda sottil. Poi ch'egli andava,
Dietro gli andremo noi, fidando in quella
Dell’Eterno giustizia. Allor che giunta
La donna mia sarà da te, la tua

Mente ch'è fosca, ella farà più chiara,
E tu, sorella mia, da sue parole

Non dilungarti. Che se il fai, davvero!
Che la tua sorte perderà sua luce!

Di re Khusrèv le cifre egli nascose
Nella epistola sua, quel foglio poi
In seta avvolse e la sua donna accorta
L'epistola prendea, di lui, sì fermo
Nel suo desìo, bene ascoltando i detti.
Andavane correndo alla foresta
Ch’è di Narvèn, lei donna e messaggiera
Ad una donna. Ma Gordieh fu lieta
Qual è dell’anno la stagion più bella,

E di fragranze e di colori e fregi

Le gote si abbelli. Molte fùr dette
Parole di Behràm, giù da le ciglia
Molte lagrime sparse, indi in secreto
La messaggiera, consigliando a lei,
Porse a Gordìeh del suo signor l’'epistola
Con le cifre del re. Davver! che allora
Che cotal donna, leonino core,

Vide il foglio regal, detto tu avresti
Che scendere ella vide in su la terra
La bianca luna! Ella sorrise e disse:

Tal che ha cinque alleati, ardua cotesta
Impresa sua non stima. — E cinque allora
Amici a sè chiamò, poseli accanto
Di Gustehemme a la notturna stanza,

E le cifre del sire a quei soltanto


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— 240 —

Suoi cinque amici recitò, nascoste
All’inclita assemblea le riserbando,
Poscia, come disciolte ebbe le labbra
A favellar, subitamente il patto
Fermò con quelli e le lor destre ancora
Strinse nella sua man nell'ora istessa.
Come discese l’atra notte, spense
Ella ogni luce ed improvvisa il pugno
Dello sposo dormiente al labbro appose;
Anche alleati le venìan da quelli .
Subitamente, al capezzale accorsi
Dell’inclito guerrier. Molto con l'ebbro
Che assopito giacea, lottò colei
E al fin dell’opra ne frenò la lingua
Che gridando assalia. Così nell’ombre
Moria quel duce di gagliardi, ad altri
L’atre notti lasciando e i di sereni.
Ma dentro alla città grida levàrsi
E gemiti e dimandi e in ogni vico
Sorse incendio e tempesta. Allor che intese
L'imperterrita donna i gridi alterni,
D'un greco usbergo la persona eretta
Vestendo, per la notte ombrosa e tetra
Gl’Irani tutti convocò, parole
Fe’ molte a lor di quell’ ucciso e il foglio
Mostrò del sire, augumentando a tutti
Forza ed audacia in cor. Gridaron lodi
I prenci tutti, al re benedicenti,
E sul foglio regal sparsero gemme.

XXXIX. Nozze di Gordìeh e di Khusrev.
(Ed. Calc. p. 1988-1986).

Calami chiese l’intrepida donna
E il vasel degl'inchiostri e in molta pace
Col suo fidato consiglier si assise.


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— 241 —

Un foglio scrisse a re Khusrèv, d’amici
E di nemici favellando, e in pria,
Del foglio al cominciar, di Chi dal core
Scaccia purificando il rio pensiero
Della vendetta, fe’ sue laudi, e aggiunse:
L'impresa che il re nostro impose a noi,
Or si compila di chi l’onora ed ama
Conforme al desiderio. Iva dispersa,
Per la fortuna del gagliardo sire,
Del mondo reggitor, l'ampia falange
De’ suoi nemici. D'ora in poi deh! quale
Ci dài comando, e quali a’ servi tuoi
Orecchini di schiavo appender brami?
Come giunse a Khusrèv l’inclito foglio,
Novella gioia venne in lui da quella
Donna preclara. Un messaggier cercossi
ll nobil re, pari a leon gagliardo, ,
Accorto messaggier, d’alma serena,
D'alti destini, e fu notato un foglio
Quali d’Arzhèng sono le cifre in China,
E molte laudi vi fàr dette. Il sire
La nobil donna a sua regal dimora
Così chiamava e lei dicea nel foglio
Splendido serto de la bianca luna.
Il messaggier, come tempesta in volta,
Andavane a colei, donna preclara,
E le parole ridiceale acconce,
Tutte, di re Khusrèv. La nobil donna,
Di leonino cor, del re sovrano
Per l’epistola allor parve qual rosa
In sue tinte smaglianti a primavera,
Sì che tosto i suoi prodi «ella chiamando
Alle sue porte, diè stipendio attorno
E al primo albor del dì vegnente l’ampie
Provvigioni ordinò. Com'ella giunse
Vicino alla città del suo signore,




<pb n="8.242"/>
— 242 —

Esercito d’eroi per la sua via

Le ascese incontro, e poi che da la via
Entrò nel regio ostel, l'accesso ell’ebbe
Subitamente. Il cor del suo signore
Libero scorse da ogni cura e affanno,
Sì che molti e pregiati e ricchi doni
Ella al piè gli gittò, trassegli innanzi
Quanti eran seco principi e guerrieri.
L'ampia ricchezza ed i tesori accolti
Tutti ell’addusse al re dinanzi e tutti
Partitamente al tesorier li porse,
Monete e gemme imperiali in tanta
Copia, che niuno inver sapeane quanto
Il novero stimarne, auree corone

E cinti e vesti in or tessute e troni

In nitid'oro e targhe auri-fulgenti.

A costei, pari a nobile cipresso,
Nelle sue gote a primavera eguale
Veracemente, come augel supéèrbo
Nel fiero incesso (brune le sue trecce
Qual è la notte e qual mattin sereno
Candido il volto; che piovean lucenti
Perle dal labbro suo, tu detto avresti),
Riguardava Khusrèv. Alle sue stanze
D'Irania bella inviavala il sire,

E là nel gineceo d'ogn’altra assai

Suo grado era maggior. Tale mandando
A Gherdùy, di colei nobil fratello,

Tale mandando al suo ministro ancora,
Aita a lui nelle sue imprese, lei,

Come eran norme di sua fè, chiedea
Qual sposa eletta. Ei sì l'accolse e cara
L’avea così come sua dolce vita,

Fra i compagni di lei spartia pur anco
Incliti doni e fulgide monete

E cose molte di diversa fuggia.


<pb n="8.243"/>
— 243 —

Due settimane trascorreano, e il prence
Così a quella dicea: Per questo sole
E per la luna e la corona e il trono,
Dimmi tu la battaglia di cotesti
Del re di Cina, e come a quelli in mezzo
L'armi cingesti a’ fianchi tuoi dintorno.

E Gordìeh rispondea: Vivi beato,
O d'Irania signor, col dolce aspetto
Sii tu sostegno all’'alme nostre. Imponi
Che sella e palafren qualcun mi adduca,
Arco mi apporti e un scelto laccio e un'asta
E un elmo e da battaglie una corazza
E di frecce mortali in duro legno
Colmo un turcasso. — E fe' cenno a un valletto
Il nobile signor d'Irania bella
E disse: Un trono tu mi appresta adunque
Là fra i roseti ne’ giardini miei.

Di vigil core, andavano i valletti,
Greci paggi e Turani, e mille ancora
E dugento vaghissime fanciulle
Di principe Khusrèv. Detto tu avresti
Che spazio nel giardin più non restava.
Come splendido sol Shirina intanto
Avanzavasi in mezzo ed incedea
Nella sua altezza qual d’un erto stelo
Di bianco argento. Appo l’iranio sire
Anche andava Gordieh, forte un usbergo
E un elmo greco a un garzoncel chiedendo
Turanio, ed incedea dal loco ov’era
Assisa un tempo. E cinse la cintura
E la lancia impugnò. Deh! tu mi sii
Qual tesorier, disse a l’iranio sire;
Volgimi gli occhi ed assentir ti piaccia.

A tal femmina, ricca d'ogni pregio,
Diè l'assenso il gran re. Venne colei
Appo al suo bruno palafren, la lancia


<pb n="8.244"/>
— 244 —

Piantò a l'estremo nel profondo suolo

E rapida qual nembo alta in arcioni
Balzò di terra. Qual di giostre un loco
Ella trascelse in quel giardin fiorente

E da destra si schiuse e da sinistra

In varia foggia un varco. Ella volgea
Di tratto in tratto il palafren, cacciando
Più de le fosche nubi alte le grida.

Disse alfine a Khusrèv: Nell'ora appunto
Di mia tenzone con Tebùrg, un lupo
Fero ed agreste in questa guisa fui.

Shirina disse allor: L’armi guerriere
Così porgi a' nemici, o re del mondo?
Ben fia che il sangue del fratello ucciso
Ella ricordi ancor, sì ch'io già temo
Ch'’ella ti tragga in manifesto esizio
Col tuo nobile stato. E tu frattanto
Con una veste sola in trono assidi,

E libero a costei da tutte l’ore
È l’accesso appo te. — Con un sorriso
Così disse a Shirina il re del mondo:

Non cercar da costei fuor che leggiadre
Opre ed amiche. — E quella intanto, vaga
Qual luna in viso, andavane dattorno
E con atti di guerra e con cortesi
Atti d’amor belligeri guerrieri
Iva imitando. Oh! almen qui fosse alcuno,
A me dinanzi, ella dicea, de' fieri
Nemici del mio re, quì nel fatale
Loco dell’armi! Nel regal cospetto
D'arcioni il leverei come già un tempo
Tebùrg levai! — Stupiìa l’iranio prence
Al rimirar l’eretta sua statura
E gli omeri e la forza e il ferreo braccio,
Fin che tai detti le rivolse: O donna
Che biasimar della fortuna tua


<pb n="8.245"/>
— 245 —

Il mutarsi non puoi, fa ch'io qui vegga
Se con un nappo di purpureo vino
Ferma o debil sarai su l’orme tue.
Colmo di regal vino un fondo nappo
La femmina gagliarda in man si prese,
Tal che fuggito ne saria pur anco
Vinto Ahrimàne. Posti ognun vi avea
Fermi gli sguardi, ma Gordieh, d'un fiato,
Di principe Khusrèv gridando il nome,
Quella fonte essiccò di color d'oro.
Davver! che ne stupia l’iranio sire
E gridavale ancor: Deh! tu leggiadra
Qual bianca luna, che battaglie cerchi,
Quattro son duci a me per l'ampia terra,
Custodi a me dell’alma mia. Ciascuno
Dodicimila ha cavalieri seco
D'Irania, di gran foga entro gli assalti.
Anche nel mio, che d’auro splende intorno,
Inclito gineceo, là, nella casa
Di gemme adorna, con monili fulgidi,
Con orecchini, tenere fanciulle,
Dodicimila, son. D'oggi in avanti,
Gordieh, tu sei di tutte alma custode,
Poi che affanno pe' tuoi già sopportasti
E grave cura. Nè vogl’io che alcuno
Parli d’esse giammai, vecchio o garzone,
Te sola tolta. — Come udì cotesto,
Lieta Gordieh si fe’, libera omai
Di gente avversa da’ rimprocci. Il suolo
Ella toccò con la sua fronte, a quella
Di prence maestà benedicendo.


<pb n="8.246"/>

XL. Oppressione di Rey.

(Ed. Calc. p. 1986-1989).

Dopo cotesto trascorrea pur anco
Lunga stagione, e per salir soltanto
Dell’inclito signor la chiara stella
Volgeasi in ciel. Co' principi e co' saggi,
Co’ sapienti d'ogni cosa esperti,

Si bevea re Khusrèv ad una notte

Un vin gagliardo. In quella festa ancora
Fu visto un nappo, e di Behràm su quello
Notato il nome. Di gittar quel nappo
Tosto fe’ cenno re Khusrèv, e il core

Di liberarsi dal pensier di quello
Subitamente per ciascun. Principio

Fecero allora ad oltraggiar l’estinto
Behràm i prenci, a maledir quel nappo

E chi ’l recava, e il re parlò: Deh! intanto,
Per colui sì malvagio, il suol di Rey
Elefanti belligeri calpestino

Col piè ferocemente. Anche si scacci

Fuor da l’empia città la gente accolta

E Rey s'uguagli a desolato campo

Degli elefanti sotto al piè. — Ma l'inclito
Consiglier così disse al re sovrano:

De' prenci Kay nobile erede, a questo
Deh! mira che cittade inclita e grande
É Rey veracemente e che non vuolsi
Che il suol fiorente gli elefanti addotti
Ne calpestin col piè. L'opra nefanda
Iddio dal ciel non gradirebbe e niuno
De’ sapienti per la terra attorno.

Tal qui si vuole, al consiglier rispose


<pb n="8.247"/>
— 247 —
L'iranio prence, d'indole malvagia
E di famiglia privo. Egli governi
Città di Rey per alcun tempo e sia
Inetto e ignaro e in favellar maligno.

Oh! chi dirà di cotest'uom sì reo
I certi segni, o nobil prence? a lui
Disse il ministro. Cercheremlo noi,
Addurremlo qui ancor, ma non è dato
Addurlo mai senza che alcun ci guidi.

Re Khusrèv rispondea: Tal mi fa d’uopo
Che cinguettier si mostri e di vil sorte,
Rossi i capelli e laida la persona,

Pallido il volto e storto il naso, tristo
Ne’ suoi pensieri e di veduta corta

E piena l’alma di rancura. Malo

Di core ei sia, dispetto e vil, la mente
D'odii nutrita e la sua lingua piena

Di menzogne procaci. E gli occhi grigi
Ambo volga bistorti é lunghi i denti
Mostri e pel suo sentier, qual tristo lupo,
Vadasi incurvo a tortilosi passi.

Tutti del sire i sacerdoti allora
Meravigliàr, di quello sì che disse
Prence Khusrèv, novello detto. Ognuno
Molto cercò pel mondo attorno, ognuno
Di quell’ampia città, principi e servi,

E accadde sì che un giorno appo l’iranio
Dalla via aperta un uom fu addotto quale
Il prence designò. Fe’ cenno allora

Che innanzi a lui condotto ei fosse, addotto
Innanzi a lui cotesto falco; e tosto

Nel suo cospetto altri adducea colui,

Sì che ridea la gente attorno ed ogni

Uom d'armi ne ridea. Recami innanzi,
Disse Khusrèv, quale hai tu in serbo, rea
Parola od atto reo. — L’uom gli rispose:




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— 248 —

Io posa mai non ho dall'opre triste
E senno in me non è. Da ciò ch'io dico,
Diversa opra mi fo, piena d’affanno
L'anima rendo e il corpo di colui
Che a me pregando vien. D'ogni mia possa
È a me principio la menzogna, e questo
Bastami inver; nè giunge la mia mano
A verità giammai. Con chi fo patti,
Que' patti infrango, e la radice e il tronco
Dell’arbor di giustizia abbatto al suolo.
Sola questa tua sorte e trista e grama,
Disse Khusrèv, sul capo tuo sia scritta!
Scrissero allor di Rey città l’editto
Ne' scrittoi di Khusrèv, e l’uomo infausto,
Per l'indole sua rea, grande si fece.
Una schiera d'armati, in pria dispersa,
Affidavagli il prence, ed ei ne andava
Da l’ostello regal, di sua natura
Malvagia e rea seco portando il nome.
Come discese in Rey città costui
Tristo e maligno, da timor di Dio
E il core e il guardo liberò. Fe’ cenno
Che fosser tolte le grondaie attorno
Ad ogni tetto, e per quell’opra stolta
In core giubilò; poscia de' mici
Ampio fece sterminio, e fu dolente
Il cor d'ogni signor di case attorno.
In ogni loco egli ne andava e seco
Era una guida, e un banditor dinanzi,
. In piè ritto, gridava: Ecco! se mai
Vedrò grondaie incolumi a’ lor posti
O mici attorno per le case, il fuoco
Io per que' tetti gitterò, per quelle
Campagne tutte e sovra gli abitanti
Farò pietre cader d'alto sul capo.
Ogni loco frugando ove nascosta


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— 249 —

Fosse una dramma, il possessor nel duolo
Gittavane per essa, onde lor case
Gli abitatori per timor di lui
Disertando venian, distolto il core
Da’ lor campi fiorenti. E allor che pioggia
Venia dal ciel, non erano grondaie,
Non erano in città custodie attorno,
Chè per tal uom di trista voglia, infausto
Nell’indole sua rea, che in Rey discese
Dalla dimora di Khusrèv, d’un tratto
La fiorente città si fe’ deserta.
Splendea da l’alto il sol senza difesa
Sul capo a tutti, e di cordoglio piena
Era l'ampia città, piena d'affanno
Per l’uom sì tristo, e niun pel mondo ancora
Degl’infelici davasi pensiero.

E fu cotesto fin che giunse il mese
Di Ferverdìn, quando la terra intorno
Di petali di rose porporine
Tutta adornossi e scesero dall'alto
Delle nubi del ciel, come rugiada,
Stille piovose e la pianura e il monte
Si rivestìr di tulipani. Allora,
Qual è de’ pardi la gaietta pelle,
Ebbero i prati varie tinte e il suolo
D'un broccato di Grecia ebbe colore.

Per lor sollazzi vennero a’ giardini
I prenci allora e corsero per prati
Capri e gazzelle. Come vide aperte
Prence Khusrèv le porte de’ giardini
E de’ giardini ogni piscina scorse
D'anitre piena, comandò che fiato
Altri desse a le trombe e colmi nappi
Altri apportasse di profumi. Assisero
Su l'erba verde e chieser vino e l’alma
Fecer più bella per novella gioia.


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— 250 —

Ma intanto da città di Rey lontana

Tale a Gherdùy venia, tutti a narrargli

I vieti casi. Pel dolor di Rey

Gherduùy ben si crucciò, sì che si volse

Ad un'arte sottil per quell'affanno

Del core e tosto alla sirocchia sua,

Deh! tu, dicea, nascondere cotesto

Al re nostro non dèi! Vedi, se puoi,

Arte d'usar perchè da l’opra trista

Tornisi a dietro il cor di lui. — Gordieh

Un picciol gatto si recava allora,

Tal che da un bimbo piccioletto ancora

Scerner non si potea. Sovra un destriero

Da l’auree briglie (e molte sovra l'oro

Splendean le gemme) ei si posava, e due

Gli pendean da gli orecchi aguzzi e dritti

Orecchini lucenti, e l’ugne sue

Qual tulipano eran dipinte. Agli occhi

Negro qual pece e nelle guance sue

Qual primavera, con lucenti gli occhi

Quali d'un uom che vino bevve. Intanto,

Attorno a quel giardin, quale un fanciullo,

Sul destriero ei correa, l’aurea gualdrappa

Dal dorso eretto del destrier pendendo.

Davver! che il labbro dell’iranio prence

Di un riso strano si riempì! Seguaci

Fùr del riso resal tutti que' servi,

E re Khusrèv disse a Gordieh: Qual cosa

Tu cerchi più d’assai fra ciò che brami,

Donna d'’indole eletta, a me tu svela.
Ratto omaggio gli fe' la donna astuta

E così disse: O re che alta sollevi

La cervice, di Rey fammi tu dono

E ti ricorda il senno tuo, disciogli

Da ogni corruccio degli afflitti il core.

Da Rey richiama l’uomo infausto e lui


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— 251 —

Infausto appella e tristo e malaccorto
In ogni opera sua, ch'egli discaccia
Via da le case i piccoletti mici
E le grondaie svelle ad una ad una.
Della femmina accorta a le parole
Rise prence Khusrèv e le rispose:
Donna audace, che rompi le nemiche
Falangi ancora, già ti dono quella
Città fiorente e que’ villaggi. Tale
Accorto e savio tu vi manila e il tristo,
Quale Ahrimàn di fè malvagia e rea,
Di là t’affretta a richiamar. — Maggiore
Così la sorte di Gordìeh si fea
Di giorno in giorno, all'albero fidata
Inclito e illustre del suo re sovrano.

XLI. Spartizione del regno.

(Ed. Cale. p. 1989-1991).

Poi che la possa di tal re sovrano
Lungi si stese, amica a lui divenne
Quest’ampia terra in ogni suo confine
Ed ogni prence incoronato a lui
Servo si fece; gli umili pur anco
Dovizie avean per lui. Scelse d’Irania
Otto e quarantamila prodi, esperti
E forti e cavalieri atti a le pugne,
Indi le porte de’ tesori antiqui
Tutte dischiuse, quali un dì riposti
Avea Pirùz, avea Kobàd illustre.
Divise poi l'ampio suo regno in parti
Quattro simili e ne segnò pur anco
Ad una ad una le città per nome;
Poscia di quegli eroi famosi in guerra


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— 252 —

Dodicimila cavalieri accorti,

Di spade armati, re Khusrèv mandava
In suol di Grecia, di quel suol custodi,
Ricco e fiorente, perchè gente avversa
Di Grecia mai non salisse in Irania
Onde poi questa terra ampia e ferace
Desolata non fosse, e ognuno intanto,
Di suo confin déttosi pago, quale
Fosse proprio valor, qual la possanza
Ancor vedesse. Tra famosi eroi
Dodicimila anche scegliea d’Irania
Cavalieri belligeri. Cotesti

Fino al Zabùl salir dovean, da questi
Orti di rose a quella terra oscura.

Così lor disse il re: Se alcun va errando
Lungi dal suo sentier, nè il loco suo
Serba costante, con amor per voi
Sia quei condotto alla sua via diritta,

E s’ei torna ad errar, carcere e ferri

Gli amministrate. Esploratori vostri
Anche inviate in ogni parte attorno
Perchè niuna rimangasi nascosta

Di quante cose son quaggiù. Chè voglionsi
Torrieri e notte e di. Senza custodi

In tende pigliar sonno unqua non piacciavi.

Altri gagliardi che chiedean la pugna,

Da l’esercito suo, dodicimila,

A sè chiamava re Khusrèv. Consigli

Saggi lor porse ed inviolli poi

Pel sentier degli Alàni e quel confine
Dell’occidente lor fidò, passaggio

Perchè niun de’ nemici ivi si avesse,

Poscia a’ lor duci favellò: Deh! voi

Vigili siate, sotto alla difesa

Dì Dio, signor del mondo! — E scelse ancora
Dodicimila altri gagliardi in quelli


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— 253 —

Uomini suoi belligeri, conforme
Al suo desire, e gl’inviò lontano
In Khorassàn, molti consigli e prieghi
Lor dati in pria. Non debbe alcuno, ei disse,
Dal confin degli Heytàli a quel di Cina
In suol d'Irania porre il piè giammai,
Se non quand’io ciò sappia e ciò comandi |
E quegli avvinta a’ nostri patti serbi
L’anima sua. Per ogni terra intorno
Son ricolmi tesori, e niun la mano
Lungi ne dee tener. Tosto che d'uopo
N'abbiate voi, chiedete aperto, e lieti
Viver possiate e senza duol campando
Siate vigili e saggi. — Aperse allora
De’ tesori le porte e recò dramme
Su cui di prence Hormùzd vedevi il segno,
E lagrimando a’ poveri le diede.
Poi che da lui la gente ch’è mendica,
Ebbesi vesti, più d’assai fe’ doni,
Indi a quei che alleati erano e amici
A principe Bendùy, che ree parole
Dissero un giorno a Gustehèm per lui,
A chi del sangue dell’estinto padre
Gioia, dal busto il capo reo recise.

Poi che compiuta la vendetta sua
E l'imprecar ebbesi il re, diversa
Per sapienza la sua via si prese,
E del ciel roteante il dì e la notte
Dispose e in parti quattro anche divise.
Prepose all'una un sacerdote, quale
Tutte a memoria le leggiadre cose
Aver dovea, dell’opre dell'esercito,
Dell'opere del mondo in ogni parte,
E in secreto e in palese al re sovrano
Dovea far motto. E se pel regno attorno
Vedea iattura da soggette genti


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—— 254

O da gagliardi armigeri, di sua

Alta giustizia, ad operar, quel sire

Il lembo raccogliea. Le già avvenute
Cose cercando e investigando, tutte

Ei giugneva a scoprir. Ma l’altra parte
Della notte e del dì tripudi e feste
Eran per lui con musici e cantori

E co' principi suoi sedersi in pace,
Ned ei cura o pensier di triste cose
Davasi allor, quat è costume eletto

De' prenci illustri di quaggiù. La terza
Parte del giorno e de la notte ombrosa
Era per adorar pregando Iddio,

Fattor del mondo, e a computar del cielo
Superno i moti destinata a lui

Era la quarta, allor ch'egli del quanto,
Del come e del perchè ragion prendea.
In piedi innanzi a lui stavansi allora
Gli astrologi raccolti, ognun che fosse
In sapienza a lui maestro e guida;
Indi fino a metà del lento corso
Dell'atra notte, egli assidea con belle
Fanciulle di Tiràz letiziando.

In quattro parti ancor divise il corso
D'ogni mese dell’anno, ond'ei raccogliere
Potesse di quaggiù letizia vera,

E già una parte a gittar globi e dardi
Nella palestra fu assegnata, e un prence
D’inclito nome stava innanzi a lui

I colpi a ricordar. Fu l'altra parte

Alle cacce per monti e per campagne
Data dal sire, onde per lui la vecchia
Età ringiovanì. Tutte fiate

Ch'ei ritornava da le cacce sue,

In tarda notte o in chiaro di, ciascuno
Che avea poter, per la città dovunque,


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— 255 —
Sul suo passaggio, nobili apparati
Ponea di festa. L’altra parte ancora
Al giocar degli scacchi e al nerdiludio
Egli assegnava e a favellar di tempi
D'antiche guerre. Ma ciascun che saggio
Era e scrittore e leggitor, quel sire
In veci alterne fea sedersi innanzi
Del mese all'altra parte, e quei dicea
Lunghi racconti. I messaggieri poi
Appo il sire chiamavansi alla quarta
Da' lor sentieri, ed ei scrivea risposte
All’epistole tutte, appo que’ prenci
D'alta cervice e gloriosi. Intanto,
Con regi doni e con sua voglia piena,
Da l’ostello regal, con la sua pace,
Ogni messo partia. Scrivea pur anco
Il nobil prence ad ogni giorno editti
Per ogni terra e ad ogni prence intorno
Sì gli affidava. E allor che del novello
Anno principio fu il giocondo mese
Di Ferverdin, quando nel cor s'accende
Alla luce del sol novella fede
Agli uomini quaggiù, Khusrèv pur sempre
Colmo un tesoro in disparte ponea,
Qual niun servo sapea per tutto il mondo.

XLII. Nascita di Shtîrày.

(Ed. Calc. p. 1991-1992)

Come del regno suo cinque trascorsi
Furono gli anni, per la terra attorno
Di re Khusrèv l’ugual non era. Al sesto,
Del greco Imperator la bella figlia
Ebbe dal prence iranio un pargoletto,


<pb n="8.256"/>


Pari a candida luna. Allor non era
Legge o costume de’ piccioli infanti,
Nutriti con amor, presso a l'orecchio
Sommesse preci mormorar; ma il padre
Un nome ridicea del figlio suo
Presso a l'orecchio, e un nome avea per lui
Palese e un altro ne celava intanto.
In disparte e in secreto egli a l'orecchio
Un nome gli dicea, fuori, a l’aperto,
Un altro gli dicea palese agli altri,
Ch'ei Kobàd l'appellava, il caro nome
Presso a l'orecchio mormorando, e fuori
Shirùy dirlo solea d'alto lignaggio.
Come trascorse de la notte ombrosa
Fùr tre vigilie da ch’ei nacque, al sire
Gli astrologi venian. Chiese agli astrologi
D’Irania il prence: Chi di voi le stelle
Stettesi a rimirar, che vide in cielo?
Qual esito sarà d'esta opra mia?
Qual fia la sorte del picciolo infante,
Sire del mondo, per le carte vostre ?
Scampo trovar non puoi da questo cielo
Alto rotante, l’indovin rispose;
E però per l'infante che nascea,
Turbamenti si avrà quest’ampia terra,
Nè avrà lodi per lui la gente accolta.
Anche avverrà che dal sentier di Dio
Egli a dietro si volga. Oh! come intanto
Dir potre’ più d'assai di quel ch’io dico?
Per cotesto ch'ei fean, del prence il core
Ebbe corruccio, e più d'assai per quelle
Parole, indegne inver. Meglio di tanto
Voi custodite le parole vostre,
Disse il monarca a' sapienti. Voi
Guardate sì che sopra a ciò non volgasi
La lingua vostra innanzi a’ prenci illustri


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— 257 —

Dell'iranico suol. — Così celavano

I sapienti la maligna sorte

Del regio infante e su quel foglio arcano
Stava l'impronta del regal suggello.

Ma l'inclito signor pieno d'affanno
Andavane però, sì che nessuno
Per sette giorni in sua presenza accolse
E s’astenne dal vino e da le cacce,

Sì che nessun per alcun tempo mai
Veder la fronte ne potè. Ma i prenci
Vennero tutti al sacerdote innanzi

E favellàr di molte cose. Oh! dunque
All’inclito signor che avvenne mai,
Se l'adito ei precluse a’ servi suoi?

E il sacerdote, ‘come udiìa, ne andava
Appo il suo prence e di sue elette genti
Armigere il messaggio gli rendea.

Risposegli d’Irania il maggior sire:
Per la fortuna mia cruccioso in core
Io sì mi féi; son io pien di sgomento
Degli astrologi miei per le parole,

Per questo cielo roteante in alto.

E ingiunse al tesorier: Tosto mi reca
Serico il foglio e quella che v'è inchiusa
Notata carta. — E il tesorier recavala
E il sacerdote la vedea. Cruccioso
Ei si fe' in core ed in silenzio stette
Ancora e disse poi: Ti basti Iddio,

Ch'ei sì di tutti sapienza avanza.

Che se il ciel roteante (e non è modo

A scamparne) diverso a chi lui prega
Mostra l’aspetto da quei voti, oh! come
Per rancura che ha l’uom, tornarsi a dietro
Il ciel potria da mal ch’ei pensa? E questo,
Questo ridir come s'addice a vera

Sapienza dell’uom? Nulla t'alberghi




<pb n="8.258"/>
— 258 —

Fuor che letizia, o re, nel cor, nè mai
Voglia tu ricordar degl'indovini

I detti vani! Quale è pur semenza
Che gitta il cielo, noi mietiam, fidando
In lui ciò che vogliamo e ciò che noi

Lunge vorremmo. Eppur, ciò che ne serba

Il fato, anche sarà, guerra talvolta

E battaglie e tenzoni, amor tal’altra

Ed opre vaghe di giustizia. Danno

E giovamento a le nostre persone

Procedono da lui, ma di chi è saggio

L'anima forte del destin non teme.

Sostegno e amico deh! l'Eterno sia

A te, signore, e tu recarti in grembo

Ti possa un di la tua fortuna amica!
Khusrèv, come ascoltò queste parole

Dal sacerdote, rise alquanto e pose

Fondamento novello a nuova impresa.
Caro ed accetto uno scrittor d’epistole

A sè chiamossi e fe' parole seco

Più di misura assai. L'iranio prence

Un’epistola indisse al greco sire.
Degna del grado imperial, scrivea,

Ti poni in fronte la corona tua,

Chè nella notte un piccioletto infante

Maria mi partorì, di cui nessuno

Vide l’ugual giammai. Degno egli è solo

Di sapienza e d’inclita fortuna,

E per pregi ch'egli ha, di grazia è degno

E d'alto seggio. Poì che lieto io sono,
Lieto vivi tu pur, chè ti si addice
Letizia vera e imperial grandezza.



<pb n="8.259"/>
— 259 —



XLIII. Richiesta della Croce.

(Eà. Calc. p. 1992-1998).

Al greco Imperator come l’epistola
Giunse d'Irania, ei riguardolla e vide
Sentenze di Perviz. Fe' cenno allora
Che su le porte sue fiato a le trombe
Si desse, e tosto di gioiose grida
Piena si fe' quella sua terra. In luoghi
Aperti elli ponean segni di festa,
Negli inaccessi ancor, con liete voci
Acclamando a Shirùy, figlio bennato
Di Perviz regnator. Levossi ancora
Di musici all’intorno un suono alterno
Per tutte le città di Grecia illustre
Da confine a confin. Recaron molte
A lostello regal croci pompose,

E volò attorno odor di rose e forte

Di profumi fragranza. In questa guisa,
Per sette giorni, fra concenti e suoni
E vin fumoso, furon lieti a gara

Per principe Shirùy. Al giorno ottavo
Il greco Imperator, che ampia venisse
Al regio ostel coi cammellieri suoi

La carovana, fe’ precetto, e allora
Cento cammelli di lucenti dramme

Del suo tesor fe' carchi, altri cinquanta
D'’auree monete da gittarsi attorno,

Di drappi intesti d'or, composti in Grecia
Con tant'or che non essere in tessuto
Alcuna trama detto avresti, carchi

Ne fe’ dugento ancor. Quaranta deschi
Di corallo coi piè, d’oro lucente,


<pb n="8.260"/>
— 260 —

Quali addiceansi a’ regnatori, e belve

In or scolpite e in bianco argento (e gli occhi

Eran gemme confitte acconciamente),

Seriche vesti e di cinese raso,

Ampio un cratere di smeraldo e d'oro,

Il gran sire apprestò. Ma per Maria

Molte gemme inviò, fiero un pavone

D’auro massiccio. Anche i tributi suoi

Della sua terra (ed eran quattro volte

Mille fiate mille dramme greche)

Con quaranta di Grecia incliti eroi

In Irania inviò; d’esti quaranta

Vigile il core ognun s'avea; lor guida

Era un gagliardo, Khaneghì suo nome,

Di cui l’egual non era in sapienza.

Così, col carco de’ cammelli in fulgide

Monete, andavano di là le carovane,

Coi cammellieri lor, dieci nel novero.
Al sire vincitor d'Irania bella

Come annunzio venia che il messaggiero

Del greco Imperator giugnea pel suo

Lungo sentiero, che in arcion balzasse

Farrùkh precetto ei fe’. Devoto al sire,

Guardian de’ confini era costui,

Di Nimrùz reggitor, d’incliti pregi,

Gagliardo eroe, splendor d'ogni falange

Armata in guerra. Andavano con lui

‘ Cavalieri del re, postasi in capo

Una corona tutta d'or. Ma quando,

Lontano ancor, la nobile masnada

Scoverse Khaneghì, con fiero incesso

Fecesi innanzi, e per tal via n’andavano

Appo l'iranio sire, entravan tutti

In quell’inclita reggia. Allor ch'ei videro

Il nobil volto di Khusrèv regnante

E il trono adorno in quella guisa, tutti


<pb n="8.261"/>
— 261 —

D'un moto al suol chinàr la testa e laudi
A tal prence gridàr. Chinando a terra
Khaneghi allor le gote sue, sclamava:
O signor di giustizia, integro e santo,
Benedizion di Dio, sempre vincente,
Discenda su di te! Sii tu soltanto
Monarca in terra in ogni tempo e lieto!
I grandi il rilevàr dal loco suo
Rapidamente e un loco appo l’iranio
Principe gli apprestàr. Ma quegli al sire
Seguitando dicea: Deh! chi t'è uguale
In sapienza ? Più del sole in cielo
Splendido sei, più valido e più fermo
D'ogni spirto che ha nobile favella!
Senza tal re non viva il mondo, e frutti
Rechi a tal sire il tempo suo! Nessuno
Vegga i suoi giorni senza che tu v’abbia
Il tuo piacer! Ma il nome tuo sta scritto
Lassù, nel sole, e questa terra oh! mai
Orba non sia di tua corona illustre
E del sacro tuo capo, e il suol d'Irania
‘ Libero mai da le tue accolte schiere
Non veggasi quaggiù! Dal greco sire
Vengon, vengon saluti e da noi tutti
Benedizioni a questo re del mondo,
Inclito e illustre. Ma colui che lieto
Non va del patto con cotesto sire,
Luce del ciel non abbia mai! Frattanto
Venimmo noi con doni e con tributi
Di greca terra ed ascendemmo a questo
Inclito suol. Con sapienti ancora
Venimmo, o sire, perchè niun per noi
Cruccioso andasse. Ma l'iranio prence
Dal greco Imperator prendasi almeno
I tributi e le offerte, onde poi sia
Benedizion di lui per tal tributo


<pb n="8.262"/>
— 262 —

E per tal dono. — Per costui sì ricco
D'incliti pregi rise alquanto il sire,
Ed altri intanto uno sgabello umile
Sottoposegli. Tutte le inviate
Cose dal greco re Khusrèv mandava
A’ suoi tesori e al messaggier dicea:
D'uopo non era di sì gran travaglio.

A questa gente qui raccolta leggi
L'epistola dinanzi, allor soggiunse
Re Khusrèv a Kharràd. — Lo scriba intento,
Alle rubriche rimirando, ei saggio
Ed eloquente e memore, fe’ queste
Parole e disse: Al principe d'Irania
Sen viene il foglio imperial, sen viene
AI nobile Perviz fedele a Dio,
Sire del mondo, vigile, gioconda
Letizia alle città d'Irania bella,
Cui diè in sorte l'Eterno e la corona
E l'alto senno, reggitor del mondo,
Figlio a principe Hormùzd, al trono, al serto
Alto ornamento. E vien cotesto foglio
Del greco Imperator, padre alla madre
Di quei che di Leone ha il nome eletto,
Di cui resti la gloria in sempiterno
E il nobile desio. Sempre egli vanti
Grandezza e maestà, vincente ei sia,
E tutti i giorni suoi sian come il primo
Giorno dell’anno. Ma l’iranio sire
In Irania e in Turania ha regal possa.
Niuno egual deh! gli sia nel grado suo
Di re sovrano, ma in eterno ei sia
Lieto e beato e d’anima serena,
Vecchio di senno ognor, ma giovinetto
In sua possanza. A tal signor pregiato,
Stirpe di Gayumèrs, d'Hoshèng figliuolo
E di re Tahmuràs (deh! mai non sia


<pb n="8.263"/>
— 263 —

Che giunga al termin suo questa regale
Stirpe), di padre discendendo in padre,
Di figlio in figlio, benedica Iddio

Santo dal cielo, benedican tutti

Del regno i grandi e della fede i prenci!
Davver! che non è in terra un cavaliero
Eguale a te, non è una primavera

A te simile, non è in tutta Irania
Figura sculta eguale a te! Ben sei
Giustizia e nobiltà; l’anima tua

Deh! mai non vegga soglia di menzogna
In sempiterno! Ma in Irania bella

E in Turavia ed in India e in suol di Grecia,
E da Turania fino al tristo albergo

De’ tristi maghi, nascimento eletto.
Iddio ti dava, e alcuno a te simile

Da pura madre non nascea giammai.
Nel tempo che Fredùn l’irania terra
Affidava ad Eràg'’, tolse di Grecia,
Tolse di Cina del valor la fama,

E i prischi tempi fecer lodi a lui
Veracemente, ch'egli il cor disciolse

Da ogni fosco pensier, da ogni fallacia,
Sì che d’allora in poi dir tu potresti
Che Iddio donovvi una propizia sorte,
D'ogni bisogno alta franchigia, eletta
Virtù e grandezza e di magia la possa,
Togliendo ad altri del valor la fama.
Così voi foste d’incliti tesori
Dispensatori, alimentando in petto

Ogni nobile pregio, onde per questa
Vostra stirpe regal niuno mai s'ebbe

O rancura o dolor. Gravi tributi

E lor balzelli imposero a’ nemici

I vostri prenci, e ne fùr gli avversari
Come bovi dannati a trar lor pesi.


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— 264 —

Di Kìsra Nushirvàn nel tempo antico
(Di cui l'anima sia per sapienza
Vigoreggiante in sempiterno!) allora
Che non era quaggiù che l'uguagliasse
Prence sovrano, nè tal fia giammai

In tante stirpi di monarchi, allora

Che l’acque ei valicò profonde e cupe
Del regal fiume e superò de’ vigili
Principi Kay le mura altere, tutta

La selva di Narvèn da le turanie
Schiere libera andò, sciolte le genti
Fr da cordoglio e da rancura. Allora
Tanti da' lor nemici andaron sciolti
Popoli in terra, e prenci e servi allora
Benedissero a lui, nobil sovrano.

Arabì prodi allora, Indi ed Irani,
Cinsero innanzi a lui l'armi lucenti

A’ fianchi intorno, e dal mar ch'è di Cina
Fino a città dei Khàzari guerrieri,
D'Armenia ai liti d'occidente, e ancora
Dagli Heytàli ai Turani e a Samarkanda
E a Ciàci ancora, i principi che gloria
Aveano e serto e maestà, di voi

Tutti fùr servi e in testimonio ei stessi
Eran di loro servitù, chè i prenci

Del seme di Fredùn poi che in Irania
Avean governo, agli altri tutti il dritto
Era precluso. Or io per il novello
Vincol di sangue che con te già strinsi,
Onde poi per saggezza alto levai

Il grado mio, tanto son lieto e pago
Quanto per l'onda un assetato, o quanto
Un'erba verde a lo splendor del sole.
Deh! beato mi faccia il re del mondo,
Vigile e accorto, e in questo giorno ancora
Una risposta facciami! Dal prence


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— 265 —

D'Irania bella chieggo un mio desire,
Quale appo lui lieve sarà. Ne’ vostri
Tesori è ancora del Messia la croce,

E se guardate, ben vedete il mio

Detto esser vero. Scorsero ben lunghi
Gli anni frattanto, e ben sarà se il prence
. La santa croce mi rinvia. Con questa,
Il re del mondo faccia grazia eletta

A’ grandi e a’ servi per noi soli, ed elli
Pel mondo attorno faran laudi a lui,
Chè mai non sia che questa terra e il tempo
Orbi vadan di lui! Per quella croce

Io sarò grato a re Khusrèv, per esso
N dì e la notte a tre vigilie ancora
Starò pregando. Ei sì, tutti que’ doni

E i tributi e i balzelli che gl’invio
Appo sua gente, prendasi pur anco,
Ch’io sol mi prenderò per quella croce
Alto favore (oh! pupilla di rei

In fronte mai non ti riguardi!), e allora
Più belli fien di noi tripudi e feste

E splenderà per l’ampia terra attorno
La nostra fede. Anche digiuno intègro
Per noi farassi d'ogni settimana

Al cominciar, con ogni rito e pompa
Intesa a venerar l'Eterno in cielo.

Ma gl’infelici che han dolori e affanni,
A quella croce accosteranno il volto

E molti innanzi a lei profumi e incensi
Arderanno. Davver! che il nostro core
Integro allor sarà, quando voi pure

Il vostro cor purificar vogliate

Da l'odio vieto che dal tempo fue

Di Fredùn regnator, quale nell’intimo
Del core penetrò con Salm un tempo

E con Tur bellicoso. Allor la terra


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- 266 —

Dagl'impeti guerrieri avrà riposo,
Riposo avrà da tante esercitate

Aspre vendette. Un dì furono addotti

In servitù fanciulli greci e donne

E in ogni guisa il nostro cor ne andava
Dolente e offeso. Ma or quietò la terra
Per questo che abbiam noi vincol di sangue,
E fu appagato ogni desio del core,
Anche se lieve. Ma di Dio frattanto
Benedizion venga su te, su quella

Tua terra ancor benedizion discenda!

Del greco Imperator poi che l'epistola
Al termin giunse e de la terra il sire
I detti molti ne ascoltò, gioioso
E lieto eì fu dell'anima e beato
Per quell’inclito foglio, or che per lui
Ringiovaniìa de’ prenci la fortuna.

Molte ei fe' lodi a Khaneghi, poi disse:
Che straniero sei qui, scordar tì piaccia!
Apprestavasi un loco al messaggiero,

E due gli disgombràr stanze gioconde

E gli recàr quant’era d'uopo, a lui
Vigile e prode. Ei venne allora e vide
L'eletto loco suo, si stette poi

Appo il gran sire; tra il giocondo vino,
A mensa ancora ed alla caccia, ancora
A’ suoi ritrovi, appo quel re, fedele

A Dio signore, ei si restò. Per tutto
Un mese intègro, appo l’iranio, stettero
Di Grecia i messi, e fùr beati e allegri
E sereni di cor con lieta voglia.

Poi che un mese trascorse, a quella epistola
Una risposta re Khusrèv dettava,
Scrivea parole di gran senno e acconce.

Del foglio disse al cominciar: Di prenci
Degna una lode facciasi a colui



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— 267 —

Che ha core intègro e da Dio santo accoglie
E il male e il bene e per la terra in core
Serba timor di Lui, fa lodi a Lui,

Sire di questo sol, ch’Egli in tal guisa
Quest’alto ciel sostiene e regge. E in pria
Per quelle che a me festi inclite lodi,
Quasi nel foglio tuo mi disvelando

Il viso tuo, tutto compresi e lieto

Andai di tanto, all’inclite parole,

Degne di saggi, che dicesti. Ancora

Accolsi il foglio tuo co' tuoi tesori,

Ben ch'io non brami che sì gran dispendio
Per te si faccia. Ma tu puoi, chè Iddio
Santo, del mondo reggitor, di tua

Terra levò l’onor fino a le stelle,

E per India e per Cina e per la terra

Dei Khàzari e Siklàb, la tua contrada
Pregio acquistossi. Qual valor di voi!

Qual sapienza, qual prudenza e fede!

Oh sì! benedizion da Dio raggiunge

Voi tutti omai! Quando m'incolse grave
Rancura dal destin, tu a me dinanzi

Fosti alleato, fosti ancor per molta

Scienza nel dolor consolatore;

Ed or tanto son io beato e lieto

Pel vincol ch'è tra noi, per questa tua
Santa e ricca di pregi alma figliuola,
Quanto lieto non è pei figli suoi

Un prence in terra e per la terra sua

E pei congiunti. De la terra i grandi
Volser le terga a me, vile e dispelto

Pel mondo mi lasciàr, ma tu soltanto

Di genitor mi fosti in loco, fosti

Più assai che padre a me. Che a te fu padre
Nobile un prence e d'anima benigna,

Pur veggo e so. Per ciò che tu m'hai detto


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— 268 —

Della santa tua fè, del tuo digiuno

Al cominciar di settimana, ancora

Delle preghiere tue, tutti a me lesse
Partitamente il regio scriba ì tuoi
Acconci detti che mi vanno al core.
Ma, per l'antica fede mia, vergogna

Io davvero non ho, nè per la terra
Altra fede è miglior di quella santa
D'Hoshèng antico. Ell'è giustizia e amore,
Verecondia e bontà, guardar nel cielo
E gli astri annoverar. Son io credente
Nell’essere di Dio, sempre a giustizia
Col core anelo, e noi consorti o figli

Dì Dio non conosciam, non suoi compagni,
Nè ciò ascondesi a noi, nè fia che mai
Celar si voglia. Iddio non è compreso
In pensier d’uman core; Ei mi fu guida
All’esistenza mia. Per ciò che in mente
Da' tempi antichi vènneti per quella
Croce del tuo Messia, vedi che il senno
Pur sempre è guida a quella fè che ferma
Su verità riposa. A chi tu appelli
Dolente e mesto perchè in croce alcuno
Il suo profeta gli figgea, chi mai,

Chi dir potrà che quello era di Dio

Il figlio eletto e ch'ei sul tristo legno
Sorridente mostrossi ? Era di Dio

Il figlio eletto? ed ei tornar dovea

Al padre suo. Tu per un legno attrito
E putrefatto non crucciarti in core!

Da greco Imperator quando una stolta
Parola viene, ridono i più vecchi

Pel foglio ch'ei mandò. Nè quella croce
Di Gesù tuo vale d’assai che un giorno
Prence Ardeshir nel suo tesor depose.
Che se in Grecia inviam vetusto legno



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— 269 —

Da suol d’Irania, ogni provincia ed ogni

Confin di noi si riderà. Pensiero

Questo sarà de’ sacerdoti ch'io

Mi fèéi cristiano e vescovo mi feci

Per amor di Maria. Chiedi qual vuoi

Altro favor da me, chè a voi dischiusa

È fino a noi la via. Gradii pur anco

Gl’incliti doni tuoi, chè tu per questi

Grave travaglio sopportasti; ed io

Dì tue fatiche sopportate il frutto

A Shirùy mio già già donai, novello

Tesor così gli componendo. Eppure,

Pieno son io per Grecia e per Irania

Di gravi cure e nella notte ombrosa

È qual foresta quest'anima mia,

Ricinta da pensieri. E temo assai

Che fatto grande Shirùy mio travagli

In Grecia adduca ed in Irania; e in pria

Da Salm illustre in giù discendo, scendo

Da Sikendèr belligero e crudele,

Antico lupo, e temo sì che ancora

Rinnovisi quaggiù fatal parola

D'odii recenti e d’odii antichi. Intanto,

Sappi tu che per quelle che già intesi

Dalla tua figlia nobili parole,

Splendor novello a tua regal corona

Ella donò. Di Cristo per la fede

Ella s'adopra e le parole nostre

Poco ella ascolta. Nella sua quiete

Beata ella si sta, con vincitrice

La sua fortuna per cotesto suo

Nuovo rampollo di regal semenza.

Deh! in sempiterno ti sia amico Iddio,

Ti posi in grembo la tua sorte bella!
Il suggello regal fu apposto al foglio,

E, prole di Berzin, Kharràd il tenne.


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— 270 —

Ma poi le porte andavano dischiuse
De' tesori che in. molti e lunghi giorni
Accumulava re Khusrèv. E in pria
Cento e sessanta cofani capaci
Atti a’ peydavesì (chè le monete
Peydavesì diceano i Persi allora)

Ei di gemme colmò, sì come pietra
Colme e compatte, su ciascun de’ cofani
Posto un piccol suggel. Prezzo d’ognuno
Di centomila dramme era d'argento,

Qual si mostrò pe’ registri del sire
Novero appunto. E v'erano anche cento-
quarantamila rilucenti drappi

Di Cina, molti intesti d'or, con fregi

Di chiare gemme, e cinquecento ancora
D'una bell'acqua preziose perle

(Ogni grano parea veracemente

D'acqua pura una stilla), e cento ancora
E sessanta rubini, a chicchi eguali

Di melagrane, quali ogn’ uom più esperto
Altamente apprezzò. Di cose elette

De' Berberi del suol, d'India e di Cina,
D'Egitto ancor, di vesti già tessute

In Shustèr, e di quante inclite cose
Nascono attorno in ogni terra e quali
Un sire di quaggiù gradite avria,
Trecento some di cammelli il prenee

Da Irania al greco Imperator, di bella
Gloria pel mondo, anche inviava. Ancora
Dono regal per Khaneghì traea,

Più bello assai che per congiunti o estrani,
Vesti e destrieri e troni e briglie e panni
Che recavan gran nome, e ne fe’ il carco
Per i cammelli. Ma di aurati nummi
Dieci some apprestò; queste a’ filosofi
Donò di Grecia, e quei n’andàr festanti


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— 271 —

Da quella terra. I prenci tutti allora
Gridàr benedicendo al glorioso
Della terra signor, ricco di pregi.

XLIV. Leggenda di Khusrev e di Shtrîna.

(Ed. Calc. p. 1998-1999).

Or io fo nuova una leggenda antica,
Di Khusrèv e Shirina io fo parole.
Questo libro vetusto ove raccolti
Son detti e fatti di passati eroi,
Era già vieto, ed io novello un libro
Sì ne compongo, in cui ricordo è posto
D’antichi prenci. Egli è di diecimila
A sei fiate distici sonanti,
E parole vi son confortatrici
D'ogni cordoglio e acconce. Alcun non vide
Libro in Persia mai più che di tremila
Distici avesse il novero compiuto;
E se talun vi ricercava addentro
I distici non belli, oh! meno allora
Di cinquecento i distici restavano!
Eppur, questo gran re sì generoso,
Quaggiù nel mondo più d'ogni sovrano
Splendido e illustre, non riguarda a questi
Racconti miei. Da maledica gente
Colpa mì venne e da fortuna trista,
Chè invidia all’opra mia portò malvagio
Calunniator, sì che travolta cadde
L'impresa mia dinanzi al re. Ma quando
Il mio prence e signor le mie parole
Dolci e soavi leggerà, se un guardo
Ei vi porrà con anima serena,
Ricco e beato da’ tesori suoi


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— 272 —

Io tornerommi. Lungi sia da lui
Ogni opra rea de' suoi nemici! Intanto,
Ricordimi tal libro al mio signore,
Perchè del faticar mio la semenza
Venga frutti a recar. Deh! in sempiterno
Incolume si resti e il serto e il trono
Di tal sovrano, incolume si resti
La sua fortuna, più del sol cospicua!
Del villaggio il signor savio ed antico
Sen va dicendo: « È sapienza all’ uomo
Aiutatrice. D'uopo è in terra e gioia
E doglia sopportar, gustar qui è d'uopo
L'amaro e il torbo ancor. Nè i giovinetti
Che han sapienza ed inclito lignaggio,
Acquistansi virtù senza lor prove ».

XLV. Incontro di Khusrev e di Shîrîna.

(Ed. Calc. p. 1999-2001).

Quando giovane ancor, senza rimprocci,
Era Perviìz, vivente il padre ancora,
Fanciullo pari ad un eroe, in terra
Qual dolce amica sua Shirina egli ebbe.
Ell’era sì per lui quale degli occhi
La fulgida pupilla, e cara a lui
Non era in terra, fuor di lei, nessuna
Fra tante belle e tante figlie date
Nelle sue notti a lui. Ma poi che sire
Del mondo egli si fe’, per alcun tempo
Diviso ei stette da Shirina e attorno
Andò pel mondo senza posa e quiete,
Chè l’opre sue contrasti erano e pugne
Con Behràm battaglier. Poi che disciolto
Così ne andava dall’amor di lei



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— 273 —

Prence Khusrèv per lungo tempo, in lagrime

E notte e giorno si vivea la bella.
Avvenne sì che di cacciar desio

Prence Perviz ebbesi un giorno, e allora

Ei la caccia apprestò qual fu costume

De' re dei re che pria di lui nel mondo

Avean dominio. Con dorate briglie

Trecento a re Khusrèv d’inclito nome

Furono addotti palafreni, e andavano

A piè con lui, con giavellotti in pugno,

Mille e cento sessanta paggi suoi.

Mille e quaranta avean lucenti spade

E broccati di sopra ed aspre maglie

Sotto a’ broccati. Settecento poi

Falconieri accorrean, con falchi in pugno

E civette e sparvieri, e dietro ancora

Venian trecento cavalieri, e dietro

A’ guardiani de’ falconi i veltri

Chi reggea col guinzaglio. Anche vedevi

Settanta in ceppi nobili leoni

E leopardi, entro a broccati avvolti

Tessuti in Cina. Istrutti a regal caccia

Eran leoni e leopardi e avvinte

Le fauci avean con musoliere d'oro.

Con monili dorati eranvi ancora

Ottocento segugi, ei che alla corsa

Raggiugnean pel deserto le gazzelle,

E, dietro a quelli, musici venièno,

Duemila, per quel di sacro alla caccia

Composti in pria fieri concenti. Sotto

Un cammello s’avea ciascun de’ musici,

Postasi in capo fulgida corona

D'oro lucente. E v’erano di seggi

Carchi e di tende e di recinti ancora,

Di padiglioni ancor, di beveraggi

Per i giumenti, cinquecento in mostra




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Forti cammelli; chè apprestati il sire

A ciò appunto gli avea. Ma giovinetti

Dugento pagzi, con bracieri ardenti,

Aloè vi abbruciavano e odorosa

Ambra con esso, e cento garzoncelli

E cento ancor tra i servi ampi a le mani

Avean fasci di vividi narcisi

E zafferano, e precedeano andando

Perchè fragranza degli eletti fiori,

Com'ei venisse, fino al re giungesse:

Ma innanzi a questi dai soavi odori,

Venian con otri cento schiavi intenti

Pure l’acque a recar. L'acqua ei spargeano

Lungo l'ampio sentier, sì che ben detto

Avresti allora ch'ei spargean su bionda

Ambra un’acqua di rose, onde improvvisa

Non levasse la polvere con impeto

Il turbo aquilonar, contro a quel sire

Di nobil nascimento ad avventaria.

Ma, come prenci o re, seicento vaghi

Giovinetti a cavallo accanto all’inclito

Signor venìan, tutti con violette

E rosse vesti e gialle, e il re de' regi

Avea di Kàveh il sacro drappo. Innanzi

Egli venia con orecchini e serto,

Con una veste imperial, tessuta

In fulgid'or, con un dorato cinto,

Con braccialetti e con monili, infissa

Del cinto ad ogni nodo ampia una gemma.
Shirina, come udia venir la schiera

D'Irania, precedente a quella schiera,

Signor del mondo, il re, di color giallo

E di muschio odorosa una si cinse

Ampia tunica sua, si tinse il volto

D'un bel color di melagrana, e sopra

Alla tunica sua ritinto in rosso


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— 275 —

Cinse un greco broccato. Erano a gemme

I fregi suoi, ma d’oro il fondo. In capo

Ella si pose una regal corona

Di cui le gemme che l’ornavan tutta,

Eran sì degne d’un eroe. Da quella

Gioconda stanza sua venne a un terrazzo,

Ma lieta ella non già, ben che ne’ giorni

Di giovinezza, si mostrava. Quivi

Ella restò fin che Khusrèv giugnea,

E per le gote da le fosche ciglia

Le discendean le lagrime. Quel volto

Del suo signor com'ella vide, in piedi

Ratta levossi ed a Perviz la sua

Alta persona fe’ veder. Con dolci

Parole allora a favellar la lingua

Addusse e ricordò quel tempo antico

E per gli occhi irrigò le porporine

Rose del volto. Mesti gli occhi suoi,

Ma vivide le rose, ed ella intanto,

Di sua beltà nello splendor, nel suo

Costume onesto, rapida la lingua

In quel sermon pehlèvico disciolse

E disse: Oh! mio signor, leon gagliardo,

Che hai di sire l'aspetto e se’ felice

Querrier fra l’armi, eroe che in fiero assalto

Leoni atterri, ov’è l'amor tuo grande

E dove son le lagrime cocenti

A cui soltanto era valevol cura

Di Shirina l'aspetto? Ov'è il costume

Le notti in giorno di mutar, allora

Che il core e gli occhi eran piangenti e il labbro

Sorridere parea? Dov'è l'amore,

Dove il patto di noi, dove la nostra

Impromessa e la fede e il giuramento?
Così parlando, giù dagli occhi mesti

Versava un pianto su le vesti sue


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— 276 —

Tinte d’azzurro. Come giunse il pianto
Fino agli orecchi di Khusrèv, gli sguardi
Ei levò un cotal poco e di Shirina
Scorse le gote rubiconde. Oh! allora
Per lei negli occhi suoi lagrime addusse
Prence Khusrèv e impallidi nel volto
Qual è talvolta questo sole in cielo!

Con auree briglie un suo destrier mandando
E quaranta di Grecia incliti eunuchi
Perchè nel gineceo d'or splendiente
Recassero colei, là ne la reggia

Di gemme ornata, di sua caccia al loco
Indi sen venne, là ’ve falchi e veltri
All’uopo gli venian. Poi che sua parte
Di suo sollazzo egli ebbesi nel monte,
I:gli ebbesi nel campo, in molta gioia
Alla città si ritornò. Festivi

Per la città, per l'ampia via, fur posti
Gli apparati dovunque, or che tornava
Dalla pianura de le cacce sue

L'iranio sire; e al clangor de le tube,
De le voci al concento, ecco! parea
Che al fiero suon tutto quest'ampio cielo
Si confondesse. Con la sua statura,

Alta e degna di re, nel suo palagio
Entrò dalla città quel re sovrano,

E Shirina venia dal gineceo

Ad incontrarlo. Ambe le mani e il piede
E il capo gli baciò, quando in tal guisa
Al sacerdote re Khusrèv si volse:

Per noi non aver tu, fuor che di bene,
Alcun pensier. Questa leggiadra donna
Voi concedete a re Khusrèv, la lieta
Novella al mondo ne bandite omai.

— Qual degli antichi era costume, lei
Così richiese il re sovrano; tali
Erano da que’ dì costumi e leggi.



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— 277 —

XLVI. Consigli dei principi.

(Ed. Calc. p. 2001-2003).

Come novella per sua via giugnea
Di re Khusrèv appo que’ prenci illustri,
Appo la gente, quando intese ognuno
Che di Khusrèv nel gineceo Shirìna
Già soggiornava, dell’antico tempo
Rinnovando così stato nel mondo,
Tutta l’ampia città del tristo fatto
Andò crucciosa e pieno di cordoglio
. Ciascun mostrossi e di pensieri, e biasmi
Ebbesi acerbi contro al re sovrano.
Per tre giorni appo il re già non andaro
I prenci tutti, e al quarto dì, nell’ora
Che in ciel risplende questo sol, del mondo
Inclita luce, re Khusrèv mandava
I prenci ad invitar. Li volle assisì
A’ lor seggi d’onor, poi fe’ parole :

Voi non vid'io per molti giorni e tristo
E dolente ne andai. Sì mi corruccio
Di vostra offesa per timor; pensieri
Per cagion vostra m'affollano il core.

Così disse e nessun gli rispondea,
Ma la lingua ciascun dal far parole
Frenava intanto, e quei che ira e corruccio
Avean contro a Khusrèv, gli occhi teneano
Al sacerdote. Come ciò pur vide
Il sacerdote, in piè levossi e disse:

Giusto signor, di gioventù nei giorni
Principe fosti e male e ben toccasti
Dalla fortuna. Assai di male udisti,
Assai di bene ancor per l'ampia terra


<pb n="8.278"/>
— 278 —

Di monarchi dell’opre e delle imprese

De' principi d'un dì, chè veramente,

Poi che de' grandi si corruppe il seme,

Di tal semenza la grandezza ancora

Macchia si tocca. Sappi tu che mai

Bennato figlio la sua man distese

Contro al sangue del padre. Ove la madre

Ne contamini il seme, ella il suo figlio, ©

Per cotal vitupero, e tristo e gramo

Sempre farà, come Dahàk feroce,

Arabo prence, che fe’ morto il padre,

Per cui grave incogliea Gemshid antico

Danno e sventura, come fu quel greco

Sikendèr che versò di Dàra il sangue

E contro a noi di guerre e di battaglie

Sì gran fuoco accendea. Pure, ei chiamava

Fratel del padre suo Dàra imperante

Cui figlio suo dicea veracemente

Faylakùs regnator. Se genuino

Erane il padre, ma la madre impura,

Sappi che genuina unqua non venne

Da lei la prole. Mai non cerca alcuno

Nella menzogna il ver, s'anche del vero

L'ampia manica sua colma si porta.

Ma il nostro core or si attristò per quello

Audace Devo che compagno al nostro

Inclito re si fea, come se donna,

Fuor di Shirìna, in Irania non fosse

A cui Khusrèv benedicesse. Quando

Là dentro a’ ginecei non fosse accolta

Shirina, ovunque alto s'avria splendore

Il volto di Khusrèv. Ma gli avi tuoi,

In sapienza giusti, alcun ricordo

Non ebbero di ciò che or qui si narra.
Ben che lunghi su ciò del sacerdote

Fossero i detti, il re dei re non dava



<pb n="8.279"/>
— 279 —

Risposta alcuna. All’alba di domani,

Il sacerdote disse allor, verremo

A questa reggia tutti insiem, chè forse
Dal prence nostro avrem risposta. Lungo
Oggi fu invero ogni sermon di noi.

Al dì vegnente, all’alba ei si levarno,
Omaggio al prence lor tutti apprestando,
E alcun dicea: Cotesto oh! già non era
Da dirsi al re! — L'altro dicea: Congiunto
Fu a prudenza quel detto. — E il terzo ancora,
Oggi, dicea, darà risposta il prence,

Chè ben s’addice a lui nobile un detto
Aggiungere a cotesto. — E preser via

I sacerdoti e con solenne incesso

Entràr dal prence. Elessero que’ grandi
Luoghi a sedersi, e tal sen venne intanto
Con una coppa nella man. Qual sole
Che alto risplende, tersa era la coppa,
Quale innanzi passava ad uno ad uno
De’ sacerdoti. Caldo sangue, allora,

Allor versato, dentro era alla coppa,

E quei la deponea, là, dolcemente,

Poi che più presso ei fu. Da quella coppa
Ognun la faccia a dietro volse e tutti
Confusi detti mormoràr. Ma intanto
Prence Khusrèv gli sguardi suoi volgea
Sovra ciascuno, ed eran costernati

Tutti per tema di quel re. Che dunque
È cotal sangue? a’ prenci Irani ei disse,
E perchè posto innanzi a me? — Rispose
Il sacerdote: Egli è un impuro sangue
Onde chi "1 vide si fa tristo in suo
Pensiero e malo. — Come ciò fu detto
Dal sacerdote, altri levò la coppa

E ciascun la passò dall’una all'altra

Man degli astanti. Ma dal sangue impuro


<pb n="8.280"/>
— 280 —

Il prezioso vaso altri frattanto

A mondar s'affrettava e con arena

E con acqua lavavalo. Splendente

Poi che fu resa e nitida la coppa
Infetta in pria, chi la lavò, d'un vino
Colma la fece e sopra anche vi sparse
Muschio odoroso ed essenza di rose,
E quella risplendè come risplende
Quest’'almo sole. Così disse allora
Prence Khusrèv al sacerdote: Oh vedi!
Ben altra a riguardar si fe’ la coppa!

E il sacerdote rispondea: Deh! vivi
Beato, o sire, chè dal mal di pria
Gran bene si mostrò! Per tuo comando
Uscì d'inferno un paradiso e buona
Opra uscì dalla trista e scellerata!

Qual’era questa coppa insulsa e colma
D'atro veleno, re Khusrèv soggiunse,
Tale Shirina in mia città. Ma ratto
Nei nostri ginecei qual coppa è dessa
Colma di vino, e per fragranza nostra
Soavi sparge sue fragranze. Un tempo
Di tristo nome fu per noi Shirina;

Non però si cercò giammai favore
Da’ prenci attorno. — A lui benedizioni
I principi gridàr così dicendo:

Senza la tua corona e senza il trono
Mai non resti la terra. Ecco! s'accresce
Per quel che buono fai, bontà pur sempre,
Grande in terra si fa qual tu fai grande,
Chè principe tu sei e sacerdote
E sapiente, quasi in terra sei
Di Dio la stessa maestà sovrana.


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— 281 —

XLVII. Morte di Maria.

(Ed. Calc. p. 2008-2004).

Indi più assai del principe d'Irania
Grandezza crebbe, e come sol divenne
Ciò che a pallida luna era simile.
Del greco Imperator sempre egli stava,
Ad ogni giorno, con la figlia, ed ella
Di lui nel gineceo veracemente
Vivea regina. Ma in dolor si stava
Shirina intanto per Maria, le gote
Pallide per invidia ella si avea
— Pur sempre, onde un veleno alfine alfine
Mortal le porse e la leegiadra figlia
Di sangue imperial migrò dal mondo.

Niun però di quel tratto infido e reo
S'ebbe contezza, chè celò Shirina

L'alto secreto e ciò bastò. Ma ratto

Che anno trascorse da quel dì che estinta
Maria si giacque, il gineceo dorato

A Shirina affidò l'iranio prence.

Poi che otto di Shirùy, regio garzone,
Ed otto ancor fùr gli anni, in sua statura
Gli anni trenta parea ch'ei superasse,

E il padre suo di saggi gli assegnava
Ampia una scorta, per che ricco e ornato
Di pregi ei fosse e di gran nome in terra,
E il sacerdote il custodia con gioia,

Per comando del re, la notte e il giorno.

E avvenne un dì che all’alba il sacerdote
Sen venne al prence amico; e allorchè presso
Ei recossi a Shirùy, sempre voglioso
De’ giochi suoi lo vide. Innanzi a luì


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— 282 —

Scoverse un libro, e, su quel libro, scritto
Era Kala, ma del reo garzone

Arida stava nella man sinistra

Una zampa di lupo un dì recisa,

Ed un corno divelto al capo eretto

D’un bufalo ei stringea nella man dritta,
E questo contro quella egli battea

Qual più gli attalentava. Il sacerdote

Ben si dolse nel cor dell’opra trista

E frivola e del gioco, e augurio malo

Sì gli parve del lupo la recisa

Zampa e il corno del bufalo e l'intento
Di quel fiero garzon. Molto ei si dolse
Dell’opere del fato e del riottoso
Fanciullo assai che avea fortuna avversa,
Chè visto egli n’avea del dì natale
L'oroscopo e richiesto anche n'avea

Il tesorier del sire e il suo ministro.

Dei sacerdoti al pontefice allora
Andando, ei sì dicea: Congiunta è ognora
Al prence garzoncel voglia di giochi.

E il sacerdote rapido ne andava
Questo a ridire al prence iranio. Allora
Guardava intento re Khusrèv a questo
Riottoso figlio suo, sì che le gote
Già rubiconde gli si feano smorte
In tanta cura, chè di doglia pieno
Egli era sì per l'opere del fato,

Degli astrologi ancor per le parole
Pieno d’affanno era quel cor, trafitti

I precordi del sire. Oh! come mai,
Dicea sovente, in questo stato mio
Mostrerammi la faccia il Re del cielo?

Come del regno suo venti trascorsi
Furono gli anni e tre, levò Shirùy
La cervice superba. Aveane cruccio



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— 283 —

Il nobile signor d'Irania allora,

Chè feroce crescea l’aspro garzone,

Al suo desire non conforme. Tosto
L'anima sua, sì lieta in pria, di doglia
Andava piena, ond'egli al burbanzoso

Fe’ di sue stanze un carcere e con lui
Posevi ad abitar quei che fratello

Gli era di latte, di cui pregio e stima
Dinanzi agli occhi suoi si feano oscuri,

E quelli ancor, congiunti d'amicizia

Col tristo figlio suo, che a lui n'andavano
Consigli a dimandar. Di questi il novero
Presero allora, e fuor ne venne computo
Per piccioli e per grandi anche più assai
Di fanciulli tremila. Eran lor case
Congiunte insiem con varchi alterni, e quivi
In carcer si restò con gli altri tutti
Shirùy superbo. Vesti e cibi in copia,
Cose ancor da donarsi, anche tappeti,

In lor stanze apprestàr, vollero ancelle

E schiavi e paggi, e il nobile signore
Vino mandovvi e musici, e monete

Eran senza confin per l’alte case.
Davver! che il tempo a' giovani superbi
Scorrea nel gaudio e la copia de' cibi,
Sotto la guardia di quaranta prodi.

XLUVIII. Costruzione del trono detto TAkK-dîs.

(Ed. Calc. p. 2004-2008).

Ed or, dopo un'istoria, altra ci narra
Gioconda istoria, a quel narrar conforme
De’ saggi che un sol cor, sola una lingua
Vantavano, e favellaci del trono


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_ 284 —

Che tu appelli Tak-dìs, qual nell’ippodromo

Perviz prence fondò. Cominciamento

Fu a quello per Dahàk, impuro e tristo

Qual visse un dì. Nel tempo che venia

Fredùn guerriero e del dominio il nome

Agli Arabi togliea, sulla montagna

Del Demavènd un uom traea sua vita,

Quale il nobil signor tra la compatta

Folla ratto scoverse. Era il suo nome

Gihn di Berzin, e la sua voglia in tutti

Lochi venia compiuta. Ora, costui

Inclito un seggio fe' a quel re sovrano

E gemma sovra gemma anche vi appose,

Sì che prence Fredùn ne andava lieto,

Ratto che il trono prezioso e vago

Gli fu piacente. Trentamila ei diede

A Gihn industre fulgide monete,

Orecchini pur anco e una corona

Di fulgid’or, scrissegli ancor l’editto

E di Sàri e d'Amòl; del regio editto

Qual paradiso in ciel splendido il lembo.
Ma nel tempo che Irania egli assegnava

Al garzoncello Eràg’, quale de’ suoi

Nobili infanti era il minor, tre cose

Fredùn monarca d’Irania a l'impero

Aggiunse in più, quel trono e quella sua

Dal capo di giovenca orrida clava,

Che monumento fu di lui nel mondo,

Terza la gemma ch'ei chiamar solea

Di Selte fonti col bel nome, ei giusto

E verace signor. Poi che moria

Principe Eràg'’, rimasero di lui

Queste tre cose e ne andò lieto ancora

Principe Minocìihr. Chi poi si cinse

La corona regal, cose novelle

Sempre aggiunse a quel trono, e quando venne


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— 285 —

A re Khusrèv di nobile fortuna,

Di quel trono l'altezza ei crebbe assai.
Così a Lohràspe si scendea, si venne
Così a Gushtàspe. Ma Gushtàsp che vide
Il regal seggio, così disse: L’opra

De' prischi re non celisi da noi!

Indi quell’uom di nobil pregio all’ inclito
Giamàsp si volse e così disse: Quale
Cosa aggiunger puoi tu? Vedi qual vuoi
Cosa aggiugnervi ancora, onde qualcuno
Ci lodi poi dopo la morte nostra.

Poi che Giamàspe riguardò tal seggio
E la chiave ne scorse per il suo
Alto saper, del ciel sublime i computi
Sovra vi pinse e il come e il quando ancora
E lo perchè. Del sire per comando
Sovra l'inclito seggio i segni ei pose,

Da Saturno scendendo a questa luna.

Così fu che sen venne in finu al tempo
Di Sikendèr, e qual de' re vedea
L'inclito seggio, un ornamento ancora
Aggiugneavi, con argento e con avorio,
Con ebano e con or. Ma in brani il fece
Principe Sikendèr che ignaro e stolto
L'opera stolta fe’ d’un tratto. Allora,
Molti frammenti di quel trono illustre
I principi celàr, di mano in mano
Passaronli pur anco; e fu cotesto
D'Ardeshir fino al tempo, allor che vieto
E sceso nell’obblio pur anco il nome
Era del trono. In alcun loco ei nullo
Vestigio ne trovò, sì che si volse
Nel suo desire ad altra parte e molto
Intanto fece; non però gli venne
Frutto, qual s’'addicea, da l’opra sua,
Ned ei vide letizia. Ei si moria,


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—_ 286 —

Morì frattanto, e rimaneagli dietro
L’inclito seggio, poichè l'alta voglia

Del dominar vid'ei compiuta. E quando,
Invitto re, Khusrèv salì sul trono

E i prenci tutti con benigna voglia .
Furongli amici, ei di quel seggio illustre
E imperial fecer parole seco,

Tutti narrando i già trascorsi casi.
Prenci, disse Pervìz, da’ servi miei
Una grazia chiegg’io, perchè quel trono

Inclito e grande i’ rinnovelli e faccia
Dei re d’un tempo nobile ricordo
Quaggiù per esso. La parola scritta
Che Giamàsp di benigna e amica stella
Già fece un giorno, qui m'è d’uopo, allora
Che principe Gushtàsp quest’alto seggio
Si fabbricava, per consiglio e norma

Di Giamàspe avveduto. — E il sacerdote
Sì gli recava la parola scritta,

E principe Khusrèv d'eretta fronte
Andavasi gioioso. Ecco! lo scritto

Poi che rinvenne re Khusrèv, con gioia
Affrettossi a rifar l'antico seggio,

E il trono d'Ardeshìr, monarca illustre,
Colà si addusse e là menò d'Irania
Quanti ingegno s'avean pronto ed acuto.
L'antico seggio, de’ monarchi degno,
Ricomposero allor ne’ dì felici

Di questo re d’invitta sorte, e vennero
Di Cina allora e vennero di Grecia

I legnaioli, da Bagdàd pur anco,

Da suol d'Irania e da Mekràn. Maestri
Erano mille e cento e venti, a cui
Stava in mente pensier di far quel seggio,
E discepoli ognun trenta s'avea

Di Grecia è di Bagdàd, anche di Persia.


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— 287 —

E comandò che sol per breve tempo
Riposasser da l’opra, in anni due
Adducendola al fin. Come fu eretto
L'alto seggio regal, della fortuna
Inclita e grande di tal re sovrano
Il volto risplendè. L’altezza sua
Cento cubiti regi, a cui di sopra
Settanta ancor ne aggiungerai; ma cento
Cubiti e venti era l'ampiezza, intanto
Che questa dell'altezza era minore.

Ma d'ogni mese ai trenta dì, nell'ora
Del primo albor, tappeto si vedea
D'un'altra foggia su quel trono. Ed era
In dieci parti di Perviz il seggio,

E luce era del dì pel mondo intero
Del trono suo la maestà. Vi pose
Centoquarantamila fregi attorno

In fulgid’or, con nobili figure

Tutte a turchesi sovra l’oro, e tutti

I gheroni ed i chiovi eran d’argento
Puro, non fuso, e ciascun d’essi avea
Di sessanta e sei libbre il peso grave.

Ma quando il sol nell’Ariète avea
Posta sua lampa, squallido deserto
Era da sezzo al regal trono e in faccia
Eran orti e giardini. Allor che il sole
Splendea fra gli astri del Leon, del trono
.Era il tergo rivolto al sol cocente;
Quando poi sorvenia tempo del mese
Che nomasi di Tir, quando giugnea
Stagion de' frutti e di gioconde feste,
A’ frutti si volgea l’inclito seggio
Ed a’ giardini, perchè odor soave

Ei toccasse de’ frutti. E all’invernale
Stagion, nel tempo che son piogge e venti,
Niun sovra il trono si vedea cruccioso,


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Chè veli a’ baldacchini erano appesi

Intorno intorno e di seta e di pelli

Di zibellino, qual è pur costume

Di nobile signor, chè mille globi

D'oro e d'argento fean scaldar nel fuoco

De le vesti regali i guardiani,

Ciascun di libbre cinquecento. Al fuoco

Rossi venian come corallo i globi,

E metà stava d'essi al fuoco ardente,

Stava l’altra metà dinanzi a' prodi.
Eran dipinti su quel trono illustre

Dodici del zodiaco i segni chiari,

Sette i pianeti e la splendida luna

Con la costellazione in ch'ella gia,

E gli astrologi intenti con esperti

Gli occhi vedean le stelle erranti in esso,

Le fisse ancor; vedean qual de la notte

Fosse parte trascorsa e per qual tratto

Sovra la terra questo ciel rotante

Volto si fosse. Ma dipinti in auro

Alquanti seggi eran sul trono ancora,

Deh! quanto adorni di lucenti gemme!

Davver! che de le gemme, anche se molta

Scienza avesse alcun, niuno sapea

Il novero formar! Qual de le gemme

Avea prezzo minor, valea dintorno

A denari settanta, e molte ancora

I settecento ne vincean ; da questi

Norma tu prendi al meno e al più. Rubini

V'erano ancora d’un bel rosso, e prezzo

Non uno in terra ne sapea, non certo

Computarne il valor, non la natura;

Ma per essi a la notte il tetro volto

Si fea lucente come l'astro è chiaro

Di Venere su in ciel ne’ tardi vespri.
Appo il trono regal tre seggi adunque


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_ 289 —

Eran sovra i gradini, e que' gradini

Di gemme preziose eran fregiati

A sommo; quattro da l’un seggio all’altro
I gradini, e ciascun d'oro splendea

E di gemme. Un de' troni aveasi nome
Di Capi di monton, chè di montoni

Gli sculti capi l'adornavan tutto;

L'altro Seren di ciel qual lapislazzuli
Era chiamato, ove bufera e polvere

Nol turbavan giammai. Era in turchesi
Tutto il terzo composto, e chi "1 vedea,
Caldo nel petto il cor sentia. Qual fosse
O capo di villaggi o al re soggetto,

De’ Capi di montoni al loco illustre
Avea suo seggio; sotto a quella volta

Di Sereno di ciel stavano ì prodi
Cavalieri che in cor, dell’armi al giorno,
Timor non hanno, ed al ministro il loco
Era là da' turchesi, a lui che molte
Aveasi cure in governar. Se alcuno

Su quel trono sedea tutto a turchesi,
Certo era segno che avveduto egli era
E fedele al suo sire inclito e grande.
Ma d’oro intesto un fulgido tappeto
Gittato è su quel trono; e n'è l'altezza
Di cinquansette cubiti, le frange
Composte a gemme, splendienti i villi
D'oro all’intorno, e sopra manifesti
Erano i segni di quest’ampio cielo,
Marte e Saturno e la candida luna

E il sol fiammante e Venere e Mercurio
E de la luna splendida gl'indizi

Allor ch'ella rivela a’ prenci e a' regi

E il bene e il mal. V'eran dipinti ancora
I sette climi de la terra, e l'opre

De' capi de’ villaggi, e degli eroi




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— 290 —

L'aspre tenzoni. Immagini pur anco

Di quaransette re v'eran dipinte

Con trono e serto. In auro ecco è trapunta
De’ re dei regi la corona. Oh! in terra
Non fu giammai drappo simil! Ma in Cina
Era un uom senza pari, egli in sett'anni
Tessè quel drappo, e dell'anno novello

Al cominciar, di Ferverdìn nel mese

E nel giorno d’Hormùzd, venne al signore
Dell'iranica terra e quel regale !
Drappo recògli. Diedero l'accesso |
Ratto i principi a lui, sì ch'egli il drappo
Al primo giorno dispiegò dell'anno,
Allontanato ogni desìo da lui

Per la molta letizia. Una gran festa
Fecero allor pel nobile tessuto

E chieser vino e musici e cantori.

XLIX. Avventura del cantore BArbed.

(Ed. Calo. p. 2008-2010).

Era allora un cantor, Serkìsh il nome,
Per l’arte musical beato e lieto.
Serkìsh del re dei re fea lodi in musica
E fea voti per lui; gemme gittavangli
I grandi tutti, chè il dicean puranco
Della grandezza imperial preclaro
Onore e gloria. Ma ogni dì più assai
Grande si fea Khusrèv monarca, e allora
Che fu d'anni ventotto il regno suo,
Nessuno in terra su le porte regie
Opre triste incontrava. Anche novella
Giunse a Barbéd cantor di quella sua
Inclita reggia, chè ciascun gli disse:

Un cantor si trascelse il re del mondo


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Secretamente. Ma se a te di contro
Qualcun lo pone, te faranno al capo
Del musico Serkish nobile serto.
In Barbèd che ciò intese, arse desio
Ben che bisogno nol toccasse mai
Di cosa alcuna; e tosto egli da’ campi
Venne alla reggia de l'iranio siro
I musici a guardar. Ma come udialo
Serkish a modular note soavi,
Torbido il core gli si fe’, turbato
Fi sì n’andò per la cadenza e il ritmo
Di quel cantar, sì che ne venne ratto
Al maggiordomo de l’iranio sire
E molte gli gittò monete innanzi
D'argento e d'or. Sul limitar del prence,
Disse, un cantor si sta, che assai mi vince
D'anni e di pregi. Ch'ei del re sovrano
Vada al cospetto, non si vuol, chè noi
Vecchi qui siamo, ed egli or or venia.
Della porta del sire il guardiano,
Poi che cotesto da Serkish intese,
Al novello cantor subitamente
Chiuse la via. Quando Barbèd giugnea
Nel suo cospetto, la faccenda sua
Mal procedea, tristo il suo carco e gramo.
Quand'ei tornossi orbo di speme e tristo
Da l'ostello regal, venne del sire
Ad un giardin col suo liuto. Nome
Era Mardùy del giardiniero, e tosto
Gioì Barbèd in rimirarlo. Il prence
Dell'anno al cominciar scender soleva
A quel giardino e di festa in quel loco
Due settimane si tenea. Sen venne
Così ratto a Mardùy Barbèd cantore
E con lui s’accordò nel cor, nell'alma,
Per que' giorni. Egli disse al giardiniero:




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— 292 —

Davver! diresti che tu l’alma sei,
Ch'io sono il corpo! Ed ora un mio desire
Da te mi chieggo, qual è pur leggiera
Cosa appo te. Quando il signor del mondo
A’ tuoi giardini scenderà, tu m’apri
Un varco almen perch’io nascosto il vegga.
Quando il sire ha una festa, oh! potess'io
Nascostamente rimirarne il volto!
Questo farò, Mardùy rispose, tosto
Per l'amor tuo scacciando ogni sospetto.
Il cor del giardinier sì come face
Per la gioia rifulse allor che a scendere
S'apprestò il sire a quel giardino. Ei venne:
A Barbèd e gridò: Già già discende
Di festa al loco re Khusrèv. — Cingea
Verdi allora le vesti il gran cantore
Ed un liuto si togliea con canti
Di tenzoni e di pugne, indi venia
Al loco ove scendea Khusrèv regnante,
Chè novello era sempre ad ugni nova
Stagion dell’anno il loco suo. Sorgeva
Un bel cipresso là d'accanto, verde,
Con spesse frondi, folti i rami suoi
Com'era folta la battaglia orrenda
Nel campo di Peshèn. Col suo liuto
Raccolto in grembo, l'agile cipresso
Barbèd salla, restavasi a quel loco
Per alcun tempo fin che il re giugnea.
Dall'ostello regal discese alfine
A quel loco di festa il maggior prence
E il giardinier gli apprestò il loco. Venne
Un garzoncello a versar vin, dal volto
Leggiadro di Perì, ponendo in mano
All’iranio signor colma di vino
Un'ampia coppa, e l’inclito signore
Dal garzoncel prendeasi il vino. Il nitido


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— 293 —

Cristallo disparia sotto al licore
Che rosseggiava dentro; e allor che il sole
Impallidi nel ciel, sempre attendendo
Fin che la notte si fe’ oscura, un canto
Incominciò su l’alto del cipresso
Il nobil cantor, composto un inno,
Degno di re. Cantava una gioconda
Istoria su quell’albero vetusto,.
Sì che all’intorno attonito restava
Ogn’uom di vigil sorte; ei modulava
Con accento soave un canto suo
Quale or tu chiami di giustizia il stre.
Tutti stupian meravigliando, e ognuno
Opinion diversa sì prendea,
Ma Serkish per quell’inno iva di mente
Subitamente fuor, ch’ei ben sapea
Di chi fosse la voce e però tacque,
Chè tal tocco di mano e tal canzone
Eroica da que’ dì, fuor che il gentile
Barbèd, non seppe alcun. Fe' cenno il sire
A’ prenci tutti e così disse: Voi
Deh! ricercate in ogni suo confine
Questo loco di festa. — E quelli assai
Cercavano pel loco e ritornavansi,
‘Tornavansi a Khusrèv rapidamente.
Avveduto Serkish parola prese
E disse: Per la sorte di tal prence,
Meraviglia non è se a lui cantori
Si fan cipressi e rose. Eterna resti
L'inclita fronte sua, la sua corona!
Un altro nappo di gagliardo vino
Recò al prence il coppier. Tosto che preso
L'ebbe l'inclito re da quel leggiadro
Suo garzoncello, in altra foggia un suono
Il musico apprestò, repente un altro
Canto si prese, qual diceasi un tempo


<pb n="8.294"/>
— 294 —

L'assalto degli ero? (cotesto nome
Davangli allor pel suon de le parole),
E mentr'’ei si cantava, il re l’udia

E quel vin si bevea dietro a le note
Soavi e dolci. Disse allor: Deh! tosto
Qui recate colui, tutto il giardino
Scompigliando a l’intorno. — E quelli assaè
Del giardin ricercando ogni confine,
Recaron lampe agli alberi di sotto,
Ma nulla rinvenìan, ben riguardando,
Fuor che salci e cipressi e tra le rose
Fagiani che correan con fiero incesso.

Altra si chiese il re dei re una coppa
E la fronte levò diritta e intenta
Di Barbèd al cantar. Così levossi
Altra fiata un echeggiar di canto,

E quegli in foggia anche diversa fece
Nobil canzone che Verde sul verde

Ora suoli appellar, con che la gente
Incantesmi compone. Allor che intese
Prence Pervìz, in piè levossi e un nappo
Chiese di vin qual bevesi nel gaudio

In un giardin di rose. Era una libbra

Di puro vino entro quel nappo, e il sire
In un sel fiato il purissimo vino

Bevvesi allora. Così disse poi:

Se un angelo si fosse, egli di muschio
Sarìa formato e d'ambra pura. Un Devo.
S'ei fosse, non diria questi suoi canti,
Nè tocco egli sapria di cotal suono.

Ma voi frattanto pel giardin cercate
Ov'egli sia, da dritta e da sinistra

Gli orti e i roseti investigando, ch'io
La bocca e il grembo di lucenti gemme
Al cantor colmerò, prence farollo

Di quanti pur son qui cantori eletti.


<pb n="8.295"/>
_ 295 —

E il nobile cantor, come la voce
Udì del prence e le parole sue
Consolatrici, giù balzò dai rami
Dell’agile cipresso e innanzi venne
Con molta pace e dignità. Sen venne
E con la fronte il suol toccò; ma intanto
Diceagli re Khusrèv: Dimmi chi sei.

Sire, un tuo servo mi son io, rispose;
Sol per la voce tua nel mondo io vivo.

Indi partitamente e da principio
Ciò che avvenne, ei dicea, chi d’un sol core
E d'un sol corpo fu con lui mostrava;

E il nobil re sì fe’ gioioso a quella
Vista di lui leggiadra, in guisa appunto
D'un giardino di rose a primavera.

A Serkish ei dicea: Deh! tu mal destro
Nell’arti tue, tu se’ qual pianta amara,
Dolce è Barbèd quale un'essenza dolce!
Dimmi tu perchè mai sì "l trattenesti
Da me lontano. Quel suo dolce canto
Forse ti spiacque de la gente accolta,
Qui, nel cospetto. — Così allor bevea
Al canto di Barbèd il vin gagliardo
L’iranio prence ed i ricolmi nappi
Sculti in rubin vuotavane. Per questa
Foggia così, fin che inclinava al sonno
La mente grave, del cantor la bocca
Egli colmò di rilucenti perle,

E detto fu Barbèd sire e sovrano
D'ogni cantor, fra i principi d'Irania
‘Uom si fe' glorioso inclito e celebre.

Ma il giorno che a Barbèd io destinai,
Or giunge al fine. Deh! non sia giammai
Che tristo'amico tu rinvenga in terra!
Anche de’ servi e de’ monarchi il giorno
Trapassa, e l’uom che ha senno, oh! perchè mai


<pb n="8.296"/>
Del dì fugace si dorrà? Passati

Son prenci e schiavi, nè vozl’io destarmi
Poi che spento sarò, dal sonno estremo.
Ogni fiata che a sessanta e sei

Giungon gli anni dell’uom, ch’ei sia bellizero
Più non s’addice. L’inclito mio libro

Fa che soltanto a suo termine giunga,

E tosto del mio nome in ogni parte

Fia ripiena la terra. E poi chio vivo,
D'oggi in avanti non morrò, chè il seme
Della parola intorno sparsi, e ognuno
Che ha fede e senno ed inclito consiglio
Mi loderà dopo ila morte mia.

L. Fondazione di MadaAin.

(Ed. Cale. p. 2011-2014).

Or farò di Madàin detti novelli,
Di Khusrèv dell’ostello io farò un motto.
Un uom di Persia, cor sereno e lieto,
Su cui trent'anni per quattro fiate
Eran trascorsi, così narra, e dice
Che principe Khusrèv sue genti in Grecia
Mandava e in India e in Cina ancora e in ogni
Terra abitata, onde veniano a lui
Di là tremila artefici, chiunque
Inclito fosse nella terra sua
Per arte industre. Da cotesti, quelli
Ch'eran maestri e sapienza in core
Avean dell'opre di mattoni e gesso,
Dugento re Khusrèv trasceglier volle
E d'Irania e d'Ahvaàz e della amena
Terra di Grecia. Ma da questi ancora
Trenta ei scelse animosi e da que’ trenta





<pb n="8.297"/>
— 297 —

Due di Grecia e un di Persia. Anche fra questi
Ch'erano tre, fu scelto un greco (in terra
Pochi gli erano eguali), onde costui,
Abile e sperto, a re Khusréèv si addusse
E fe’ parole d’edifici e d’opre.

Di pregi ricco, geomètra illustre
Era quel greco e in eloquenza assai
Ogn'uom di Persia superava. A lui
L’iranio prence così disse allora:

Togli da me cotesta impresa e in mente
Ciò che dirò, ti serba. Un loco eletto
Vogl'io da te dove i miei figli e tutta
La casa mia, fino a trent'anni ancora,
Stiano abitando, nè in rovina mai
Caggia quel loco per alterne piogge
O per neve o per sol che d'alto splenda.

Dell'’ostello del re l’inclito incarco
Il geomètra allor si tolse e, Questa,
Disse, mi prendo gloriosa impresa.

Così per dieci cubiti regali
L'edificio real profondo ei rese,

Fatta radice e fondamento quella

Di cubiti regali alta misura.

. Eran di sasso, eran di gesso tutte

Le fondamenta di quell’opra, e questo
Fece il maestro perchè stabil fosse.
Dell’inclito palagio allor che ritte
Furon le mura, innanzi al re del mondo
L’artefice ne venne. Ecco! dicea,

Se piace al mio signor, d'uopo è ch’ei mandi
All’edificio mio tal che sia sperto,
Sapiente d’assai, su cui ben molti

Siano gli anni trascorsi, e al re gradilo,
Del ciel con un ministro, amico a lui.

L'uom ch’ei richiese, il nobile sovrano
Ratto assegnògli, e venner essi l'alto


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— 298 —

E dritto muro ad osservar. Ma intanto

Un fil di seta il geomètra innanzi

Recava onde la gente ivi raccolta

Sì l’attorcesse come pur si attorce

Uno spago sottil, poscia da l'alto

Dell’ostello regal l’inclite mura

Fino al suol misurava, alla sua base.

Poi che il filo sì attorto ebbe l'altezza

Misurata alle mura, innanzi a tutta

L'accolta gente, egli ’1 recò al tesoro

Di quel re d'ogni prence e col suggello

Che il tesorier v'appose, a lui fidollo.
Indi sen venne alla real dimora

E disse: Vanno a rasentar la luna

Dell’edificio le pareti. E allora

Che principe Khusrèv cenno mi fesse

L'opra mia d’affrettar, nell'opra mia

Già non andrei sollecito. Quaranta

Giorni son già ch’ei m'affidò l'impresa,

Poi che me tra gli artefici scegliea

L'illustre mio signor. Quando fia tempo

Di compir l’opra del regale albergo,

Pari a le stelle su nel ciel l’altezza

Ne sarà veramente. Oh! ma non vuolsi

Che impazienza tu dimostri in questa

Opera tua regal, crescermi ancora

L'aspra fatica mia non ti si addice.
Deh! perchè mai, Khusrèv gli rispondea,

O malaccorto, sì gran tempo chiesto

Hai tu da me? Già non si vuol che a dietro

Tu ritragga la man dall’opra tua,

Nè si vuol che bisogno abbi più mai

D'oro e d’argento. — E comandò che date

Fossero trentamila al geomètra

Dramme d’argento, perchè mesto in core

Eì non andasse. Ma sapea coluì,


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— 299 —

Artefice veridico ed esperto,
Che biasmo gli faria l’'uom sapiente
Ratto che in elevar l'alto edificio
Affrettato ei si fosse, onde perduto
Di lui sarla l’onor col pane ancora.
Venne la notte e l'artefice sparve,
E fu allor che nessun d'allora in poi
Il rivedea. Ma come udia che ratto
Fuggito era Ferghàn, l'ira concetta
Contro Ferghàn tutta versò d'Irania
Sdegnoso il re su chi l’'annunzio diede.
Ei, che scienza non avea, gridava,
Perchè mai tanto innanzi al mio cospetto
Porse all’oprà la man? — Ma voi quell’opra,
Fe' cenno poscia, ad osservar ne andate,
Entro a oscura prigion tutti gittando
Cotesti Greci. — Ma poi disse: Artefici
Adducetemi intanto e qui recate
Gesso e mattoni ponderosi e sassi.
Cercaron quelli, ma ciascun che vide
L'altere mura, sparve repentino
Del prence iranio dalla terra, ond’ei
Nella distretta sua la man ritrasse
Da l’inclit’opra e volse intento il core
Alla terra d'Ahvàz, perchè da quella
Città lontana artefici venissero
E per lunga stagion l'opera sua
Non si restasse non compiuta. Ancora
Per anni tre cercavasi un maestro,
Ma niun scoverse artefice che pari,
Come quei, non s'avesse. Oh! molte volte
Di quell’industre fecesi ricordo,
Fin che al quart’anno ei si mostrò. Novella
Recavane a Khusrèv tal ch’era saggio
E vigile pur anco e glorioso.
E tosto il greco, rapido qual nembo,


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— 300 —

Innanzi venne. Oh! colpevol d'assai,

Dissegli il prence, dimmi tu qual cosa

Fu in cotesta opra tua trista ed infida,

Chè lungi ben tu sei da opra leggiadra

E lungi sei dal paradiso. — E il greco

Rispose allor: Se il prence mio mi manda

Con un suo fido, per quell'opra mia

Le scuse gli farò, per quelle scuse

Si parrà manifesto il mio perdono.
Khusrèv mandava, e dal regale ostello

Col fido amico del suo prence uscìa

Il maestro ingegnoso. Ecco! recava

La sua corda sottil di Grecia il savio,

Gente pur anco si adducea con seco,

Indi, poi che dell'opra ebbe con cura

Larghezza e ampiezza misurate, in meno

Sette cubiti egli ebbe, alla sua corda

Ben computati. Appo l’iranio sire

Altri la corda riportava, e quello

Che col maestro per la via discese,

L.e cose tutte al re dicea. Se mai,

Il greco disse, a continuar l’ardita

Opera posto qui mi fossi, o prence,

Non muro in piè, non arciiata volta

Sarìa rimasta, non indizio alcuno

D’essa più mai, ned io rimasto ancora

Su le porte sarei del prence iranio.
Khusréèv intese e disse: Ei parla il vero,

Nè vuolsi già che alcuno il ver nasconda.
Ei liberò quanti erano rinchiusi

In carcer tetro, fossero di tristo

Pensiero e malo, fosser’elli innocui,

Indi al greco donò dieci ricolme

Sportelle di monete, e a’ prigionieri

Molte cose donò. Passò frattanto

Lunga stagion su quell’opera industre,


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— 301 —

Quando n’avea l'iranio prence in core
Necessario un desìo. Come trascorsi
Furon sett’anni, al loco suo si stette
L'edificio compiuto, al nobil prence
Gradito e caro. Molto onor rendette
Al maestro Khusrèv, terra gli diede,
Dramme d'argento e fulgide monete,
E il benedisse. Il nobile castello
Ognun guardava, ed a quel loco illustre,
Dell'anno al primo dì, sallia con pompa
L'iranio prence. Ma nessuno in terra
Edificio cotal vide giammai,
Nè da gente l’udì sperta e famosa
A ricordar. Sospeso era a la volta
Fuso e d'auro un anel; pendea da quello
Una catena corruscante e d'oro,
Su cui, per ogni nodo, erano infisse
Splendide gemme. Quando il re de’ regi
A quel trono venia di bianco avorio,
La sua corona sospendeasi a quella
Catena d’oro; e quand'egli sedea,
Dell’anno al primo dì, su l’alto seggio,
Stavagli accanto il sacerdote, quale
Sorte amica s'avea. Del sacerdote
Stavano sotto i principi co’ grandi
E co' provveditori, e sotto ai prencì
De’ mercanti era il loco e de la gente
Trafficatrice, ivi apprestato. Il loco
De' poverelli era più in basso, a cui
Sol per travaglio e per fatica il vitto
Procacciasi del di. Più in basso ancora
Stavan genti di piè tronche e di mani,
Che misere giaceansi abbandonate
Delle case d'altrui sovra le porte.

Ma venne poi dall’inclito palagio
Alta una voce, sì che al fiero suono


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— 302 —

Si commosse ogni cor: Deh! voi soggetti
Del re sovrano de la terra, il core
Torbido e reo di riserbar non piacciavi,
‘ Non con tristi pensieri. Ognun che miri
A questa altezza del regal palagio,

Tutti vedrà confundersi d'un tratto

I suoi pensieri. Ma più in là del trono
De’ prenci Kay di riguardar vi piaccia,
Annoverando ognun ch’è più meschino
E più in basso di noi. — Da quell’istante
Nelle catene di quel re sovrano

Alcun più non restò, foss'egli reo,
Innocente egli fosse. Il nobil sire

Anche donava a' carcerati suoi

Vesti dal capo al piè, monete e cose
Molte e diverse. E chi per la ciltade
Andavasi tapin, che parte alcuna

In quella gioia non avea dell’anno

Che incominciava, nel regale ostello

Fu addotto di Khusrèv, dono in gran copia
Dato gli fu dj fulgide monete

Dal tesoro del sire. Ecco! di tema

Pieno andavane in cor per tal monarca
Ogni uomo peccator, desti per lui

Si fean d’un tratt dormigliosi e pigri.

Mandava intanto pel regale ostello

Un banditor qual vi giugnea nel tempo
Che ognun ritorna alla sua casa. O prenci
Che alta recate la cervice, ei disse,
Incliti in armi e di natura adorni
Generosa, oh! perchè tanti cercate

E segni e indizi di grandezza in terra?
Pensier si vuol prima dell'opra, incolumi
Perchè voi siate e salvi. E pria si pensi
In ogni impresa, indi si faccia, e il core
D'uom non s'offenda che poco favelli.


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— 303 —

E concepir vuolsi a principio, e poi
Operar vuolsi e d’uom ch'è sapiente,
Udir parole. Ond’è che ben fra voi

Qual è cercate di gagliardo ingegno,
Chè piangere si vuol per chi fortuna
Ebbe nemica. Quei che serba e segue
Legge del nostro re, dorme sicuro

Appo il suo trono; ma chi stende a cose
D'altrui la man, raggiunto all'improvviso
É da disdegno che da noi si muove.

LI. Grandezza e gloria di Khusrev Pervtz.

(Ed. Calc. p. 2014-2015).

Parola or io dirò di quella gloria
Di principe Khusrèv, gli antichi giorni
Intento a rinnovar. Cotal grandezza
Niuno alla terra si ricorda in tanti
Principi e servi. Ma chi legge questo
Libro dei Re, ben vuolsi che di sua
Veste il lembo egli scuota a liberarsi
Da ogni ritegno di quaggiù. M'è bello
Una sentenza ricordar, che il saggio
Approva in core: « Deh! non sia che mai
Tracotante tu sii per la fortuna
Di quaggiù, chè in vigor supera i balsami
Il suo tristo velen. Tu la tua mano
A cupidigie stolte e a stolte brame
D'odio non dar, non far tuo loco eletto
In questa breve stazion del mondo.
Per ogni viandante ell’è dimora
Che breve dura, e tal giunge novello
Mentre tu vi se’ antico. Uno s'avanza,
L'altro sen va, ciascun per breve tempo


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— 304 —
A questa breve stazion s'aggira

E va pascendo; ma nel dì che levasi

Di timballi fragor che la partenza

E indice e intima, va sotterra ancora

Di fortissime belve il capo altero ».

Se da me ascolti di Pervìz l’istoria
Meravigliosa, ben si vuol che in mente
Abbi tu questo, che di tal possanza
E tal grandezza e dignità, di tale
Poter, di tal corona e di cotale
Maestà di gran re, cosa maggiore
Non udrai tu per l'ampia terra mai,
Anche se gente ne richiedi esperta.
D'India e Turania e di Cina e di Grecia
E da ogni terra amena e culta, al chiaro
Lume del giorno e per la notte oscura,
Tributi e offerte recavan le genti
A l’inclito signor. Venìano ancelle
Da ogni casa regal, giovani paggi,

Perle e rubini ed ogni gemma; e intanto
A sue monete e a suo regal tesoro
Confin non era, e per la terra prence
Non si vedea che ugual gli fosse. Ancora
Falchi e sparvieri ed aquile volanti,
Pardi e leoni e alligatori in fonde

Acque nascosti, a suo comando tutti
Obbedendo cedean; l’anima sua

Come il fulgido sol splendeagli in core.

Ma il tesor che in disparte egli ponea,
Primo d’ogni tesor, quale ei raccolse
Da Bulgari e Cinesi e da le genti
Di Grecia e Russia, ebbesi vago nome:
Della sposa il tesor. L'altro era colmo
Di perle di bell’acqua e la sua altezza
Era sì quanto il volo d'una freccia
Alto sospinta; i prenci tutti e gl’incliti


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_ 305 —

Saggi d'Arabia nome aveangli posto

Di Ciel sereno. Ma il tesor che nome

Avea di Carco, non fu visto mai

Da alcuno in terra, in appartato loco

O in pubblico; e il tesor v'era pur anco

Che Lieto si dicea, grande, famoso,

Quale erano a lodar cantori intenti,

Abili e destri. Altro tesor diceasi

Superbo, di cui computo si prese,

Ma stanco ne restò chi computava.

Altro tesor quello si fu di cui

Intendi il nome e che appellar già suoli

Broccato tmperial. L'altro è il tesoro

Inelito d'Afrasyàb, qual mai non fue

In terra o in acqua. Altro tesoro è quello

Che tu Ardente dirai; luce e splendore

Ha per esso la terra intorno intorno.
Ma fra i musici suoi Khusrèv si avea

E Serkìsh e Barbèd, sì che cruccioso

Suo stato mai non si vedea. Ma dodici-

mila fanciulle egli ebbesi ne’ suoi

Dorati ginecei, gioconde e vaghe

Qual gaia primavera. Anche ei vantava

Mille e dugento battaglieri e forti

Elefanti; e diresti che per essi

Loco non era in su la terra. Avea

Quarantamila con seimila ancora

Belligeri destrieri il nobil sire

Là ne’ presepi suoi, di rosso pelo

Diecimila cammelli, e niuno in terra

Tanti ne avea quanto Khusrèv. Ancora

Egli ne avea dodicimila, gravi

Che i carchi gli traean co' palanchini,

Altri ne avea, sessantasei, veloci,

Rapidi al corso. No davver! che niuno

Vide cotesto per la terra; mai




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— 306 —

Non l’udì raccontar da gente antica
Di cose esperta! Mille volte mille
Cavalieri si avea pur anco il sire
Atti a le pugne, ed eran di Turania,
Eran di Cina, eran di Grecia. Ancora
Ei vantava un destrier, bruno qual notte,
Quale nel tempo d’eccitar battaglie
Non si ristava dal balzar. Ancora,
Ancora al gineceo stava Shirina
Adorna e bella, ed i giardini suoi

Si fean per lei più rilucenti e vaghi.

Ma poichè si moria sì gran monarca
Per la man d'uno schiavo, oh! tu nel core
Ansiosa voglia di grandezza mai
Non albergar. Fra l'opere tì scegli
Qual minore ha travagli, ove tu brami
Per tua giustizia aver tua lode. Il male
Trapassa in terra e il bene ancora, e il fato
Ogni nostro alitar va numerando.

Sia che tu tocchi una corona e un seggio
E splendido tesor, sia che pel mondo
Tu cammini nel duol, l'estremo loco

Di te sarà dell'ampia terra il seno

E due gelide pietre. Oh! per la terra
Altro gittar non déi fuor che del bene
La nobile semenza! Anche tu dèi

Da Pervìz regnator prender tua norma,
Chè rimarrai meravigliando allora

Che questo libro leggerai. Quel grande
Pago non fu dell’inclito suo trono,

Del loco mai di sua real grandezza,
Della corona imperial, di quella

Inclita potestà, sì che a rovina
L'irania trasse e la turania terra.


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— 307 —

LII. Rivolta dell’esercito.

(Eà. Calc. p. 2018-2028).

Prence sì giusto si fe’ ingiusto allora,
Ei che gioì dell’opere non giuste
D'ogni suo servo. Si togliea ricchezze
Da ciascun che n’avea, questo battea
Contro cotesto e contro a questo quello
Senza ritegno, onde volgeasi in biasmo
Benedizion d’un tempo. Iniquo lupo
S'era fatto l'’agnel. Sempre novelli
Crucci a sè stesso ei procacciava intanto,
Nè altra voglia ei s'avea fuor che di nuovi
Tesori sempre. E come fu la gente
Senz'acqua e senza cibo e senza forza,
In terra di nemici elli n’andavano
Da Irania bella. Chi peggior toccava
Sorte in Irania, fuor dalla sua terra,
Malgrado suo, sen gia. Ma tal spregiato
£ra a que' tempi, era Guràz il nome,
Da cui gioie e sollazzi e sua quiete
Avea prence Khusrèv. Sempre custode
Egli era del confin che guarda a Grecia,
Avea mente di Devo e ingiusto core
E infausto e reo. Come verso a giustizia
Ingiusto si fe’ il re, primo in Irania
Ei la fronte levò, quando pur anco
Un altro v'era, Farrukhzàd il nome,
Accetto e grato a re Khusrèv. Nessuno
Irne osava al gran re, se pria l'accesso
Farrukhzàd non chiedea. Ma poi che piena
Andò misura dell’iranio sire,
Anche di Farrukhzàd guasto fu il core.


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— 308 —

Figlio d’Azermigàn, venne costui,

Tristo nel volto, mormorando iroso
Contro a’ soggetti, e un sol, d'alma e di core,
Fecesi con Guràz, d'anni più antico,

E da questa contrada a quella terra
Patto secreto con lui fe’. Un'epistola
Scrisse prence Guràz al greco sire

E lui pur anco fe’ malvagio e reo

Nel suo desire. Dissegli: Ti leva

E Irania prendi, ch'io per primo innanzi
A te verrò soccorritor. — L'epistola

Il greco sire poi che lesse, un ampio
Esercito raccolse a far battaglie,

Battè i timpani in bronzo e diè stipendì
E all’estremo confin d’Irania venne
Come bufera che dall'alto scende.

Ma l’iranio signor, come di tanto
Ebbe novella, ben leggiera cosa
La cosa grave computò. S'avvide
Che opera di Guràz era cotesta
Qual disvelata al greco Imperatore,
Avido di contrasti, ebbe colui.

A Guràz fe’ un invito il prence iranio,
E quegli all’arti fu' ricorso e vile
L'epistola regal che il richiamava,

Osò stimar. Costui, d’animo infausto,
Sgomento avea di re Perviz, terrore
Avea de’ prenci e del regale ostello.

Ma il re dei re co' principi e con quanti
Erano duci nell’irania terra,

Si assise allora, e poi che mondo il core
Ebbe con un pensier più intègro e sano,
Molte e d’ogni maniera arti sottili

Andò cercando; e come sorse in lui

Un più chiaro pensier, scrisse un’epistola
A principe Guràz: Grato mi venne



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— 309 —

Quel tuo disegno, e innanzi a' prodi miei
SÌ ti lodai, chè all’opre tue sagace
Un inganno aggiugnesti, onde l'altero
Capo del greco Imperator già tenti
In basso loco di gittar. Ma quando
Questa epistola mia recata avranno
Nel tuo cospetto, la sottil tua mente
Piena fa d’un pensier. Resta fin ch'io
Di qui mi parta. Co’ tuoi prodi allora
Il piede muoverai. Quando da questa
Parte e da quella eserciti saranno,
Desìo del greco Imperator nel mezzo
Andrà cadendo, e noi captivo in terra
D'Irania il menerem, tutti i suoi Greci
Carchi di ceppi qui addurrem pur anco.
Nell’ostello regal scelse un\de' suoi
Quale all'uopo venia, saggio, eloquente,
Sperto d'arte sottil. Dissegli il sire:
Nascostamente questo foglio mio
Con teco apporta, quale è pur costume
D’esplorator. Fa sì che alcun di Grecia
Veder ti possa e in su la via di molte
Cose ti chiegga. E ti farà prigione
Costui, del greco re nella presenza
Per trascinarti o per addurti innanzi
Del greco stuolo ad un de' capi. Allora
Quei chiederà: « Donde sei tu? Favella! ».
E dirai tu: «Son io tapino un servo
Che l'arte sua va procacciando. Questa
Grave fatica sopportai, correndo
La via lontana, e per Guràz un foglio
Porto con me ». Tu avvinci al destro braccio
Questa: epistola mia. Se alcun la toglie
A te, davver! che ciò mi fia gradito.
Di re Khusrèv dalla presenza uscìa
Il messaggiero, avvinta in pria l’epistola


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— 310 —

Al destro braccio. Ei venne intanto, e allora
Che al greco Imperator vicino egli era,
Il vide pel suo calle un degli erranti
Esploratori. Al suo signor l'addusse,
D'immonda polve sparso il capo, smorte
Ambe le gote e con le labbra livide.
‘ —Ov’è Khusrèv? gli disse il greco sire.
Davver! che la sua via dritta e verace
A me t'è d’uopo disvelar! — Stordito
Parve per lui di re Khusrèv lo schiavo
Astuto, e per timor che avea del sire,
Tristo e turbato nel ridir risposta
Si fe’ nel volto. Deh! frugate voi,
Gridava il greco re, costui sì tristo,
Ricercator di nostro danno, reo
. Nel suo pensier, d'aspetto reo pur anco
E di perversa voglia! — E quei frugarno,
E nel braccio di lui la regia epistola
Avvinta un uom trovò sagace e vigile.
Il greco Imperator su que’ confini
Un sapiente allor cercò, pehlèviche
Cifre in leggere esperto; e allor che il foglio
Ebbegli letto l’uom di cifre dotto,
Dell’inclito signor fosea qual pece
Si fe' la fronte. In manifesto danno,
Disse in secreto a’ prodi suoi, volea
Guràz menarci adunque! E il re de' regi
Trecentomila eroi seco si adduce,
E niun conosce agli elefanti suoi,
A’ suoi tesori, il computo verace.
Davver! che trarmi a' lacci suoi volea
Guràz infido! Eternamente fosco
Nelle triste sue voglie il cor ne sia!
Di là così ei traea l’ampie falangi,
E ogn’altra brama dal suo cor sparia.
A. principe Guràz come giugnea


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— 311 —

Novella certa, ritornarsi in Grecia
L'inclito sire, pien di doglia il core
Andonne e smorte fùr le gote e livide,
Sì che ratto ei scegliea fra suoi gagliardi
Un cavaliero e con ansia ed ardore
Dettava un foglio. Oh! perchè mai, scrivea,
Fecemi oltraggio il greco Imperatore?
Dimmi, dimmi, perchè ti ritornasti

Da suol d'Irania e festi me pel mondo
Bisognoso d'aita? E il re de' regi

Ben sa che ciò fec’io, sì che quel core
Pieno è già contro a me d’alto corruccio
E d'odio acerbo. — Il greco Imperatore,
Poi che gli occhi levando il foglio vide,
Ricco di pregi un uom scelse tra i prodi
E veloce a Guràz mandollo in via.

Forse, gli disse, ti sciogliea l'Eterno
Da ogni tristo bisogno, o mentecatto,
Perchè poi tu dovessi il trono mio
Sperdere e il serto imperial, distruggere
I prodi miei col fuoco de la guerra?
“Da l’epistola tua nulla mi venne
Fuor che de’ miei tesori ampio uno sperpero,
Per colpa tua, tristo e malnato. In mano
Dar mi volesti a re Khusrèv. Deh! mai
Grandezza non ti venga o buono stato
Nel viver tuo, chè questo tu dovevi
E intendere e saper che prenci irani,
Fin che vedranno un re de’ Kay del sangue,
In iranico suol gente straniera
Non chiameranno mai, foss’ei rampollo
Di greco sire o sapiente illustre.

Al greco Imperator molte fe’ scuse
Guràz allor, ma i detti suoi, per molta
Scienza ch'egli avea, li orecchi mai
Non penetràr di quell’irato. Intanto,


<pb n="8.312"/>
— 312 —

Scegliea Khusrèv tale e bennato ed inclito,
Facondo e savio messaggier. Dettava

Un regal foglio per Guràz con queste
Parole acerbe: Deh! spregiato e vile,

Che arti hai di Devo, quante volte a questa
Mia reggia ti chiamai, ma tu lontano

Da nobile costume e da più giusta

Legge ti resti! Ed or quelle che hai teco
Squadre d’eroi, che son la stella tua

Negli anni tuoi, ne’ mesi tuoi, col core

E con la mente al greco Imperatore

Son già devote, ed altre in lor segreto
Hanno voglie e disegni. Or tu m'invia
Quanti son ribellanti e già s'apprestano

Il capo a sollevar. — Come giugneva

A Guràz prence la regale epistola,

Ei cauto nell’oprar, senti la mente

Di pensieri affollarsi, onde trascelse
Dodicimila, fra gli illustri suoi,

Cavalieri animosi, e disse ai duci:

Or siate voi d'un solo core, e verbo
Che altri vi dica, mai non piaccia a voi
D'ascoltar. Ma qui insiem per alcun tempo
State di qua dall'acque torbe e fretta
Non prendavi d'andar. Se un detto solo
Il vostro fia, se sola una difesa,

Anche potrete voi scrollar dall’ime
E fonde basi una montagna eccelsa.

Fino a città che Maestà si dice
D’Ardeshir, discendea l'ampia falange,
Quanti eran vecchi o garzoncelli in armi
Così scendean. Fino a le sponde ei trassero
Del bel fiume le schiere, ivi aspettando
Qual comando faria l’'iranio sire.

Ma Khusrèv, come avea novella certa
Di ciò ch'egli si fean, desio non ebbe


<pb n="8.313"/>
— 313

Di riveder que’ suoi guerrieri, e cenno
Fe’ sì che andasse Farrukhzàd correndo
A quelle del suo re genti raccolte.

Ei tal. messaggio a le raccolte genti
Recava e sì dicea: Da che mi foste
Amici un giorno, oh! perchè mai la via
Schiudeste al greco Imperator da quella
Ampia sua terra, ond’ei menò su questi
Confini miei le sue falangi? Oh! dunque
Chi mai fu che smarrissi da la dritta
Via dell'Eterno e dal mio patto lungi
Andò perduto e da mia giusta legge?

L’accolta schiera come udì messaggio
Di principe Khusrèv, livide e fosche
Ebbe le gote per terror. Nessuno
Osò svelar l'alto secreto, e tutti
Rimasero nel duol, pallidi tutti
Ne' tristi volti. Ma d'un solo core
Con principe Guràz era quel messo,
Ben ch'ei celasse all'aure ancora e a questa
Terra il secreto suo pensier. Sen venne
Celatamente ai valorosi e luce
Diede all’anime fosche e conturbate.

Principi, ei disse, niun di voi del sire
Tema d’Irania, ch'ei non scorse aperta
Alcuna colpa in voi. Siate soltanto
D'una sol lingua e d'un sol core e dite
Asseverando: « Chi di noi fu adunque
Di reo pensiero? Se talun pur v’ebbe,
Tutti del nostro re siam sotto al manto
Proteggitor, siam noi l’uno per l’altro
Alleati in valor. — Tosto che udiro
Di lui la voce i sbigottiti prenci,

L'alto secreto ognun de’ prenci intese,
Onde levàrsi da’ lor seggi attorno

D'un moto sol. Conforme a ciò ch'ei disse,
La risposta apprestàr subitamente.


<pb n="8.314"/>
— 314 —

Farrukhzàd ne venia ratto qual nembo
A principe Khusrèv, tutte a ridirgli
Este parole, e quei rispose: Vanne,
Vanne, e in presenza lor così favella :

« Deh! chi di voi si cerca il suo corruccio
Qual forsennato? Se ingannava alcuni
Il greco Imperator d’infausta sorte
Corone promettendo, armi e tesori

E seggio illustre, se talun colpevole

Si fe’ dinanzi a noi, se alcun dispetta
Ebbesi e vil questa corona mia

E il sovrano poter, questi a me ratto,
Alla dimora imperial, mandate,

Questi sì che contrassero tal colpa
Maligna e rea. Se no, vedrà ciascuno
Dell’esercito mio, qual la sua dritta
Strada perdeva, e carcere e gibetto ». .

Andando Farrukhzàd, queste parole
Ridicea del suo re, sì che a vecchiezza
Parea precipitar per l'aspra doglia
Della giovane schiera il cor dolente.
Niuno si ardia disciér le labbra e pieni
Eran tutti di duol, sì che in silenzio
Restavansi lung'ora. Alfin la lingua
Disciolse Farrukhzàd subitamente,
Disonesti formando i detti suoi:

In quest'ampia falange, di gran core
Armata e nuova, non vegg’io chi scemo
Sia di possanza e d’ardimento. A voi
Quale è d’uopo timor pel vostro sire,

DI lui che disperdea pel mondo attorno
Fuor della reggia i suoi gagliardi? In quella
Dimora sua di prence oh! non vegg’io

Un grande, un forte, che l’antica luce
Renda all'astro regal. Le mie parole

Che dissi in pria, lievi stimar vi piaccia,


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— 315 —

Nè temasi da voi per mio corruccio,
Ma tosto, ad imprecar contro al superbo
Prence e contro a me ancor, sciogliete il labbro.
Quale da lui queste parole udìa,
S'avvide sì che giovane fortuna
Del suo re già invecchiava, onde levàrsi
Tutti d'un moto da' lor seggi e il labbro
Sciolsero ad imprecar. Tornava allora
Farrukhzàd al suo re, dicea compunto:
Tutta de’ prodi tuoi l'ampia falange
Uniasi a un patto e congiungea. Sgomento
Ho sì pel viver mio, se a que' gagliardi
Con un messaggio ancor mandami il sire.
Or s'avvide Khusrèv che il menzognero
Fiumi di sangue e di cocenti lagrime
Avrìa versato, ond’ei si tacque e nulla
Rispose allor per tema del fratello,
Rustem, di Farrukhzàd, e il vero ascose
Nel profondo del cor. Chè ribellante
Al suo prence e signor si palesava’
Rùstem infido, al loco suo, dov'erano
Diecimila suoi prodi, atti le spade
In battaglia a vibrar. Corruppe il reo
Di Farrukhzàd ancor l’infido core
E ribelli al suo re fe’ i suoi gagliardi.
Ma Farrukhzàd ben s'avvedea che il sire
Dell’esercito suo tutta la colpa
Da Farrukhzàd riconoscea. Di fuori
Come uscì dalla reggia ei del suo prence
Fatto nemico, non osò più ancora
La reggia penetrar. Stava alle porte
Costante e fermo e con ciascuno assai
Fea prove intanto a far seguaci suoi
Tutti gli eroi delle raccolte squadre,
Sì che ribelli molti fe’ al comando
Del suo prence e signor. Parole avea


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— 316 —

Con ciascun ben sovente e quelli seco
S'accordavano in ciò, doversi in trono
Altro elevarsi un re, chè lungi omai
Ita era da Khusrèv la sua fortuna,
La maestà, la dignità pur anco.
Ma un saggio vecchio che nell'opre sue
Era avveduto, stavasi costante
Là presso a Farrukhzàd. L'iranio sire,
Dissegli un giorno, de’ guerrieri suoi
Tutte da te le colpe si ripete.
Ed or, se tu non meni a noi dinanzi
Un novello signor, più in là di tanto
Avventurarci non dobbiam, chè tosto
Deserta fia questa contrada amena
E Irania tutta fia turbata e scossa
Qual d'un vegliardo è percossa la mente.
Vuolsi cercar qual di Khusrèv è figlio
Di verecondia ornato e da litigi
Alieno in core e da contese, e lui
Porre in trono qual re, monete d’oro
Sul suo serto gittar. Procederemo
Indi a un’opra maggior, chè amara beva
Gustammo un tempo e assaporar del dolce
Ora n'è d'uopo. Ma se accorto e saggio
È Shirùy, maggior figlio al nostro sire,
Quale ora in carcer sta, niun altro vuolsi.
E porgeva ciascuno egual consiglio,
E molte non passàr dopo cotesto
E notti e giorni, chè levossi a un tratto
Di Tokhàr de le schiere alta la polve,
Quando già quella impresa aveano assunta
Come agevole cosa i prenci arditi.
Ma Farrukhzàd per la lontana via
Corse incontro a Tokhàr, venner con lui
Copiose genti armigere, e nell'ora
Ch'elli incontràrsi, andarono parole


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— 317 —

E in secreto e in palese. E primo sciolse

La lingua Farrukhzàd l’opre malvage

Di re Khusrèv a rammentar. L'antica

Di sire dignità, disse, la gente

Col senno e col valor vuol che si affermi.
E principe Tokhàr gli rispondea:

Uom da sermoni non son io, ma quando

Scendo in battaglia co' miei prodi, vana

Rendo l’opera sì d'ogni gagliardo

Che al mondo vive. Caro a tutti noi

Fu questo re nell’età sua più fresca,

Agli eroi caro ed a’ prefetti; ed ora

Che sua giornata si fa torba e trista,

Deh! mai non sia che onor di regal trono

O di corona ei vegga! Allor che ingiusto

Ei si mostrò, quando gioì di ree

Opre su’ suoì soggetti, a noi si fece

Dispetto e vile. — Come udì cotesti

Suoi detti Farrukhzàd, lui fra gli Irani

Sozio si elesse e dissegli: Deh! intanto

Per noi si vada al carcere del sire,

Vadasi presso a quegli aftlitti! Fuori

Shirùy si tragga senza tema, il fiero

Garzoncello che onor cercasi al mondo.

Ma un prence di sua carcere è custode,

Tal, che piuttosto leveresti a lui

Il cerèbro e la cute. Egli ha seimila

Cavalier già provati e gl’infelici

Suoi prigionieri nel dolor sostiene.
Leggera forse noi stimammo, disse

Tokhàr a Farrukhzàd, l'impresa ardita

Contro a tal prence. Ma se torna il fato

Di re Perviz a ripigliar vigore

Qual di giovane età, non un eroe

In suol d’Irania resterassi incolume,

Senza ch’ei tocchi da Perviz catene


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— 318 —
E carcere e supplizio, onde in Irania
Non resti alcuno a minacciar perigli.

Questo egli disse e da quel loco intanto
Via sospinse il destrier, correndo in guisa
Qual’ è d'Azergashàspe il sacro fuoco.

A improvvisa tenzon tutta ei menava
La sua schiera d'’eroi, quando all'incontro
Vennegli il prence senza indugio, al carcere
Preposto di Shirùy. Ma della sua
Schiera già illustre declinò l’altezza
E ucciso cadde in quel tumulto primo
Il capitano. In fuga andò la schiera
Dell'iranio signor, tenebre furono
Sovra il chiaro suo di, cadde suo intento.

Ma nell’angusto carcere scendea
Tokhàr bramoso per l'intento suo,

Con l’arnese di guerra. Ivi una voce
Mandò a Shirùy d’altero capo, e tosto
Gli diè risposta l'inclito garzone.

E conobbe Shirùy perchè disceso
Fosse nel carcer suo l'altero duce

In quell'ora, onde ratto allor che vide
Splender di gioia di Tokhàr la (fronte,
Balzar, per doglia che l'assalse, il core
Senti nel petto, e dissegli piangendo:

Ov'è Khusrèv? Ed è l'ufficio vostro
Donarmi a libertà? — Così rispose
A quel figlio di re Tokhàr allora:

Se un uom sei tu, non vellicar le tue
Incerte brame. Che se tu a quest'opra
Non acconsenti e la proposta mia
Vile stimando vai, forse di sedici
Fratelli tuoi fia che dispaia un solo,
Quindici ancora ci restando, quali
Del grado imperial degni saranno,

Sì che per loro fia beato il seggio


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— 319 —

Della regale dignità. — Piangendo

Stavasi al loco suo Shirùy attonito

Nè il piè movea da quell’angusta casa.
Ma su le soglie del regal palagio

Teneasi Farrukhzàd, nè schiuso il varco

Ei lasciava ad alcuno onde poi fosse

Consapevole il re di ciò che allora

Da' ribelli si fea. L'ampia cortina

Fi sol guardava al limitar del prence;

E tosto che del sole in occidente

La faccia impallidì, quando a' lor sonni

Apprestavansi loco i prenci tutti,

Fe' cenno ei sì che ognun de le vedette

Di quell’ampia città, quale si avea

Poter di prence da que’ giorni, a lui

‘Venisse de la reggia al limitare,

Loco di gioia e di tranquilla pace

Dell’iranio signor. Diverse assai

Dall'altra notte, Farrukhzàd lor disse,

V'è d’uopo in questa alzar le voci. Il nome

Gridino di Kobàd alle vigilie

Della notte i torrieri. — Ed io cotesto

Farò, rispose ogni torrier, cacciando

Via dalla mente di Perviz il nome.
Come la notte rinnovando stese

Il bruno velo, da’ mercati attorno

E dell’ampia città per ogni loco

Un grido sorse: Vivasi beato

Sire Kobàd ne’ prenci tutti e facciasi

Lieto ricordo di suo nome illustre

Per ogni region. — Sire del mondo,

Khusrèv dormia per l’atra notte, e accanto,

Sul medesmo guancial, stavasi afflitta

Shirina bella. De’ torrieri attorno

Le voci come udì, molto si dolse

E il core le balzò nel sen profondo


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_ 320 —

Per alto affanno. Al gemito di lei
L'antico re destossi e corruccioso
Ebbesi il cor per le parole meste
Che quella disse. Oh! che sarà, signore?
Dicea Shirina; e ciò che intendo attorno,
In qual mai guisa disporrem? — Leggiadra
Fanciulla mia, deh! perchè mai, rispose
A Shirina Khusrèv, queste parole
Dicendo vai ne’ dolci sonni? — Apri,
Apri, disse, l'orecchio e de’ torrieri
Il grido ascolta! — Come udì quel grido
Prence Khusrèv, qual di fiengreco è rosa
Smorto si fece ne le guance sue.

Ma disse poi: Ratto che tre vigilie
Trascorse fien dell’atra notte, voi
Degli astrologi miei tutte cercate
Le parole, chè allor che questo mio
Malvagio figlio da la madre nacque,
Kobàd nascostamente io l’appellai.
Pur Shirùy lo chiamava, e l’altro nome
Tenni celato, ond'è che il nome suo,
Noto agli altri, è Shirùy. Deh! perchè adunque
Nome gli appone di Kobàd costui,
Insano e stolto? Or ch'è la notte ancora
E oscura e tetra, in Cina andar n’è d’uopo
O in Macin o in Mekràn, chiedere aita
D'armi e d’armati dal signor di Cina,
E con arte pigliar sovra cotesti
Libero varco. — Ma poichè nel cielo
Già s'oscurava di Khusrèvy la stella,
Vane pel mondo le parole sue
Andàr d’un tratto. Per la notte oscura,
No! non giovògli l’arte sua; l'impresa
Difficile ei stimò facile e piana
Ed a Shirìna così disse: Tempo
Ecco! venia che l’arti nostre ha vinte


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— 321 —

Il reo nemico! — Oh! vivi tu beato,
Shirina rispondea; sempre lontano
Guardar ti sia della sventura! Intanto,
Con sapienza arte tu fa di scampo,
. E mai non sia che del nemico tuo
Necessità t’incolga. Allor che chiaro
Il dì farassi, a questo regio ostello
Volgerà senza dubbio il reo nemico,
Autor d’inganni, la colpevol fronte.
Ratto prence Khusrèv dal suo tesoro
Chiese un usbergo e due temprate in India
Fulgide spade e un elmo greco e l'ampia
Faretra e i dardi e l’aureo scudo. Ancora
Volle un suo servo di pugnar bramoso,
Gagliardo e forte, e per la notte oscura
Ne’ giardini scendea, quando si scuote
Dai gravi sonni suoi per la campagna
Il tristo corvo. A un ramo egli appendea
L’aurea sua targa, in loco da’ passaggi
De la gente lontano, e sui narcisi
Posava affranto e su i novelli fiori
Del zafferano, postosi di sotto
Alle ginocchia un ponderoso brando.

LIII. Cattura di Khusrev Perviîz.

(Ed. Calc. Pp. 2023-2026).

Come dall'alto le sue punte d’oro
Vibrò quest’almo sol, dentro la reggia
I rei nemici si gittàr, devoti
Dei Devi all’arti. Per quell'ampio ostello
Ei s’'aggiràr partitamente, e sgombro
Dall'iranio signor quel loco stava,
Degno loco davver. Que’ suoi tesori




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_ 322 —

Alla rapina abbandonando allora,

Già non fece nessun di-sue fatiche

In ragunarli alcun ricordo o stima,

Onde ognun si tornò con lagrimosi

Gli occhi suoi, già sollecito dell'opre

Del fato arcane.—Oh! che chiediam noi dunque

Alla volta del ciel che ratto muove,

S'ella non cessa mai da quelle sue

Opre che mena? Imperial corona

Ella dona a costui, l'altro ne' gorghi

Abbandona del mare, esca gradita

A' pesci suoi. Costui fa gramo e ignudo

Del piè, del capo e delle spalle ancora,

Orbo di cibo e di quiete, senza

Dimora ad albergar. Dolce vivanda

Di miel, di latte, a un altro appone e il veste

Tutto a broccati ed a lucente seta.

Ma poi, dell’opra al fine, ambo sen vanno

Sotterra ad albergar, vanno ad un loco

Oscuro e tetro, a una profonda fossa.

Che se l’uom saggio mai non fosse nato

A questa vita, non gli avria rancura

Incolto mai di pugne e di contese,

Veduta ei non avria rivolta al male

Dal suo principio la terrena vita,

Sia che grande fra gli uomini ei sia detto,

Sia che tapino attorno vada. — Or io

All’opre di Khusrèv porto il lavoro

Della mia mente, al leggitor novello

Racconto appresto con intenta voglia.
Stavasi re Khusrèv nel verde prato

E al capo suo con l'alte frondi un albero,

D'ombra dator, gli sovrastava. Allora

Che metà corse di quel lungo giorno,

Alta necessità venne in quel sire

Di suo cibo consueto. Era per gli orti


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— 323 —

Un suo servo fedel, quale del prence
Vista mai non avea l’inclita fronte,

E il re, che maestà si avea di sole,

Disse a colui: Deh! stàccami un brandello
D'esta cintura mia ch’è preziosa.

Entro cinque vi son d’oro massiccio
Splendidi globi, ed ogni globo fulgide
Recasi gemme che costàr fatica.

Al giardinier soggiunse poi: Cotesto
Aureo globo davver! che oggi mi viene
Propizio all’ uopo! Vanne tu al mercato,
Compra di carne un picciolo brandello,
Anche del pane, e muovi i passi tuoi
Per luoghi non frequenti. — Era di trenta-
mila monete d'ogni gemma ìl prezzo,
Quando n’avesse alcun di trarne frutto
Alta necessità. Rapido venne
Ad un fornaio il giardiniere e pane
Sì gli cercò per quel brandel reciso,

Di fulgid'or, dalla cintura, e quegli,

Deh! ch'io non so, dicea, di queste cose
Prezzo verace nè oserei di tanto
Stoltamente far getto! — Ambo recaro

A un gioiellier lo splendido brandello

E dissero: Deh! tu fanne di questo

Verace il prezzo e con scienza poni
Industria a ciò. — Come le gemme vide
Colui già esperto, rispondea: Chi mai
Ardirà di tal gemma acquisto farsi?

Nel tesor di Khusrèv sono soltanto

D'or questi frusti e cento nuovi a ogn’anno
Ven recano d'eguali. Or tu, rispondi,

Da chi rubasti queste gemme tue,

Ovver, da quale addormentato servo

L'hai tolte? — A Farrukhzàd ne andavan tosto
Cotesti tre con le gemme e con l'oro,


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— 324 —

Con tal faccenda. E Farrukhzàd che vide
L’inclite gemme, al re novello corse,
Mostrò a Shirùy queste pietre cotali,
Mostrò dell’aureo cinto il tronco brano.
Ma Shirùy così disse al giardiniero:
Se di colui che possedea le gemme,
Indizio non dài tu, ratto la testa
Io troncar ti farò, farò troncarla
A quanti son della tua casa, — O prence,
Quei rispondea, là ne’ giardini è tale
Ricoperto d’arnese e con un arco
Stretto nel pugno. Egli è quale un cipresso
Nella statura ed è qual primavera
Nelle gote leggiadre, ei che somiglia
In ogni cosa a un re di forti. Splende
All’intorno per lui l'ampio giardino,
Egli è sì come sol fulgido e vivo
Nella corazza sua. L’aureo suo scudo
Giù da un ramo gli pende e innanzi a lui
Cinto un servo sì sta. Troncava il servo
L'ingemmato brandello e quegli il porse
A me, dicendo: « Or di qui vanne e recamì
Pan dal mercato e ciò che l'uom si mangia
Insiem col pane » —; ond'io da lui partii
Rapido come nembo e qui men venni.
Riconobbe Shirùy che lo straniero
Era prence Khusrèv, chè il maestoso
Aspetto suo con la regal presenza
Unico e nuovo era a que’ dì. Trecento
Egli inviò dalla regal dimora
Là del fiume a le sponde, e qual bufera
Veloci al corso, cavalieri eletti,
E re Khusrév che l'irrompente scorta
Vedea da lungi, impallidì, la spada
Della vendetta sua traendo venne.
Ma l'accolto drappel come del sire


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_ 325 —

Vide la fronte, si rivolse a dietro

Dall'aperto sentier con pianti e Jai,

E ciascun si tornò partitamente

A Farrukhzàd e fe’ parole ognuno

Alto gridando: Servi gli siam noi

Ed egli è sire, e nuovo ed inusato

Della sventura è pel re nostro il giorno!

Mormorar contro a lui non osa alcuno,

Trovisi ne’ giardini egli o dell'armi

Nel tumulto guerrier. — Corse all’antico

Principe allora Farrukhzàd e seco

Alquanti armati da la reggia addusse.

Ma come a lui si fe’ vicino, solo

Innanzi venne e fe’ parole assai,

E Khusrèv l'ascoltò. Se il re concede

Ch'io parli, Farrukhzàd così dicea,

S'egli franchigia mi darà per queste

Cose compiute, io più verrò vicino

E dirò che ne avvenne. E s'’ei ricusa,

Alle mie case tornerò. — Qual cosa

Più dir vuoi, di' tu adunque, il vecchio sire

Gli rispondea. Consolator nel duolo

Tu non mi sei, non però vuoi contese.
E il cinguettiero così disse al prence:

Con maggior senno tu riguarda a questo

Tuo proprio stato. Tale già non sei

‘Che uccidere potessi in fiero assalto

Mille guerrieri, chè dal far battaglie

Stanco omai ti ritorni. E t'è d’Irania

Nemica ogni città, per farti guerra

Hanno tutti un sol core e una persona

Veracemente. Vieni adunque e vedi

Che mai ti appresta questo cielo arcano,

Se forse per amor gli odi novelli

Contro a te nati ei frenerà. — Davvero !

Disse Khusrèv, che ciò ben sta. Terre”


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— 326 —

Io sì m’avea per uomini men degni,
Ch'ei venissero a me, turpe governa
Per far di mia persona, e le lor triste
Voglie appagar fra contumelie e scede.
Udite appena avea queste parole
‘ Dal suo re Farrukhzàd, che afflitto il core
Fu di Khusrèv per un tristo ricordo
Dei giorni antichi. Astrologi e indovini
Diceangli un tempo (ed egli avea rancura
Per le parole) in questa guisa: In mezzo
A due montagne un dì sarà tua morte
D'un servo per la man, lungi da tutti
I tuoi fedeli. E d’oro un monte fia,
L'altro d’argento, e tu, spezzato il core,
In mezzo sederai. Dorato cielo
Ti sarà sopra, e sotto un suol di ferro
E di vendetta gravida la sorte.
Ed ora, ei si dicea, questa ferrata
Corazza m'è la terra e l’aureo scudo
É il ciel dorato e sono i due tesori,
Nascosti nel giardin, le due montagne,
I due tesori, ond'era gaio e lieto
Questo cor mio qual chiara face. Il termine
Veramente or toccò de’ giorni miei.
Oh! dove sei, mia stella amica, al mondo
Inclita luce? e dove son le mie
Brame d’un giorno e la mia gioia e il gaudio
Ond'era scritto il nome mio su tutte
Le corone di re? — Ma un elefante
Ratto fu addotto a lui da presso, e piena
Era l’anima sua fosca e turbata
D'un alto affanno. Sovra il dorso eretto
Dell’elefante il re si assise e fuori
Dall'’ameno giardin pel calle aperto
Quella scorta l'addusse. Egli da l'alto
Dell’elefante in pehlèvica lingua


<pb n="8.327"/>
— 327 —

Fe' questi detti allor: Tesoro mio,
Se del tuo prence se’ nemico, amico
Degli avversari miei non farti mai,
Ch’io nelle mani d’Ahrimàn protervo
Oggi mi sono. Nella mia distretta
Soccorritor tu non mi fosti; or statti
Ben nascosto e ad alcun non palesarti.
Ma Kobòàd, nuovo re, fe’ allor comando
Al suo ministro : Degli antichi mali
Non far ricordo a lui. Di' che recato
A Tisifuna ei sia, che da la reggia
Con una guida alcun vel meni. Quivi
Restisi in pace per alquanti giorni,
Nè vuolsi che qualcun di qualche offesa
Il tocchi mai. Con mille cavalieri
Galinùsh poni a lui fido custode.
Da che si volse di Khusrèv sul capo
. Questo ciel roteante, erano omai
Otto e trent'anni di suo regno allora.
Correa d’Azèr la luna appunto, e il giorno
Era di Dey, tempo del vin, del fuoco,
Del cibar carni d’arrostiti augelli.
L’imperiale maestà partita
Erasi omai da re Khusrèv. Rimasto
Egli era sì come vil servo, privo
Del suo serto di re; ma venne allora
Prence Kobàd e si posò sul capo
Il diadema e beato e giocondo
Su quel trono sedè. Tutte d'Irania
Le genti accolte l’acclamàr signore,
Ed ei stipendi per un anno intero
Dal tesoro regal donava attorno.
Ma sol di sette lune era lunghezza
Fissata al viver suo. Chiamalo adunque
Signor di genti, o, se. più vuoi, l’appella
Uom nullo e oscuro. — Questa è legge e norma


<pb n="8.328"/>
— 328 —

D'esta dimora ‘d’igiustizia piena,

Sì che da lei non t'aspettar di fede
Opera alcuna. Prenditi costume
Generoso nell’opre e nel pensiero

Opre leggiadre a meditar ti poni.

Che se dirai: « Son’io d'ogni desire
Giunto alla meta » —, vedi tu se quello
D’ogni desire compimento sia

Ordito un laccio o una catena. Al male,
Fin che puoi tu, non dar la mente e sola
Una parola d’ascoltar ti piaccia

Da questo savio: « Se parole oneste,
Opre oneste farai, senza difetto
Renderai l'alma tua su questa terra ».


<pb n="8.329"/>
2. Il re Kobad Shirdy.

I. Richiesta di perdono dal padre.

(Ed. Calc. p. 2026-2031).

Come sul trono di delizie assise
Prence Shirùy, quell'agognato serto
Si pose in capo, e vennero all'istante
Tutti gli eroi d'Irania bella e a lui
Liete gridàr benedizioni, ai regi
Quali si fanno. Così disse ognuno
Ad alta voce: O re d'alto valore,
Di pregi ricco, sappi omai che Iddio
La corona ti diè, sì che tu posi
Con molta pace su l’eburneo trono.
Resti dominio de la terra adunque
A’ figli tuoi, a’ tuoi congiunti e affini!
Così rispose re Kobàd: Gioiosi
E invitti sempre siate voi! Non sempre
Il male farem noi. Deh! quanto è bella
Giustizia aggiunta a buon costume! Intanto,
Noi reggerem con sicurezza il mondo
E l'opre d'Ahrimàn tronche faremo
Subitamente, nobile costume
De’ nostri padri in ciò che far n'è d’ uopo,
Assumendo fedeli, onde poi cresca
La maestà di religion ch'è nostra.


<pb n="8.330"/>
— 330 —

Un messaggio frattanto al padre mio
Invierò, dirò le cose a lui
Partitamente e parlerò dell’opre
Non leggiadre ch’ei fe’, sì che rimase
Tristo nome di lui quaggiù nel mondo.
Faccia egli intanto le sue scuse a Dio
Per le sue colpe e volgasi alla dritta
Via dell'Eterno ed a sua legge. Allora
Ch'’egli al mio dir s’acqueterà, nel core
Quand’egli non avrà corruccio e affanno
Per ciò ch'io feci, curerò del mondo
L'opere tutte ed a giustizia ancora
E in secreto e in palese alto un pensiero
Io donerò. Per chi ben fa, del bene
Farò con molto amor, nè de’ meschini
Il core infrangerò. Ma qui m'è d'uopo
Di due fra voi, che abbian parole oneste
E sian d’integro cor, quali a memoria
Abbian pur sempre li trascorsi casi.
Indi, rivolto a l’inclita assemblea,
Questo soggiunse: Di chi mai fia dunque
Cotesta impresa? e chi fra questi Irani
È avveduto e fedel? — Con gli occhi intenti
Mostravano gli eroi, tutti d'un cenno,
Nell'inclita assemblea due sapienti,
Quando pur cotal scelta di lor cruccio
Cagion non fosse. Chi scegliean gl’'Irani
Apertamente in mezzo a lor, conobbe
Prence Shirùy. Ashtàd era l’un d'essi,
L’altro Kharràd figlio a Berzin antico,
Due sapienti e memori e facondi
In lor parole; ond'egli disse: Voi,
Sapienti d'Irania, in molte cose
Esperti, saggi, che compiste in terra
Opre leggiadre, del mondo le imprese
Qual trista cura non abbiate ; ottiene


<pb n="8.331"/>
— 331 —

Ogni illustre da questa ingrata cura

Ampio tesor. Frattanto, oggi v'è d’uopo

Irne all'antico re, perchè ritorni

Alla sua dritta via l'antico sire

Di voi per l'opra. Dite innanzi a lui

Ogni parola che più torni all’uopo,

Cose nuove toccando e cose antiche.
Ambo levàrsi allor, contro a lor voglia,

I sapienti e fecero di pianto

Molli le ciglia. Ma poichè saliti

Furon sui palafreni al regal cenno

Kharràd figlio a Berzin e Ashtàd, illustre

Di Gashàspe figliuol, così lor disse

L'’iranio prence: Con intenta voglia

Del core, or sì che prendere il sentiero

Ver Tisifuna è d’uopo a voi! — Tu intanto,

Disse a Kharràd, che mai t'indugi, guàrdati

Chè veramente qui sei tu ministro

Del tuo signor. Reca un messaggio al mio

Illustre genitor, di capo in capo

Tutti i miei detti ricordando a lui.

Digli: « Non fu di noi cotesta colpa,

Nè tanta potestà si avean gl’Irani;

Ma ben tu la tua pena e il tuo castigo

Da Dio t’avesti, poi che volta a dietro

Avéi la fronte dalla via diritta

Della tua fede. E in pria dirò che mai

Bennato figlio non sparge del padre,

Ben che malvagio, il caldo sangue; mai

Non acconsente a ciò. Ma tu d'affanno

D'ogni più giusto hai fatto colmo il core.

Che il mondo è pieno de' tesori tuoi,

Io dirò quindi, e che travaglio tuo

In ragunargli ad ogni loco è giunto.

Terzo dirò che di tanti gagliardi,

Di tanti cavalier, d'Irania tutti


<pb n="8.332"/>
— 332 —

E gloriosi, che pei dolci figli
Eran beati, per lor terra lieti
E per l'inclita stirpe, uno per tuo
Duro comando in Cina scese e un altro
In Grecia andò, per ogni terra sparsi
E per ogni confin. Vien poi che il greco
Imperator per te fe' assai, portando
Ogni corruccio per te sol, nel tempo ©
Che esercito ti diè, ti diè una figlia,
Ampi tesori e co’ tesori suoi
Cose in gran copia. E domandò la croce,
Per la sua terra, del Messia, per essa
Così bramando che fiorisse ancora
La sua contrada. Oh! che ti val cotesta
Croce di Cristo ne' tesori tuoi,
Quando il greco signor per tal cortese
Atto di te stato sarìa beato?
Non la desti però; savio consiglio

In te non fu, nè ti fu guida a senso
— Generoso ed umano. Altro desire
Tale su te s'ebbe dominio allora,
Che torbido si fe’ del senno tuo
L'occhio lucente. Ai miseri, ai tapini,
L'aver togliesti e però mal t’incolse
Per lor maledizion. Due de’ tuoi zii
Anche uccidesti, a te benigni e amici,
Da cui luce si avea questo tuo seggio
Imperial. Ciò che t’'incolse adunque,
Riconosci da Dio, pensa a le triste
Opere tue. Son io del mal che avvenne,
Il pretesto, son io di ciò che narrasi,
Primo argomento. Eppur, giuro per Dio
Che non di me fu questa colpa e ch'io
Mai non cercai che andasse il regal trono
Così diserto. Ma tu intanto chiedi
Che altri di ciò ti faccia scuse, dillo


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— 333 —

A cotesti d'Irania incliti prenci,
E pel mal che già festi, a Dio ti volgi,
Ch’Egli è pur guida all’opere leggiadre,
Per ch'Egli forse nel tuo duol presente
Cui fuggir sì potevi, aiutatore
E propizio ti sia. Figli tu avevi
Otto due volte, ed ei per te lor notti
E lor giorni passàr rinchiusi in carcere,
Ch'elli giammai, per tua superbia e ardire,
Sicuri non dormian ; nascosti a tutti,
Di te per tema, vissero lor giorni ».
I due prencì d'Irania, allor che intesero
Il messaggio regal, partian col core
Pien di doglia e d'affanno. In questa guisa
Di Tisifuna ei vennero alla terra,
Ambo con gli occhi lagrimosi e il core
Pieno d'angoscia, e si recàr da quella
Città superba al regio ostel ch'è detto
Marusipènd, ove l’antico sire
Avea soggiorno. Stavasi alle porte
Assiso Galinùsh, e innanzi a lui
Detto avrestù che di scompiglio piena
Era la terra. Con corazza ei stava
E con elmo sul capo e cinto i fianchi,
Ed arabi con seco avea destrieri
Con lor gualdrappe. Ma ordinate intorno
Eran le genti sue, tratte le spade,
Cinte l'armi lucenti; e quegli in pugno
Una clava reggea di bianco acciaio,
Pieno di vampo e di alterezza il core.
Come Kharràd figlio a Berzin e l'inclito
Ashtàd figlio à Gashàsp giù da’ cavalli
Furon discesi, ei sapienti e saggi,
Ratto in piè si levò, chè del vederli
Fu lieto, Galinùsh. Li volle assisi
A orrevol loco e di famosi prenci


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— 334 —

Lor diede il nome, e in pria Kharràd, rampollo

Nobile di Berzin, facondo e saggio,

Con molto ardir la lingua sciolse e disse

A Galinùsh: Con molta pace adunque

Kobàd illustre or sì ponea sul capo

Il regal serto, e già correa novella

In Irania e Turania e Grecia ancora,

Prence Shirùy sedersi omai sul trono

Imperial. Ma tu perchè ritieni

Cotesto arnese tuo, questa celata

E questa clava ponderosa ? e quale

Nemico hai tu? — E Galinùsh rispose:
Deh! tu di molta esperienza, tutte

Siano conformi a’ desideri tuoi

L’opre che fai! Rancura forse avesti

Per l’esile mio corpo, or che di ferro

È la tunica mia? Ma per cotesto

Amor che mostri a me, ti benedico,

Chè degno anche sei tu che splendienti

Gemme i’ ti sparga al piè. Le tue parole

Soltanto in bene ti son dette; oh! possa,

Fin che in terra sei tu, quest'almo sole

Esserti amico! Per qual cosa intanto

Sei qui venuto? Dillo tu, chè poi

Da me chieder potrai motti e parole.
Kobàd illustre per Khusrèv, colui

Così rispose, davami un messaggio.

Che se tu il vuoi, tutto dirò il messaggio

Di lui, pastor di genti e re del mondo.
Deh! valoroso, Galinùsh dicea,

Quelle parole oh! chi ridir potria?

Ma l’iranio signor, Kobàd illustre,

Molti su ciò mi diè consigli e preghi

E ammonimenti. « Notte e giorno, ei disse,

Non consentir che disciolga le abbra

Nella presenza di Khusrèv alcuno


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— 335 —

A favellar, se pur que' detti ancora
Tu non ascolti; sia che quei sermone
Di Persia adopri o pehlèvica lingua ».
Deh ! tu felice, Ashtàd gli rispondea,
Non io secreta la regal parola
Serbo per te. Messaggio egli è che spade
Per frutti recherà, farà che cadano
Teste recise di principi illustri
Nel lor grembo medesmo. E tu frattanto
Chiedi accesso a Khusrèv, perchè il messaggio
Del regnante Kobàd gli diciam noi.
Galinùsh come udì, balzossi in piedi
E dell’usbergo i fulgidi gheroni
Attorno al corpo s’annodò. Le mani
Poste a le ascelle ed incrociate, quale
É pur costume d’uom che serve a un grande,
Entrò dal vecchio re. Dissegli: O sire,
Vivi beato e per sventura mai
Non s'’attristi il tuo cor! Del prence iranio,
Da quell’inclito ostello, alto messaggio
Recano a te Kharràd, nobile figlio
Di Berzìn, ed Ashtàd. — Khusrèv sorrise
E disse ad alta voce: Oh! il parlar tuo
A sapienza sia congiunto! S'egli
È d'Irania signor, chi mi son io?
E perchè qui mi sto nella prigione
E tetra e angusta, se da me l’accesso
Chiedere pur si debbe, ove qualcuno
Menzogner mi favelli o veritiero?
A' due principi eroi si ritornava
Allora Galinùsh, ciò che gli disse
L'antico prode, ripetendo. Or voi,
Soggiunse poscia, entrate a lui, le mani
Poste a le ascelle ed incrociate al seno.
Dite, e il suo detto d'ascoltar vi piaccia.
Ambo que’ saggi, di parole oneste,


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— 336 —

Il volto sì coprìr d'un sottil drappo

Tessuto in Cina, e tosto che l'antico

Sire vedean, prestavangli dovuto

Omaggio innanzi, lungo tempo immoti

Là là restando. Sovra un alto seggio

Stavasi assiso il re del mondo, e in quello

Eran figure di montoni e lupi

Intorno sculte, e vi splendean pur anco

Ed oro e gemme con bell’arte insieme

Fra lor conserte. Stavagli di sotto

D'un drappo giallo anche un tappeto e dietro

Un turchino guancial. Mela cotogna,

Grossa e carnosa, egli teneasi in pugno,

E tristo e mesto sul sedil posava

Quasi supino. Come i due scoverse

Prenci di gran valor, per sapienza

Incliti e illustri, si levò dal suo

Star resupino e fe’ richiesta a Dio

Di forte aita nel profondo core.

Indi sul suo guancial quella a lui cara

Mela cotogna deponea, nell'atto

Che inchiedere volea que’ servi suoi,

Quando la mela dal guancial discese

Lenta lenta e dall'alto rotolando,

Senza romor, venne alla base e poi

Dal regal trono giù discese e giunse

La superficie a disfiorar del suolo.
Corse Ashtàd e raccolse la caduta

Mela d’un tratto e la mondò del suolo

Dalla polvere accolta e in su la fronte,

Segno d'onore, la portò. Ma il sire

Lungi da Ashtàd volse la fronte sua

Per non sentir della raccolta mela

Fragranza alcuna, il vivido colore

Per non mirarne; e quei sul regal trono

La deponean novellamente e stavansi


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_ 337 —

In piè dinanzi a lui. Ma quel, già illustre

In sua grandezza imperiale, avea

Piena l'alma d’affanno e lieto augurio

In ciò non discoprìa. Volse la fronte

Allora al cielo e così disse: Eterno

Giudice nostro che verace sei,

Chi mai solleva quel che atterri? e ancora

Chi mai congiunge ciò che infrangi? Allora

Che si diparte da regal famiglia

La sua splendida sorte, ella si prende

Infinito dolor, tosto che il giorno

Del suo breve gioir tramonti e passi !
Disse ad Ashtàd: Qual dunque hai tu messaggio

Di colui che non ha mente nè core,

Fanciullo ancor, di trista fama? e quale,

Quale l’hai tu dalla masnada rea

Di peccatori, di più rei pensieri

E di torbido cor, nemici e tristi ?

Male ei pensano ognor, di sapienza

Sempre digiuni, veramente privi

D'ogni lor pace per difetto grave

Di sapienza. Ma partir si dee

L'amica sorte da mia stirpe illustre,

Sì che niuno sarà di mia famiglia

Mai più felice, e la corona e il trono

A chi n'è indegno andrà, caduto e infranto

Quest'albero regal. Sarà monarca

Colui ch'è servo, e andrà dolente in core

Colui ch'è prence, nè l'antico regno

Si rimarrà tra i figli miei, non certo

Nella mia stirpe o ne’ congiunti. Tutti

D'un dì gli amici son nemici aperti,

Rei di favella e di persona rei

Contro noi tutti. Ma il tremendo arcano

Or sì mi disvelò questa che cadde

Mela odorosa, senza frutto un giorno

Firpos:, VIII. 22


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— 338 —

Doversi rimaner l'antico trono
Imperial. Ma tu, quali ascoltasti
Parole di colui, ratto mi svela.
Meno dell'acqua ne’ ruscelli torbida
Messaggio di colui per me ha valore.

Ambo la lingua ei sciolsero faconda
Parole a dir che il figlio disse, e tutte ‘
Ad una ad una gli dicean le cose,
Nè alcun motto che ad altri si susurra,
Tenean celato. Ascoltavali intanto
De’ prenci il sire e nel dolor traea
Cupo un sospiro. Ma poi disse all’inclito
. Iranio saggio: Or tu la mia risposta
* Ascolta e porta al nuovo re. « Del biasmo,
Tu gli dirai, contro chiunque sia
Non far ricerca se dal tuo difetto
Pria non ti volgi. Le parole adunque
Che a me dicesti, son pur tue ? Deh! mai
Chi già le disse, incolume non resti !
Ma tu cose non dir stolte ed insane
Onde s'allegri poi, ratto che ascolti,
Il reo nemico. Ei s'avvedrà che fiore
Non hai di senno veramente in capo,
Onde il cerèbro tuo con sapienza
Possa un detto formar, Che se t’afforzi
Con detti stolti e infruttilosi, l’alma
Piena farai, piena farai la mente
D'alto difetto. Ma chi in pria ti disse -
Colpevole in suo cor, poscia ti vide
Signor del mondo, non dovria più mai
Loco trovarsi per sederti accanto,
Più non dovrìa le imprese tue fra mano
Aversi e governar, picciole o grandi.
Tu d'ora in poi non meditar messaggio
Quale osasti inviar, chè n’avrà gioia
Chi t'è nemico. In Dio frattanto è posta


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— 339 —

Ogni opra mia, le voglie mie son poste
In quella vita ch'è di là. Ma tu,

Per questo tuo cercar biasmi bugiardi,
Gloria non toccherai presso chi è grande ».

II. Risposta di Khusrev Perviz.

(Ed. Calo. p. 2081-2040).

Or per cotesto sì farò risposta,
Perchè tu poi, dinanzi al popol tutto,
A ridirla ne venga, e perchè un giorno,
Dopo la morte mia, ricordo resti
E il dir verace sia. Quando l'antico
Mio travaglio e il dolor t'avrò svelato,
Ben saprai tu che nacquero tesori
Dalla mia lunga cura. E in pria dicesti
Di prence Hormùzd e di quel tempo antico
E del grave suo sdegno una parola.
Ma sol d'un tristo pei maligni detti
Contro a me s'adirava il padre mio,
Onde furono allor scompigli in terra
E tumulti da noi. Ratto ch'io seppi
Alcuna cosa de’ pensieri suoi,
Da l’ostello regal per inaccesso
Calle fuggii nell’atra notte. Ei stesso
Uccidermi volea di rio veleno,
Quando, fuor che la fuga, altro non vidi
Balsamo al suo velen. La via prendemmo
E ci fuggimmo, nè però ne' lacci
Della sventura ad impigliarci andammo.
Ebbi novella poi che male incolse
All’iranio signor, sì che da Bèrda,
Poî che l'orecchio mio cotesto intese,
Rapido mi partii. Behràm frattanto,


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— 340 —

Autor di colpe, con armati ed armi
Campo apprestò dinanzi a noi di guerra,
Ed io sì mi fuggii dinanzi a lui

Di battaglia in un di, perch'io cadere
In sua man non dovessi. Oh! ma tornai,
Dopo quel giorno, altra fiata, e venni
Seco a giostrar con anima ed ardire.

E poichè l’adirata nostra stella
Dilungossi da noi, quando il fuggito
Nostro poter fece ritorno, quella
Battaglia di Behràm non d'un sol colpo
Fu veramente ; a quell’orrendo assalto
Stette la gente a riguardar. Di Dio

Per alto cenno, di Lui sì, che il bene
Accresce in terra, ch'è pur guida a noi
Nella propizia e nella rea fortuna,
Tosto che s'acquetàr Turania e Irania
Sotto al nostro poter, la voglia trista
Andò perduta di Behràm. Ed io,

Ratto che di Ciubineh dagli assalti
Libero andai, per prima cosa a quella
Vendetta corsi dell'estinto padre;

E benchè di me zii fossero il prode
Gustehemme e Bendùy, benchè un eguale
Non avesser cotesti in ogni terra,
Benchè esposta egli avessero la dolce
Vita per me, congiunti miei di sangue
E pieni in cor d’affetto, allor che il sangue
Era del padre a vendicar, di doglia
Piena l’anima mia, non m'’indugiai

Pel sangue, no, del padre mio. ‘Troncai
Piedi e mani a Bendùy, chè tristo ei rese
Il suo soggiorno al vecchio sire. E poi
Che Gustehèm sembrò sparir dal mondo,
Loco appartato ad abitar scegliendo,

Per mio comando ei giacquesi trafitto


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A l’improvviso, ed il consiglio e il capo
Degli omicidi cadder vinti e rotti.
Ma di tuo stato anche parlasti e verbo
Facesti a me di tua fortuna rea
E del carcere angusto. Oh! fu quel carcere
Perchè dal figlio mio non mi venisse
Male o sventura, che sul capo suo
Si ritornasse poi. Ma per voi tutti
Non eran ceppi nell’oscuro carcere,
Timor non era di periglio o danno,
Non atti indegni contro a voi. Non certo
Vili e dispetti vi lasciai que’ giorni,
Ma tesori lasciai liberamente
A voi dinanzi, chè insistemmo noi
De' prischi re nel nobile costume,
Inoperosi non restammo, norme
Non prendemmo diverse. E voi bisogno
Di nulla aveste allor per romorose
Cacce e per globi da gittar lontano,
Per musici e cantor, per tutte cose
Degne di prenci, per monete e gemme
E per falchi e segugi. Era un palagio
Quello sì che di carcere s’avea
Il nome assunto, in che viveste lieti.
Dell'oroscopo tuo deh! intendi ancora
La vera istoria, onde per te sgomento
Ebbimo un giorno. E fu per ciò che avesti
Que’ ceppi angusti, perchè a noi periglio
Non venisse da te. Ma perchè poi
M'abbia incolto quel mal che ora mi tocca
Da te, non però mai di tua fortuna
L'oroscopo cader mi fèi di mano.
Regal suggello v'apponemmo allora
Ed a Shirina questa confidammo
Alta contesa del destin. Ma quando
Gli anni fùr trentasei del regno mio,




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— 342 —

In mezzo a tanti avvenimenti miei

Felici e lieti (tu scordasti, dubbio

Non è qui, cotal cosa, or che trascorso
È per noi sì gran tempo), un regal foglio
D'India a te giunse ed io sentor pur n'ebbi.
Era quel foglio d'un gran re; con esso
Erano gemme e d'ogni foggia ancora
Tuniche e vesti, un rilucente ferro
Temprato in India, un elefante bianco

E cose assai di là da ciò che in térra
Mai non sperammo. Presso al ferro un drappo
Era tessuto in or, con molte e varie
Intatte gemme, e l'epistola regia

Era per te, sovra un serico foglio.

Tosto che scorsi cifre d'India, un saggio
Scriba d'India chiamai, facondo e memore
Ed eloquente. Poi che lesse quella

Del prence d'India epistola regale,

Dagli occhi suoi si fe' cader le lagrime,
Chè nel foglio era scritto : « Or tu beato
Vivi, chè degno sei di regal seggio

E di vita beata! Allor che il mese
D’Azèr sarà, di Dey nel giorno, sire

Tu del mondo sarai, principe e donno.
D'anni trentotto quando giunto al segno
Sarà il dominio dell'antico padre,

In questa foggia ben sarà che in cielo

Si volgan gli astri. Splendida tua sorte
Felice allor sarà, tu la corona

In fronte ti porrai di tua grandezza ».
Ed or del tempo antico il vaticinio
S'avverava per me, non però il core
Degg'io spogliar dell'amor tuo. Ben io,
Ben io sapea che da tua sorte un giorno,
Dal tempo che s'avria gloria e splendore
L'alto tuo seggio, del dolor soltanto


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— 343 —

Partecipe sarei, d'alto travaglio
Avrei rancura, intenebrato il giorno
Che chiaro mi splendea. Ma, per la fede,
Di Dio per grazia, per l'amor di padre
E il vincolo di sangue, io di quel foglio
Nel volto mio non mi crucciai. Volgendo
Mille pensieri, poi che letto l’ebbi,
A Shirìna mia dolce il confidai,
Ed esso con l'oroscopo tuo antico
Or si sta presso a lei, nè alcun di tanto
Secreto o il meno o il più conosce o vede.
Che se ciò vuoi mirar, fanne ricerca,
Perchè tu ancor del più e del meno il vero
Scopra con gli occhi tuoi. Penso che tosto
Che tu il ver scorgerai, di ciò che festi,
Andrai pentito e a riparar la mala
Opra il cor volgerai con pronta cura.

Di carcere parlasti e di catene
Onde venne a ciascun per opra nostra
Danno e periglio. Ma sì fu cotesto
Da che fùr l’opre di quaggiù, dal tempo
De' prischi eroi, dei re de’ re pur anco.
Se tu nol sai, dimanda a' sacerdoti,
Chè forse ei ti faran chiara la mente
In tal soggetto. Ognun ch'è a Dio nemico,
Male sarà se vivo lasci in terra.
Ma nel carcere nostro eran davvero
Devi maligni, onde lamenti e lai
Aveano i buoni. Perciocchè non era
Di noi costume sparger sangue e dentro
Gittarci all'opra rea con foga insana,
In carcere serrai le genti ree,
Ch'io periglio d'altrui non ebbi a vile.
Or però bene udii che hai tu disciolti
Cotesti sì, che d'un maligno serpe
Son peggiori d’'assai. Per l'opra trista


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— 344 —

Colpevole ti festi a Dio dinanzi,

Reo ti se' fatto nelle tue parole,

Reo nell'opere tue. Saggio tu adopra,

Poi che principe sei; del sapiente

Ti fa un amico, se tu ben non vedi,

E non far grazia a chi t'è poi cagione

D'affanno e di dolor, s'anche speranza

Da lui ti vien d'ampio tesoro. Oh! quale,

Quale è cosa miglior d’aspre catene

E di ceppi a colui donde alla terra

Altro non scende che periglio e danno?
Anche dicesti a me de le ricchezze,

Ma il tuo consiglio e la saggezza tua

A te stesso celasti. Io da nessuno,

Fuor che tributi e che balzelli, mai

Nulla volli cercar, da chi potea

Dar que' tributi. Molte volte alcuno

Sì mi dicea: « Quei son li tuoi nemici,

Della semenza d’Ahrimàne ei sono,

Ei sono rei ». Ma perchè sol di Dio

Ebbi pensiero, di costor le male

Parole non curai qual cosa abietta.

Da Dio soltanto la corona mia

Ottenni e il trono e tolleraì per essi

Grave fatica assai. Ma Iddio signore,

Giudice vero, tramutò mia sorte

In altra guisa; e nulla in terra avviene

Fuor di ciò ch’Ei desia, sì che grandezza

Non cerchiam noi quand'Fi ci umilia. Noi

Compiacimento dell’Eterno solo

Cercammo in terra, chè dal suo favore

O da rancura ch’Egli infligge, scampo

Mai non vedemmo. Quando sia che noi

Interrogar vorrà l’Autor del mondo,

Le manifeste e le secrete cose

Tutte diremgli. Oh! allora, un ch'è più saggio


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— 345 —

Di te, farà i dimandi, un che più forte
È nel castigo e nella grazia ancora.

Ma i rei che stanno a te dinanzi, cura
Mai non avranno del tuo duol, congiunti
A te non sono. Ogni più trista cosa
Che di me van dicendo, ai tuoi nemici
Ridiranno di te. Servi elli sono
Dell’or soltanto e dell'argento, e niuno
Che ti soccorra, in essi avrai. Frattanto,
Hai tu per essi giubilante il core,

Ciò che al peccar di me fia purgamento.
O forse questo dire alla tua mente

Non accordasi ancor, nè fia che alcuno
Colgane frutto l'anima perversa

Di que' maligni. Ma per questi appunto
Che hanno tristo desìo, tosto che letto
Avranno sì questa regale epistola

In pehlèvica lingua, altri conosca

Che mai dinanzi ai re splendor non hanno
Bugiardi detti. Questo foglio in terra
Sarà di me qual monumento, ai saggi
Consolator nel loro affanno. Allora

Che le parole mie leggerà alcuno,
Conoscerà lo stato mio verace.

Ma noi già un tempo di Bertàs, di Cina
Fin da la terra, eserciti menammo
E in ogni loco un duce nostro ancora
Ponemmo a governar. Sovra i nemici
Fieri assalti menammo e la cervice
Niuno osò sollevar. Poi che i nemici
Furon dispersi per la terra attorno,
Tutti ricolmi li tesori miei
Furon d’un tratto. Innanzi a me la terra
Era all’opere intenta e perle fulgide
Per me dal mare si traean. Davvero!
Che i palombari andavan lassi e stanchi


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— 346 —

Dall’opra lunga dell’estrar! Frattanto,
Erano cosa mia campagne e monti

E mari ovunque, e se il regio tesoro
Delle argentee monete iva disperso,
Nuove sportelle si facean ricolme
Dell’auree tosto, di rubini ancora

E di gemme reali e di stromenti

Fieri di guerra e di vesti e di tuniche.
Come poi d'anni sei con venti ancora
Tempo toccò questa corona mia,
Rigurgitava di lucenti gemme

IM mio tesoro. Alle monete mie

Nuovo conio formai, volsimi allora

Ai godimenti ed al gioir. Nell'anno
Che il novero mi fèi di mie ricchezze,
Cento fiate centomila vennero

Gli aurei denari. Andavano disperse,
Sparse andavano attorno le monete
Peydavesì, peydavesì di Persia
Andavan anco. E ben dodicimila
Dentro ad ogni sportella eran monete,
Mentre disperse andavan quelle tutte
Imperiali oltre a’ balzelli e a quelli
Nummi d'India o di Grecia o del paese
De' tristi maghi, oltre a l’offerte e ai doni
D'ogni terra a l'intorno e d'ogni prence
E d'ogni illustre, senza dir la pompa
Del primo di dell’anno e i riti sacri
Della luna di Mihr, senza le ancelle
Vaghe nel volto, i palafreni, tutti

Gli elmi, gli usberghi, le ferrate clave,
I ferri che a nessun per voglia trista
Non ricusammo, senza dir fragranze

Di canfora e di muschio e i drappi in seta
E gli ermellini, le villose spoglie

Di bianchi lupi e di lontre rossastre.


<pb n="8.347"/>
— 347 —

Ognun ch’era soggetto al nostro impero,
Cotesti carchi su’ cammelli suoi
Fortunato avvincea, venia correndo
Al nostro ostello imperial, nè alcuno
Da nostra legge in altra parte il capo
Volgere osò. Davver ! che sopportammo
Fatiche assai d'ogni maniera, colmo
Perchè così n’andasse ogni tesoro
Che in disparte giacea. Verde chiamai
Questo tesoro e il Tesor della sposa
Chiamai quell'altro, e per quel che serbai
Della sventura ai tristi giorni, assai
Del nome suo feci parole e al fine
Il Superbo il chiamai. Così quegli anni
Ventisei del mio regno ad otto e trenta
Giugnean nel tempo che quest'alto cielo
Al mio desire sì volgea conforme.
Forti, aitanti di persona i prenci
Erano allora, timorosi i tristi.

Or poi che intesi del real tuo grado,
Male incolse alla terra per cotesta
Tua nuova autorità. Nessuno intanto
Tranquillo si vivrà per l'ampia terra,
E ben sarà che resti inerte ognuno
E nel silenzio. Ma tu vuoi davvero
Il mondo empir di danni e guai, dolente
Impresa inver che non ha frutto. E sono
Di periglio per te grave cagione
Quei che sono appo te, che ti son quale
‘ Amica stella in tenebrosa notte.
E sì quest’alto seggio tuo vorranno
Disperdere e atterrar, perchè pel mondo
Andar felice tu non debba. Oh! almeno
Il sapiente fosse a te vicino,
Da cui l’anima tua ch'è fosca e trista,
Si ricevesse alcuna luce! Allora


<pb n="8.348"/>
— 348 —

Per doni che fai tu, non recheresti

Danno ad alcuno, chè il tesoro tuo

A chi n'è degno, arriverebbe. O figlio,

O figlio mio di brevi giorni ancora,

Di poco senno ancor, l’anima tua

Toglie a sè stessa la sua dolce pace

Con l’'atre cure e co’ pensieri! Sappi

Che questo mio tesor gli è tuo sostegno,

Che tutto ora si sta nella tua mano

Di tuo regno il destin. Forte un'aita

Ad un regno è il tesor, chè rovinando

Sen va la terra che non ha monete,

E si fa ingiusto ogni monarca allora

Che monete non ha. Pregio e possanza

Non ha colui che ha mani vuote, e quando

Ei non aggia al donar forza o potere,

D'ognun ludibrio, non già re, le genti

Soglion chiamarlo. Che se il tuo tesoro

Discende in potestà del tuo nemico

(Qual se venisse un idolo funesto

De’ Brahmani in poter), poca di Dio

Avrà cura il fedel, scemerà pregio

Al tuo nome, al tuo dir. Di genti armate,

Se tesoro non hai, forte un drappello

Mai non fia che tu ottenga e di monarca

Non ti daranno i tuoi soggetti nome.

Cane che un tozzo cercasi di pane,

Buono sì mostra ; ma nemico all’alma

Tua si farà, tosto che sazio il rendi.
Parlasti ancor di ciò che féèi di mie

Falangi armate, quali io posi attorno

Per ogni terra in su le vie. Cotesto

Per tua mancanza di saper ti spiace,

Nè discerner sai tu la via che reca

Buon frutto o danno. Or questa è la risposta:

Per mio diuturno faticar soltanto


<pb n="8.349"/>
— 349 —

Inclito venne a me regal tesoro,

Ch'io le città ritolsi agli stranieri

E i miei nemici scompigliai, perch’io
Seder potessi poi con molta pace

Delle delizie sovra il trono, sciolto

Da ogni trista rancura e da cordoglio

E da ogni affanno. Pei confini attorno

I cavalieri miei tutti dispersi,

Onde poi fra gl’indegni emerser quelli”
Che pregio avean maggior. Ma se richiami
Da tutte parti le falangi tue,

Aperta si vedrà chi t'è nemico,

Ratto Ja via. Chè Irania è qual giardino
Nella stagion di gaia primavera,

Ove sempre le rose disiate

Si veggono fiorir, pien di narcisi,

Pien di mele cotogne e melagrani,

Di pomi pieno. Ma se vuoto restasi

Da chi lo cura il bel giardin, dall'ime
Radici sue chi svelle il basilico,

E chi rompe i suoi rami al melagrano,
E chi a' cotogni. L'armi degli armati
Son quale un muro intorno a Irania e sono
Le frecce sue su le superbe torri

Qual di spine uno schermo. E se da stolto
Atterri del giardin l’eretto muro,

Come tra loro fian diversi gli orti

E i deserti, de' monti le pendici

E il vasto mare? Guarda che tu mai
Quel forte muro non atterri adunque,
Che il core ed il vigor tu non infranga
Dell’iranio guerrier, chè allor saranno
E rapine e tumulti in ogni parte,

Grida di cavalieri, alto desio

Di vendetta pigliar. Ma i fanciulletti,
Ma le donne d'Irania e la sua terra


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— 350 —

Non lasciar derelitti, abbandonati,

Per un malo pensier. Che se passasse

Anno per te di cotal foggia, il savio

Stolto ti chiamerebbe e forsennato.
Intesi ancora che donasti grado

Alto e possente a chi n'è indegno. Sappi

Che Nushirvàn, che re Kobàd antico,

Questo dicean de' lor consigli saggi

Su le carte notate: « Ognun che porge

L'armi al nemico, dà sè stesso a morte,

Chè tosto che quell'armi ei ridomandi

Quando vengangli all'uopo, ecco! che il tristo

Con chi aita gli diè, scende a battaglia ».
Del greco Imperatore anche mi festi

Lungo sermone e me chiamasti vile

E reo dell'alma e cupido in mie voglie.

Pur non eran di te veracemente

Queste parole, chè sermon son elle

Di chi te le insegnò. Ma tu che sai

Di tanta lealtà del tuo maestro

E dell’ingiusto operar mio? Discernere

Sai tu forse lealtà, sai tu ingiustizia ?

Intendi omai che mia risposta viene,

Ed ella così suona: Oh! mentecatto,

Nulla dirò fuor che di quanto è d'uopo

E sì conviene. Tu l’accusa fai

E vieni ancora in testimonio. Il saggio

Non approva cotesto. Allor che il greco

Imperator si liberò da noie

Che la sventura apporta, ecco! che prendesi

Genero suo per militar valore

Il giovane Perviz. Ognun che il mondo

Sol per desio del mal va percorrendo

E non ha senno nella mente sua,

Ben sa che scompigliar non si potea

Con greca gente Behràm tracotante,


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— 351 —

Behràm dell’armi cinto, allor che a lui
Ogni iranio guerrier s'era congiunto,
Come affrenar non può mobile arena
Una rupe montana. Oh! ma l'Eterno

In quella pugna aiutator mì venne,
Onde abietta mi parve agli occhi innanzi
Ogni ampia schiera della terra. Seppero,
Sepper gl'Irani ciò che avvenne allora;
Intenderlo t'è d’uopo, e tu da quelli

Il ridomanda. Ciò ch'io far dovea

Per Niyatùs nel giorno de l'assalto,

Io feci sì con alma generosa

E con umana ancor, quel fiero giorno
In ricompensa computando a lui.
Farrukhzàd pure tel dirà, ma il mondo
Non guardar tu con occhi da fanciullo;
E Gashòàsp ti dirà, quei ch’era allora
Mio tesoriero, ti diran l'intègro

Mio sacerdote ed il ministro mio,

Che centomila eran sportelle colme

Ne’ miei tesori allor, quali donai

In mio ricordo a’ greci prodi. Mille
Gemme donando a Niyatùs, v'aggiunsi
Oro lucente ed orecchini, e il peso
D'ogni gemma che diei, era di mille,
Quali poi computai, perfette e giuste
Oncie del mio tesor. Perle donai

D'una bell’acqua ancor, cento nel novero,
In cui non rinvenia difetto alcuno
L'’uom che n'è sperto. Oh sì! colui che gemme
Suole estimar, di dramme trentamila
Ad ogni gemma dato avria valore!
Cento v’aggiunsi palafreni ancora

Di gran valor, cinquanta di lucenti
Selle forniti, da’ presepi nostri

Scelti con cura, ed altri poi che drappi


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— 352 —
Di broccato s’avean su l’ardue selle,
Quali in campo deserto erano uguali
A rapida bufera. Io queste cose
Al greco Imperator tosto mandai
E benedissi all’opulenza mia.
Ma per la croce del Messia, di cui
Motto facendo vai, rancido legno
Che là si giace ne' tesori miei,
Da cui non venne a me danno giammai
Nè giovamento (e tu clamor già udisti
Di gente a Cristo ch'è devota), assai
Stupor mi tocca se di Grecia un sire,
Inclito assai, di gran valor fra l’armi,
Intorno a cui stan molti saggi e molti
Sacerdoti e filosofi e dottori,
Dio sì proclama quell'ucciso e cosa
Stima di Dio questo già attrito ed arido
Legno di croce. Che se un dio pur fosse
Questo inutile tronco, alto, qual stella,
Or splenderebbe sovrastando a questa
Candida luna, e da’ tesori ancora
Saria fuggito a l'improvviso. Cristo
Andò, nè il legno qui restar dovea.

Or tu dicendo vai: « Scòlpati e intanto
Fa penitenza e prenditi la via
Di Dio sovrano ». Alle parole tue
Questa è risposta : Deh! si perda il labbro,
Perdansi mani e piè, la lingua perdasi
Del fanciullo Kobàd! Posemi Iddio
Questa corona in su la fronte ed io
Sì l’accettai, vissi beato e lieto
Per mia giustizia. Quando poi mi tolse
Iddio quel serto, a Lui lo resi, e nulla,
Nulla ben so che dir si voglia in questo
La lingua tua, la bocca tua. Ma parlo
A Dio soltanto, non ad un fanciullo


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— 353 —

Che tra il male ed il ben nulla discerne.
Io però l’opre tutte dell’Eterno
Gradii volente, ben che in terra assai
Torbido e amaro abbia gustato a prova ;
E intanto fùr di me gli anni trascorsi
Ed otto e trenta, e niun de’ prenci in terra
Erami egual. Ma chi donommi il regno
E altra cosa or mi dà, non però impone
Obbligo a me verso d'altrui. Soltanto
Io benedico a questo regno illustre,
Onde soltanto per chi è saggio intorno
L'ampia terra fiorisca! Allor che Iddio
Aita porge ed è sostegno a noi,
Niuno ardirà far biasimo di noi.

A Kharràd poi si volse il re del mondo
E così disse: O nobile rampollo
De’ sapienti di quaggiù, tu parla
A quel fanciullo impetuoso e stolto
Che nulla sa. « La gloria mia s’oscura,
Gli dirai tu. Per sempre addio, chè solo
A’ saggi in terra volger vo’ la mente
E l'opra mia ». Ma voi, nobili Persi,
Facondi e ricchi di valor, per sempre
Ambo v’abbiate un mio saluto, e nulla
Ridite al figlio mio fuor che parole
Che ascoltaste da me. Lode all’Eterno,
Signor del mondo, sempre io fo, chè il mondo
Altro non estimai fuor che passaggio
Rapido e breve. Muore ognun che nacque
Dalla sua madre, se tu fai ricordo
Da Khusrèv a Kobàd. Hoshèng illustre
E Tahmuràs, Gemshid, alta cagione
A questa terra di speranza e tema,
Ei che le fiere a lor comando e i Devi
Sottomessi traean, ratto che al termine
Lor giornata venia, partian dal mondo




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— 354 —
Spirando in pace. Quell'illustre ed inclito
Prence Fredùn che da la terra lunge
L'opre male cacciò secrete e aperte
E la man di Dahàk, arabo sire,
Dal male oprar frenò, pel valor suo
Libero non uscì del rio destino
Dall’artiglio rapace. Arìsh moria,
Ei che avventava le saette rapide
Ad una parasanga, e quell’invitto
Kàren moriva, espugnator gagliardo
Di nemiche città. Kobàd moria
Che d’Albùrz da le cime un dì scendea
E per valor ch'egli ebbe, in fra le genti
Fu signor della terra, ei che un palagio
Si fabbrico di fulgidi cristalli
E di fama riempì la terra intorno
Per quell’ostel meraviglioso. Ancora
Moria Kàvus regnante, ei che sua possa
Volle sperimentar, che il mondo resse
Con sapienza e nobile consiglio,
Indi al cielo saliva alto e sublime,
Fi che nulla sapea de’ mutamenti
Dell'avverso destin. Fulgide perle
D'una bell’acqua gli ornamenti suoi,
E di rubini corruscanti e spessi
Era fregiata la sua reggia. Ancora
Moria Siyàvish, inclito leone, +
Quale atterrò ne’ giorni suoi più belli
Due fere tigri, che Kang-dizh un loco
Fe' ad abitar con molto stento, nullo
Dal faticar traendo poi tesoro.
Ove ne andava re Afrasvàb, antico
Di Turania signor, di cui nessuno
Vede l’ugual non pur sognando, e dove,
Dov'è Rùustem e Zal, dove quel forte
Isfendiàr, di cui restò parola



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— 355 —

Memore in terra? Ove n’andò quel saggio
Gùderz e que’ settanta eletti suoi
Figli animosi, cavalieri tutti
Nella palestra e leoni in battaglia?
Ov'è prence Khusrèv, nobil leone,
Quale in battaglia ogni gagliardo eroe
Abbattere solea ? Dov'è Gushtaspe,
Alto signor, che la verace fede
Accolse di Zerdùsht, onde la gloria
Si rinnovò d'Irania nostra ? E dove
Andò Iskendèr, inclito eroe, per cui
Iva la terra in iscompiglio ? E dove,
Dov'è Giamàsp che in noverar le stelle
Di Venere e del Sol più assai splendea
Per sapienza ? Ov'è quel glorioso,
Monarca Behràm-gòr, di cui nessuno
Era pari in valor, non nella forza,
Di cui non fu regnante eguale in terra
Per magnanimo cor, sì che toccarne
L'inclito capo non osava il cielo ?
Dov'è quell’avo mio, d'’alma serena
Inclito prence, reggitor del mondo,
Re Kìsra Nushirvàn? Dove son quelli,
Sette e quaranta, che regnàr la terra ?
Tutte l’opere lor precipitaro
In un profondo obblìo, tutti son iti
I grandi e i saggi e i cavalieri, in guerra
Un dì gagliardi, e i sapienti ancora,
Fra cui ben era questo di colui
Migliore per virtù, quello per gli anni
Di questo era maggior. Quest'ampia terra
Sgombraron tutti e si lasciàr da sezzo
I palagi e le torri e le palestre.

Niuno fra i prenci mì fu egual, quantunque
Tardiva età questi anni miei raggiunta
Non avessero ancora. Io camminai


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— 356 —

Nella fortuna e trista e rea la terra,
Non però volli che sventura mai
Di me avesse vittoria. Anche mi schiusi
Per difficili vie molte fiate
Il varco e molti a me nemici lungi
Da me innanzi cacciai. Ma ogni contrada
Piena è frattanto de' tesori miei,
E fatica è pur mia là 've scorrenti
Acque tu vedi e coltivati campi.

Che se vita per me cessa del mondo
E tutta già s’intenebra speranza
De' prenci di quaggiù, non sempre il trono
Di chi mi è figlio rimarrà, ch'ei pure
Da quel trono cadrà, la sua fortuna
Al termin suo venendo. E allor che un angelo
A rilevar verrà questo mio spirto,
« Deh! gli dirò, l'anima mia ti prendi
Lene e dolce così! ». Per pentimento
Quest'integro cor mio farò sereno,
Usbergo a me farò ch'io non fèi segno
A mie offese altri mai. Vera de' saggi,
De’ sapienti già del mondo esperti,
È la sentenza: « Quando in giù precipita
La vigile fortuna, ogni sgomento
É pur forza provar. Se di grandezza
Trapassa il giorno per alcun, se indietro
Ei tenta revocar quel dì fuggito,
Mente e senno ei non ha ». Questo è messaggio
Che al mondo invio presso monarchi e servi.
Ma lunga non andrà stagione ancora
Che il novello signor con le falangi
Sue gloriose a contrastarsi in campo
Con l'armi scenderà, desto all’intorno
Alto incendio di guerra in ogni loco.
Così, per man del figlio ucciso il padre
Allor sarà, sarà trafitto in questa


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— 357 —

Guisa medesma per la man del padre
Il giovin figlio. Ciò che disse un giorno
Il mio nemico, ben farà con sue
Opre non belle e con parlar malvagio;
Ma poi, quando sarem di qui partiti,
Trista la pena avranno i tristi e molto
Non si godranno lor poter. Di mia
Grandezza poi che giunse e di mio regno
Il termine così, deh! che mi cale
Di Shirùy prence o d'altri al grado suo?

Del nobile signor poi che il messaggio
Ebbero inteso Ashtàd e il figlio illustre
Di Berzìn valoroso, ecco! parea
Che d’una freccia trapassato il core
Ad ambo i saggi egli si avesse. Posero
Alla fronte la mano ambo dolenti,
Ambo pentiti di lor detti, e intanto
Ambo le gote percoteansi. Alfine,
+ Per l'acerbo dolor, sul colmo petto
Le vesti laceràr, di negra polve
Sparsero il capo e si partir piangenti
Dal cospetto regale, ambo vegliardi,
Saggi ambedue, pieni di doglia al core,
Qual da una punta di mortal saetta
Trapassati nell’alma. E ritornàrsi
Così, con volto corrucciato e mesto,
Sazio di doglia il cor, nella presenza
Di principe Shirùy. Del vecchio sire
Il) messaggio ei dicean partitamente
A lui, di forza e di prudenza scemo.

III. Angoscia di Shîrày-Kobfd.
(Ed, Calc. p. 2040-2041).

Amaramente a lagrimar si diede
Shirùv, come ascoltò, tremò quel core


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— 358 —

Pel trono allor, pel diadema; e quando
Dinanzi a lui de’ principi la turba
Si levò per partir, quella che noia
Gli procacciava e con parole stolte
Al sangue lo spingea del genitore,
Del giovane signor l'alma inesperta
Accendendo così, dal regal trono
Rapido scese e l’inclite sue mani
Alla fronte recò. Stille di pianto
Giù gli scendean pel colmo petto allora
Da le ciglia, e di ciò novella intese
Dell'esercito suo la -folla accolta.
Davver! che per quel pianto e per que’ lai
Del re novello ebbe timor nel core
L'ampia falange degli eroi! Sen vennero
Tutti raccolti a un appartato loco
A favellar di re Khusrèv. Se ancora
In trono asside re Perviz, diceano,
Calpesterà col piè vincente il capo
D'ogni principe suo, d'ogni suo duce.
Quando levò su le montagne ombrose
Il sol la fronte sua, quando si scosse
Da’ sonni suoi la mente de' ribelli,
Salîr tutti alla reggia. In trono allora,
Tosto che udì, si assise il prence e vennero
Gli eroi superbi innanzi a lui, d'eroi
A lui congiunti e a lui stranieri immensa
Turba raccolta, e là sedean con volti
Corrucciosi e dolenti, nè la lingua
A far parole si movea per nulla;
Ma l’iranio signor così dicea:
Ben degno di patibolo è colui
Che non si duole per dolor del padre.
Io dir lo vo' di rea natura e tristo
D'alma e di corpo; nè si vuol che in lui
La sua speranza alcun riponga. Attrito



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— 359 —

E putrido egli è più d’imputriditg
Ramo di salce. — E chi sen va gridando:
« Servo son io di due regnanti » (questa
Risposta egli ebbe da' ribelli eroi),
Abbiasi nel tuo cor nome di stolto.
S'anche gran pregio egli ha, dillo tu abietto.
Ma Shirùy rispondea: Re che tesori
Non ha, non trova esercito fedele.
Noi, per un mese ancor, dolci parole
Al vecchio re deh!rivolgiam, parole
Acerbe e dure in verso a lui tacendo.
Forse lieti andrem noi di qualche suo
Ammonimento, chè d’Irania il suolo
Tutto è un tesoro di Khusrèv dovunque.
Udîr quella risposta, indi levàrsi,
Mossero per tornarsi a lor dimore.
Prence Shirùyv a’ dispensieri allora
Così parlò: Nulla sottrar si debbe
A re Khusrèv da noi. Mense dorate
Voi ponetegli innanzi e v'imbandite
Di cibi dolci e di piccanti e forti
Ogni maniera. — Le prescritte dapi,
Chi la mensa imbandia, recava allora,
Ma re Khusrèv già non gustò de' cibi
Che là vedea su l’imbandita mensa,
Non già de’ caldi, non de’ freddi. Tutte
Per la man di Shirina eran le sue
Vivande preparate, or che soltanto
Consolatrice ne’ suoi molti affanni
Era Shirina. Al vecchio prence amica
Costei fu sola e il sostenea nel suo
Grave dolor la notte e il dì. Con lui
Ella si stava nella speme ancora
E nel timor, ch’ella per lui tremava
Come trema di salce alla bufera
Un sottil ramo. Così fu che tutta


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— 360 —

Una luna trascorse, e il di e la notte
Stavasi nel suo duol Khusrèv antico,
Sempre le colpe sue, le sue peccata,
Rimembrando nel-cor, nel viver gramo
Nîiun conforto trovando e niun soccorso.

IV. Lamento di Barbed.

(Ed. Calc. p. 2041-2042).

Ed ora di Barbéd il laio ascolta,
L’altre cose di qui dimenticando.

Barbèd, nobil cantor, tosto che intese
Che contro a suo voler, contro al consiglio,
Il regal seggio avea sgombrato il sire,
Che altri un'arte sottil si meditava
Per trarlo a morte, chè il ribelle esercito
Caro già non avea che in ceppi ei fosse,
Da Cihrèm se ne venne in Tisifuna
Pien di lagrime il ciglio e pien d’angoscia
Il cor dolente. Al regio ostello ei corse
E vide il prence, pallide le gote,

Già rubiconde, quale è pur la rosa

Pallida del fiengreco. Egli alcun tempo

Là si fermò ne la regal presenza

E al trono s'accostò con pianto grave.
Fiamma d'amor si raccendea nel core

Dì Khusrèv per l'angoscia, e quella fiamma
L'anima e il core divorar parea.

Così, dagli occhi suoi versando lagrime
Qual nuvola piovosa in primavera,
Quando già il grembo lago gli si fea
Per le stille cocenti, alto un suo laio
Su nota musical Barbèd compose,

Un pianto ei fe’ sul flebile liuto


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_ 361 —

Mestamente cantando. Ei quel lamento

Fe' in pehlèvica lingua, e le sue gote

Erano smorte e pien d’affanno il core.
Nobil prence, ei cantò, Khusréèv illustre,

Grande, possente e magnanimo eroe,

Dov'è di re la tua grandezza e quello

Tuo sovrano poter? Dov'è la tua

Antica maestà, la tua fortuna

E il diadema? Dov'è pur la tua

Alta statura e il tuo regale incesso

E la tua benda imperial? L’eburneo

Trono dov'è, dov'è de’ tuoi monili

La copia, dove la virtù guerriera

E la forza e la gloria onde la terra

Ti custodivi sotto l’ale? E dove,

Dov'è la stanza de la tua fanciulla?

Dove i musici tuoi, dove la reggia

E l'aula imperial, dove i tuoi prenci?

Dov'è la tua corona ed il vessillo

Di Kàveh antico e dove i brandi tuoi

D'un ceruleo color? Dov'è quel tuo,

Capo e corona d'ogni saggio in terra,

Giansipàr, che orecchini aurei vantava

E trono tutto d'or? Dov'è quel tuo,

Nero qual notte, nobile destriero,

E la sua sella e le sue staffe? Egli era,

Il nobile destriero, impaziente

A te di sotto. Ov'è la fronte tua,

Dove l'elmo e la tua dorata maglia

Tutta a gemme annodata? Ove son quelli

Tuoi cavalieri da le aurate redini,

Di cui la spada fodero condegno

Avea nel petto dei nemici? e dove,

Dove i cammelli tuoi rapidi al corso

E i tuoi dorati palanchini e i tuoi

Servi fedeli? Dove i dromedari,


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— 362 —

Dove ì corsieri e i candidi elefanti?
Deh! che fatti siam noi senza speranza
Per l’anima di te! Dov'è pertanto,

Dove quel tuo parlar dolce e facondo?
Dove il tuo core, il nobile consiglio,

La serena alma tua? Perchè restasti,
Dopo sì grandi cose tue, tu solo?

Come del viver tuo nel libro arcano
Legger potesti la tua sorte avversa?
Deh! mai non sia che ardimentoso alcuno
Verso il fato si mostri! È più possente
Il tosco del destin d'ogni apprestato
Balsamo altrui. Ma tu cercasti in core
Che sostegno ed aita il figlio tuo

Ti fosse; ed ora dal tuo figlio istesso

A te vengono i ceppi! I re son forti
Sol per i figli, e contro a' ripetuti
Assalti del destin sol per i figli

Non han difetto. Ma cadeasi affranta

E forza e maestà del re dei regi

Poi che del figlio suo maligno e reo
Statura crebbe. Ognun che il tristo fato
Di re Khusrèv intende, ardimentoso

In terra mai non sia! Deserto ignudo
Irania tua sì bella ecco! tu pensa,
Pensala di leoni e leopardi

Orrido covo. De' Sassani prenci

Alla nobile stirpe era il re nostro
Inclito duce (la corona e il trono

Mai non vedranno chi l’uguagli in terra),
Ed or la nobil stirpe andò dispersa,
Deserta è Irania, e compiesi desìo

De' suoi nemici. Esercito maggiore

Di quel ch'ebbe Khusrèv, non ha un regnante ;
Ma chi di tanti eroi venne per lui

Il soccorso a cercar? Danno cì venne


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— 363 —

Dal custode maggior di nostra greggia
Or che in tanta rovina agreste lupo
Balzò improvviso. Or vada alcuno e dica
A principe Shirùy: « Deh! svergognato
Che di principe hai nome, opra sì rea
Degna non era di monarca illustre!
Oh! le falangi tue non terran fermo,
Ratto che guerra da ogni parte intorno
Levisi contro a te ». Ma Iddio sovrano
E fattor dì giustizia all’alma tua,
Khusrèv antico, sia propizio e il capo
A te s'umilii de' nemici tuoi!
Giuro per Dio, per l’alma tua, signore
D'Irania illustre, giuro per la prima
Alba dell’anno, per la festa santa
Di Mihr e per la bella primavera,
Che se questa mia man d'ora in avanti
Musical suono a suscitar si appresti,
Niun d'un saluto mi consoli. Io stesso
Il mio liuto struggerò nel fuoco,
Per ch'io mai più, per esso, del nemico
Del mio prence e signor rivegga il volto.

Così due dita ei si troncava e due
Di quella man sì esperta e strette in pugno
Le dita tronche si tenea. Tornando
Alla sua casa una gran vampa accese
E il flebile liuto arse in quel fuoco.

Ma chi frattanto si vivea da presso
All’antico signor, la notte e il giorno
Temea per la sua sorte incerta e oscura.

V. Uccisione di Khusrev-Perviîz
(Ed. Calc. p. 2043-2045).

Poi che inesperto e timido mostrava
Shirùy sè stesso, un laccio eragli a’ piedi,


<pb n="8.364"/>
— 364 —

A lui di sotto il regal seggio. Tale
Che l’uom sa giudicar, chiaro vedea
Che de' prenci ribelli anche dovea
La giornata arrivar. Ciascuno intanto
Che male oprò, che con ardor giovata
Avea l'impresa contro al vecchio sire,
Venne dinanzi a re Kobàd nell'erma
Sua reggia e ricordò l'alto misfatto
E disse: Una fiata a te dicemmo,
Questa fiata anche diciam, che in mente
Altro pensiero hai tu. Quando seduti
Énno a un sol trono due regnanti e l’uno
Ha il sommo e l’altro il basso grado e cerca
Il padre sì di stringere col figlio
Vincol più stretto, ratto de' lor servi
Caggion tronche le teste. Oh! non siam noi
In ciò che fai, consenzienti, e tu
D'oggi in avanti di cotesto mai
Non ci far motto. — Ebbe timor di tanto
Prence Shirùy. Timore avea, chè preso
Egli era sì, come un abietto schiavo,
Fra gli artigli di quelli, onde risposta
Così rendea: L’antico re nessuno
Col laccio piglierà se non colui
Che ha nome tristo. Andarne ora v'è d'uopo
A vostre case e far su ciò consiglio.
Cercate voi chi trovisi pel mondo
Che tal travaglio e cotal noia ardisca
Secretamente togliere da noi.

Ogni più avverso dell'antico .prence
Un manigoldo ricercò, che lui
In secreto uccidesse. Oh! ma nessuno,
Nessun per l'ampia terra aveane ardire,
Niun di sì gran coraggio iva partecipe,
Onde il sangue versar fossegli dato
Di sì gran prence e togliersi tal peso,
Quale d’un monte, su la sua cervice.



<pb n="8.365"/>
— 365 —

Ma di Khusrèv cercavano i nemici
In ogni parte, fin che tal rinvennero
Soletto in su la via. Cilestri gli occhi,
Smorte le gote, la persona asciutta,
Irta di peli, livide le labbra,
Lordo di fango il piè, rattratto il ventre
Per molta fame, dell’uom tristo il capo
Scoperto al sole. Niun pel mondo invero
Sapeasi il nome di costui, fra tanti
Principi e servi; ed ei però, sì reo
E sì protervo, a Farrukhzàd ne venne
(Deh! mai non vegga il lieto paradiso
L'abietto spirto!), e come a lui proposta
Fe’ del misfatto Farrukhzàd, a quella
Opra acconciossi prontamente e disse:
Impresa mia questa battaglia! Sazio
Se di vivande mi rendele voi,
Cotesta è preda mia! — Vanne, gli disse
Allora Farrukhzàd. Fa, se tu puoi;
Indi non aprir mai su tal soggetto
Le labbra a favellar. Per te qui tengo
D'aurei denari una ricolma borsa,
Ch'io qual mio figlio t'ho alleato e amico.
Diedegli allora, splendido qual’onda,
Acuto un suo pugnal, sì che partia
Rapido l'omicida, il cor ripieno
D'un feroce desio. Come quel tristo
Giunse da presso al re sovrano, lui
Trovò soletto con un suo fedele
Paggio dinanzi al regal soglio. Un tremito
Ebbe prence Khusrèv ratto che il vide,
E dalle ciglia lagrime di pianto
Per le gote versò. Già gli era il core
In testimonio che l'estremo tempo
Giunto era omai, sì ch’ei si volse e disse:
Deh! tu malnato quale il nome tuo?


<pb n="8.366"/>
— 366 —
Chè piangere dovrà chi ti diè vita
Un giorno! — Mihr-Hormùzd altri mi chiama,
Disse l’uom tristo, e son straniero in questa
Ampia città; non ho consorti o amici.

Oh! soggiunse Khusrèv, dunque per mano
Di costui vile e reo così mi arriva
L’estremo tempo mio! Già non somiglia
Ad uman volto il volto suo; nessuno,
Nessun mortal l'amor di lui si cerca!

Ritto in piè là si stava il giovinetto,

E al giovinetto così disse il prence:

Deh! tu cortese che m'’aiuti, vanne,
Recami d’acqua un colmo vaso e muschio
Ed ambra pura e la più intatta veste,
Gradita all'alma. — Come udì quel cenno,
L’arcana intenzion del suo signore
Non anche intese il garzoncello. Il paggio,
Fanciullo ancora ed inesperto, uscia
Dal cospetto regale, aurea una conca
Recava al nobil re con una vesta,

Con un'ampolla piena d'acqua, allora .
Che s’affrettava re Khusrev da questa
Terra infelice ad emigrar. Non tosto

De le sacre verbene ei vide il fascio,
Che a mormorar si diè preghiere; tempo
Quello non era da gittar parole,

Non di secreto favellar. Le vesti

Intatte si cingea l’iranio sire,

Di sue peccata si pentia, le preci
Mormorando sommesse. Al capo alfine
Posesi nuovo, ancor non tocco, un velo,
Del suo tristo uccisor l'orrida faccia

Per non veder quando avanzò, nel pugno
Con la lama fatal, chiuse le porte

Alla stanza del re tutte a l’intorno,
Mihr-Hormuzd. S'avventò rapido e pronto,


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— 367 —

La regal veste sollevò, col ferro
Squarciò al sire del mondo il cor nel seno.

Così adunque si muta e si rivolge
L'instabile fortuna, ella che sempre
A te nasconde il suo segreto. Il saggio
Che pensa i detti suoi, sciolto da cure,
E l’uom stolto ed insano altro dall’opre
Non veggon del destin che con ludibrio
Offesa e danno. Anche se tu raccogli
Ampio tesoro per la terra o sola
Tocchi fatica e travaglio del core,
In questa vita ch'è sì breve e grama,
Lunga stagion non rimarrai. Deh! scegli
Il non far danno altrui, seguì giustizia,
Se per giustizia toccar vuoi tua lode.

Ma per le piazze e per le vie l’annunzio
Ratto che venne, in tal maniera ucciso
Giacersi re Khusrèv, corsero i tristi
Al carcere d’un moto, al tetro ostello
Corser degli infelici. Erano allora
Quindici figli dell’estinto sire,
Nobili e illustri giovinetti, in ceppi
Nell'albergo real. Tutti nel carcere
Fùr trucidati esti innocenti allora,
Allora sì, che d’alto la fortuna
Di re Khusrèv precipitò. — Parola
Non osò dirne de la terra il sire,
Prence Shirùy, ma rinserrò nel core
L'alta sua doglia. Come n’ebbe annunzio,
Molto però ne pianse e alcuni suoi
Fidi custodi (venti eran) mandava,
Perchè degl’innocenti alle diserte
Donne e ai fanciulli fossero custodi,
Dell’ucciso signor dopo la morte.

Così cessava di Khusrèv l'impero
E le falangi e la grandezza e tutta


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— 368 —

La possanza e il valor. Tanta grandezza
Alcun non ebbe mai de’ prenci irani,

Nè mai l’udì ridir da’ saggi antichi
Famosi e grandi. Ma chi è savio e dotto
In favellar, valor non ha se il capo
Tien tra le fauci de la sorte avara,
Orrido serpe. E tu non altro il fato
Appellerai che alligator feroce

Che ciò che prese fra gli artigli suoi,
Sotto ai denti maciulla. Ecco! che cadde
Di re Pervìz la gloriosa sorte,

Sparve quel trono suo, sparve il tesoro
Celebrato e l'esercito pur anco!

Ma chi speranza ha del destino in terra,
È come tal che cercasi giocondi

Frutti d'un salce fra le rame. Oh! dunque
Perchè correndo vai, smarrito il calle,
Per l’atra notte e il dì sereno? Grata
Abbiti al cor qual da la sorte ottieni
Cosa quaggiù, se pure all’alma offesa
Non cerchi o danno, e stima te soltanto
Privo di forza e di poter, se ancora
Qualche fiata hai vigorosa mano.
Generoso sentir, amor del giusto, -

Qual costume ti prendi e nel pensiero ©
Pensa leggiadre cose. Anche fa doni

E godi fin che puoi, chè, se tu togli
L'aurea moneta, tutte cose in terra
Altro ron son che doglia e affanno. Oh! quanto
È migliore per noi fedele amico,
D'amici fedeltà deh! quanto è buona!


<pb n="8.369"/>
VI. Morte di Shîrina e di Shîrîy.
(Ed. Calc. p. 2045-2050).

Poi che giornata di Khusrèv addussi
Al termin suo, l'istoria di Shirina
Comincio e di Shirùy. — Come trascorsi
Fr tre giorni e cinquanta dal fatale
Tempo che giacque il nobile signore
D'Irania ucciso, re Shirùy fidato
Un amico inviò là da Shirìna
Che le dicea: Donna possente e astuta,
Autrice di magie, nulla tu sai
Che sortilegi ed incantesmi e in tutta
L’irania terra quella ben tu sei
Di maggior colpa rea. Sol per incanti
L'antico sire governasti, e forse
Con tue magie discendere dall’alto
Far potresti del ciel l’errante luna.
Abbi adunque timor, tu peccatrice,

E vieni presso a me, non arrestarti
Lieta e sicura nella tua dimora.

Per tal messaggio si crucciò Shirìna,
Crucciossi ancor per le parole ree,
Maledicenti, e così disse: Quei
Che il sangue già versò del genitore,
Mai non abbia grandezza e maestade.
Io quel malvagio non vedrò giammai
Non pur da lunge, non in giorno mesto,
Non in giorno di gaudio. — Indi uno scriba,
Consolator nelle sventure sue,

Con un libro composto nell’antico
Pehlèvico sermon, fe’ addursi innanzi,
E in quello il saggio trascrivea consigli




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— 370 —

Di }ei, di sue ricchezze alto il valore
Fea manifesto. In picciolo vasello
Alcune stille di velen rinchiuse
Ella tenea, di cui l'avverso balsamo
Per le città non si potea cercare,
Ed ella seco il ritenea, la sua
Funeral benda all'agile persona,
Qual bel cipresso in un giardin cresciuto,
Componendo così. Mandava intanto
A re Shirùy cotal risposta: Sire
Incoronato, che sollevi in alto
La cervice superba, ecco! le tue
Parole che dicesti, andaron via
Qual vento passeggier. Di quel malvagio
Che altro nome non sa ‘per l'ampia terra
Fuor che d'incanti e sortilegi e trista
Gioia ne sente, perano dispersi
L'anima e il core! Che se tal natura
Avea prence Khusrèv, sì reo costume
Da conforto cercar ne' sortilegi
All’alma stanca, stavasi ne’ suoi
Dorati ginecei una maliarda,
Di cui, non vista in pria, poscia ei si stava
Il volto ad-ammirar. Ma per conforto
Dell’aftlitto suo core egli m’avea
Sempre al suo fianco, e ogn'alba, allor che gli occhi
Ei dischiudea, da sue dorate stanze
Solea chiamarmi e nella vista mia
L'anima confortar. Ma tu vergogna
Abbi di queste tue parole stolte,
Chè non s’addice a re che regni, un detto
Menzognero giammai. Dio ti ricorda
Di grazia donator, ma que' tuoi detti
D’altri al cospetto non ridir più mai.

All'iranio signor quella risposta
Fu allor recata e contro all'innocente


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— 371 —

Re Shirùy s’adirò. Schermo al venire,
Ei disse, qui non è, non è nel mondo
Feroce donna come te che al sangue
Col core aneli. Ma tu vieni e mira
L’alto fastigio della mia corona,
E se bene a me sta, fa per me voti.
Piena d’affanno, come udì cotesto,
Si fe’ Shirina. Ella si dolse e pallido
Color si fe’ delle sue gote, allora
Che rispondea: Non io verronne al tuo
Fianco, o signor, se non con un’accolta
Di gente saggia al tuo cospetto, esperta,
Nel legger dotta le notate cifre.
Raccolse re Shirùy cinquanta saggi,
Antichi, esperti, ed a Shirina un messo
Poscia inviava a dir: Lévati e vieni
Al mio cospetto. Ciò che è detto, basti.
Shirìna, come udì, negra ed azzurra
Cinse una vesta ed all'iranio sire
Sollecita ne venne e a presti passi
Il giardin penetrò che il Gaio è detto,
Laddove a conversar nobili i Persi
Raccogliersi solean. Quivi ella assise
Dietro a un velo regal, quale è costume
Di donna saggia e vereconda e onesta.
Inviavale un messo il re sovrano,
Dicendo: Già toccò yna luna intera
Il lutto di Khusrèv. Consorte mia
Or tu deh! vieni perchè un dolce frutto
Goder tu possa, non mirando a grado
Minor del grado imperial. Diletta
Come già il padre mio t'avrò al mio fianco,
Anzi più bella e più d'assai famosa.
Il dritto mio qual prima cosa rendimi,
Shirina rispondea, chè allor soltanto
Pronta a' tuoi cenni fia quest'alma. Allora


<pb n="8.372"/>
Mai non sarà che dal parlar con teco
Io cessi, obbediente al tuo comando,
Cedevole al desio del tuo bel core.
Acconsentia prence Shirùy, perch'ella,
Vaga e leggiadra, tutto espor dovesse
Il novello suo dir. L’inclita donna
Di dietro a’ veli suoi così rispose:
Invitto e lieto deh! sii tu, signore;
Pur, tu dicesti che son io maliarda
E incantatrice e da giustizia aliena
E da onesto costume. — E fu cotesto,
Shirùy le rispondea; ma i generosi
Dell'ira: altrui non pigliansi vendetta.
A’ nobili di Persia che raccolti
Erano nel giardin, che il Gaio è detto,
Shirina disse allor: Che mai vedeste
Di colpa in me, qual mai opra non bella,
Qual menzogna o stoltizia? Ecco! molt'annì
Regina fui d'Irania vostra, in tulte
L'imprese ai forti valido sostegno,
E nulla mi cercai che anche giustizia
Non fosse, e lungi di menzogna sempre
E d'ingiustizia da me furon l’opre.
Molti, per mie preghiere, ebber governo
D'opulente città, sempre pel mondo
Ebber cospicua sorte. E se in Irania
Un'ombra in mia ricchezza alcun già vide
O nel mio serto o negli adornamenti,
Dicalo aperto, s’egli intese o scorse,
Perchè risposta manifesta venga
D'ogni cosa per me. — Quanti eran prenci
Nel cospetto del re, fean di Shirina
Laudi sincere: Non è donna in terra
Pari a costei, non in secreto loco,
Non in aperto. — Principi, rispose
Shirina allora, o d'ogni cosa esperti,


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— 373 —

Duci che opraste grandi cose in terra,
È chiaro a voi che per tre cose a donne
Formasi qui propizia sorte, a donne
Che degne son di regal seggio; ed una
È questa sì ch'ell'abbia verecondia

E ricchezza pur anco onde s’adorni

Per lui del suo consorte il nuovo ostello.
Seconda è questa ch’ella un figlio a lui
Partorisca, onde a lei grandezza venga
Per suo sposo felice. È terza poi

Che di volto e persona ella sia vaga,
Nobile e casta in suo virgineo stato.

Or io, nel tempo che qui venni sposa

A principe Khusrèv, per tal connubio
Quand'io qui giunsi peregrina e nuova,
Mentr'ei da greca terra sì tornava,

Non ottenuto il suo desìo, dolente

E senza possa, e fea soggiorno agli ermi
Confin d'Irania, ei nondimen toccava

Sì nobil mèta che nessun cotale

Mai vide o intese per quest'ampia terra.
Quattro figli da lui m'ebbi frattanto,
Ond'ei lieto gioia, Nestùr valente,

Firùd, Shahryàr e Mardan-shàh, corona
Di questo azzurro firmamento. Oh! mai
Da Fredùn, da Gemshid, figli non vennero
Come cotesti; e tronchisi mia lingua

Se dal ver mì dilungo! Eppur son elli,
Tutti quattro, sotterra, e l'alme loro
Aggiransi beate in paradiso.

Questo ella disse e da la fronte il velo
Si tolse, ed era luna il volto suo,
Muschio il volume de’ capegli. Questo,
Ella soggiunse, è il volto mio. Menzogna
S'ell'è cotesta, violenza opponi.

Sol per savio disegno io mi celava


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— 374 —

I miei capelli, perchè alcun pel mondo
Non vedesseli mai. Mostraili, e questa

È la magia che altri m'appone. Questo
Incantesmo non è, non è menzogna,

Non reo costume! — Pria d’allor, nessuno
Veduto avea con gli occhi suoi, nè mai
Udito avea da chi è maggior degli anni,
Crine sì vago ricordar. Stupiro

I vecchi tutti a l’inattesa vista

E acre saliva profondean dal labbro.

Ma di Shirùy, com’ei vedea le gote
Leggiadre di Shirina, ecco! che l'alma
Parve fuggir dal petto. Ei per quel volto
Attonito restò, sì che d’amore
Il cor fu pieno, ed ei le disse: Niuna,
Niuna vogl'io fuor che te sola, e quando
Te qual consorte avrò, sola mi basti
In tutta Irania. Da' tuoi cenni mai
Non andrò lungi e questo patto mio
Sulle pupille mie scolpir vorrei!

Per l’iranio signor non anche scevra
Di mia brama son io, così rispose
La vaga donna. Se tu a me concedi,
Anche due cose chieder vo’. Deh! resti
In sempiterno il grado tuo di prence!

L'anima mia gli è cosa tua, rispose
Prence Shirùy; se altro tu chiedi ancora,
Chieder ti lice. — Ogni ricchezza mia,
Shirina disse, quale è accolta in questa
Irania terra, a me partitamente
Renderai tu, dell'inclita assemblea,

Qui, nel cospetto. Le tue cifre ancora
A questo libro apporrai tu, perch'io
Da ogni cura mi sciolga e grande e lieve.

Ciò ch'ella disse, re Shirùy facea

Rapidamente, e la donna leggiadra,


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— 375 —

Tosto che al suo desio degna risposta
Ebbesi da Shirùy, scese alla via
Da quel giardin che il Gaio è detto, uscendo
Dal cospetto de' prenci e de’ seniori.

Così sen venne alla sua casa, e quivi
Liberi fece i servi suoi, que’ servi
Con sue ricchezze fe' beati. Ancora
Quant’eran cose sue diè a’ poverelli,
A’ suoi congiunti più donò d’assai,
Doni fe’ a’ templi del fiammante fuoco
Di Sadèh per la festa e per il primo
Giorno dell’anno e quel di Mihr; per molti
Ostelli ancor deserti e abbandonati,
Per ospizi, a leoni orrido covo
Già divenuti, a re Khusrèv estinto
Gratificando, fece offerte e doni,
All’anima di lui con l’opre pie
Dolce conforto. Ma discese poi
Ad un giardino e là scoverse il volto
E si assise sul suol, d'ogni ornamento
Spoglia e discinta. Le sue genti attorno
Ella raccolse e con atti cortesi
Tutti volle seduti e così disse
Ad alta voce: Chi di voi va scevro
D'ogni sua offesa inverso altrui, gli orecchi
Porga intenti al mio dir, chè d’ora in poi
Questo mio aspetto non vedrà più mai.
Quel Giudice che cerca da’ mortali
Alta giustizia, che donò sua luce
Agli astri, al sole ed alla bianca luna,
Temete voi; non parlisi da voi
Che per dir vero, chè a’ più savi in terra
In ciò difetto non s’addice. Intanto,
Dal dì ch'io venni appo Khusrèv, dal tempo
Che sue stanze dorate io penetrai
La prima volta e fui l’onor del sire,


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— 376 —

Fra le donne regali inclita e grande,
Qual colpa mai fu scorta in me? Davvero!
Che simulando pronunciar parola
Non debbesi da voi; che val cotesto
Simular presso a donna e accorta e astuta?
Tutti levàrsi da' lor seggi allora,
Sciolta la lingua a dar risposta, e dissero:
Tra le spose regali inclita donna,
Saggia, eloquente e d'anima serena,
Per Dio giuriam che te non vide mai
Alcun vivente, nè udì mai tua voce
Delle tue stanze dietro alle cortine.
Oh! davver che dal tempo fortunato
D’Hoshèng antico eguale a te nessuno
Sì assise in trono! — I paggi tutti allora
E le ancelle e gli schiavi accorti e saggi,
Avidi tutti di poter, con alte
Voci gridàro inverso a lei: Preclara,
Inclita donna, celebrata in Cina
Ed in Grecia e in Tiràz, chi dir parole
Oserà in male contro a te? Deh! come
Licito fia recarti danno a prova?
E Shirina dicea: Questo malvagio,
Di cui la fronte colpirà dall'alto
Irato il ciel, pel trono e per il serto
Uccise il padre suo. Deh! ch'ei non vegga
D'oggi in avanti sorridente il viso
Della fortuna! Forse al morir suo
Schermo questo sì fe’, ch'ei tal governo
Fe’ dell’alma del padre. Ed or messaggio
Ei m’inviava, onde fu tetra e oscura
L'attrita anima mia. Dissi che viva
Fin ch'io sarò, serva di Dio sacrata
Sarò del core, e manifesta a lui
Feci la via che volente mi scelsi.
Eppur, piena di duol qui mi son io


<pb n="8.377"/>
— 377 —

Pel reo nemico e temo sì che innanzi
Al popol tutto, con proterva lingua,
Dopo la morte mia di me infelice
Male ei favelli. Ma qual fu.di voi

A me già servo, or libero e disciolto
Sen va del capo. — Alle parole sue
Forte quelli piangean, trafitti al core
Per l’estinto Pervìiz di doglia acerba.

Ma ratto che venian suoi messaggeri
Appo prence Shirùy, le udite cose
Della innocente ripeteano a lui,

E Shirùy dimandava: Oh! qual sorvenne
Alla donna preclara altro desio?

E Shirina mandavagli un suo fido,
Qual dicea: Sol rimane anche un desio.
Deh! che al sepolcro dell’estinto sire
Io dischiuda la porta! Alto mi venne
Di rimirarlo un desiderio! — Oh! bene
Questo al certo sarà, chè ti si addice,
Shirùy le rispondea, cotal desio!

Del sepolcro la porta allor dischiuse
Il guardiano e quella donna egregia
Funebre pianto incominciò. Si mosse
E appose al volto di Khusrèv la fronte
E i casi ricordando intravvenuti,

Il veleno letal rapidamente

Ingoiò, sì che tosto la sua dolce

Vita distrusse. Ella posò daccanto
All’estinto signor, coperto il volto,
Raccolta la persona entro a una vesta
Odorosa di canfora, e appoggiando
Alla parete il corpo suo cadente,

Là si morì. Morì, da questa terra

Via si recando la sua lode e il merto.

Ben si crucciò, come ne intese annunzio,
Prence Shirùy. Del riveder l’estinta


<pb n="8.378"/>
— 378 —

Ebbe terrore e cenno fe’ che a lei

Tomba novella si apprestasse, e volle
Per lei si componesse di odorosa

Canfora un serto e in un di puro muschio.
Ferma rinchiuse poi di quell'avello

Il re la porta. Ma gran tempo ancora
Dopo cotesto non passò che un tosco
Anche a Shirùy altri apprestò. Misura
Era colma dei re su questa terra,

Ed ei che nacque in trista sorte, in trista
Sorte ancor si morì, lasciando il trono
Imperiale al picciol figlio suo.

Così quei che dominio ebbe di sette
Lune soltanto, di canfora s'ebbe

Funebre serto al cominciar di quella

Che venne ottava. Maggior bene in terra
Non è d’un trono, maggior male in terra
D'una vita non è breve e caduca.


<pb n="8.379"/>
3. Cinque re Sassanidi.

I. Il re Ardeshîr figlio di Shîrày.

(Ed. Calc. p. 2050-2053).

Del regno d'Ardeshìr, poi che cotesta
A me qui giunge inevitabil cura,
Parole or io farò. — Tosto che assise
Prence Ardeshìr sul regal trono, vennero
Dalle iranie città giovani e vecchi,
Molti famosi eroi, d'età provetti,
Bramosi d'ascoltar qual mai parola
Detta egli avria. Si assisero cotesti
Appo il nuovo signor da tutte parti,
Incliti tutti in ogni lor contrada.

Ardeshìr giovinetto allor disciolse
La lingua a favellar. Famosi eroi,
Disse, che opraste grandi cose in terra,
Quei che si asside in regal seggio, aperta
Abbia l’anima sua, fedele a Dio
Mostrisi ancor. De’ prischi re la norma
Noi seguiremo e sezuirem lor gloria
E lor religion. Sempre di Dio,

Dator di grazie, facciasi ricordo

E giuste siano ognor l'opere nostre

E l'altre imprese. Chi è devoto a noi,
Sosterrem noi, ma punirem col sangue


<pb n="8.380"/>
— 380 —

Gl'ingiusti e i rei. L'esercito affidiamo

A Pirùz di Khusrèv, che di giustizia

Gode per l'opre e pel suo re va lieto,

Chè, se duce in Irania è pari a lui,

Tutti ènno allegri e d'anima serena.
Molti tranquilli in cor per sue parole

Furono allora, e di lui per la quieta

Anima e dolce ognun toccò sua brama.
Ma di ciò ben giugnca novella ancora

A principe Guràz, per cui già un tempo

Fu Khusrèv in affanno e struggimento.

Guràz di Grecia un messaggier spedìa

Saggio, eloquente, e sì dicea: Caduta

Di Shirùy infelice è la corona

Al suol calpesta. Oh! possa nell'inferno

Ir prigioniera l’alma sua feroce

E cader rovesciato da l'altezza

Il suo sepolcro! Chi sapea che l'alto,

Nobil cipresso danno e offesa un giorno

Avuto avrìa da l’erbe del giardino

Putride e fiacche? Del destino il core

E l’acuta pupilla oh! non vedranno

Pari a Khusrèv un principe in Irania,

Pari a Khusrèv, da cui ci venne questa

Grandezza nostra, onde servendo a lui

Unqua da luì non ci partimmo. Oh! dunque

Lui giù precipitò dal regal soglio

Il reo destino e volse la fortuna

Da lui la fronte e la rotante vélta

Di questo ciel rissavasi con lui

E sua parte gli fe’ del suol profondo

Il grembo oscuro! Così dunque a lui

Togliean la luna e il sol l'antico regno,

Toglieano a sì gran re la sua corona

E l'alto seggio! Ma poichè fortuna

Diè a principe Shirùy regal potere,


<pb n="8.381"/>
— 381 —

Tutte d’Irania le città superbe

Umiliò. Morì Shirùy, ma tosto

Re divenne Ardeshir, per cui son lieti

Ecco in Irania giovinetti e vecchi;

Ed io, se pur mi venga alcuna parte

D'Irania a me, non soffrirò che spiri

Vento importuno sul suo capo illustre.

Or però, poi che nulla ebbi novella

Di re Perviz quand’ei morì d’un tristo

Per la calunnia e per l'accusa, tale,

Quale Ardeshìr, ricuso un prence, ancora

Che senza re lunga stagion rimanga

L’irania terra. D'Ardeshir la mente

È tutta piena di perverse voglie

E in esercito altrui tutta è riposta

La sua speranza. Or io verrò con l'ampia

Schiera de’ miei, verrò con duci eletti

E d’Irania e di Grecia, e vedrem noi

Chi sia cotesto re che si diletta

Di cotesti consigli. Oh! ma dal fondo

Io svelleronne le radici, ond’ei

Mai più ci parli di suo tristo regno.-
Rapido un messaggier pose alla via

Perchè n'andasse dell’irania terra

A' prenci anziani, indi per altra guisa

Reo disegno compì, foglio inviando

A Pirùz di Khusrèv. S’intenebrava,

Scrisse, fortuna de' Sassàni prenci,

E chi brama ha d’onor vuolsi che accingasi

Arditamente a nuova impresa. Forse

Arte in questo saprai, saprai tu forse

Nuovi pensieri ordir. Cèrcati molti

Fra’ giovani e fra’ vecchi amici e soci

E d’Ardeshìr da la presenza il mondo .

Fa di sgombrar. D'allora in poi l'intento

Del tuo core otterrai, securo e pago


<pb n="8.382"/>
— 382 —

Andrai con tua quiete. Ove poi fuori
Questo secreto darai tu, darai
Sangue alla spada della mia vendetta,
Ed io di Grecia menerò cotale
Esercito guerrier, che tetra e oscura
Farò la terra agli occhi tuoi. Tu intanto
Con profondo pensier guarda il mio detto.
Deh! mai non sia che vil ti sembri questa
Novella impresa mia, chè non è d’uopo
Che tu perisca stoltamente. Scendere
Non déi sotterra dall’altezza tua,
Dal seggio tuo, nè pentimento allora
Ti gioveria, quando già tronco il capo
T'avesse il ferro mio per mia vendetta.

Epistola cotal come vedea
Pirùz figlio a Khusréèv, tutto scoverse
Qual fosse di colui avido e altero
Il disegno verace, e in prima assai
Meditò nel suo cor, poscia co' prenci
Ch’eran più anziani, ebbe consiglio e disse:

Giungemi repentina esta faccenda
E manifesto rendesi consiglio
In pria secreto. — Principe che cerchi
Fama quaggiù, ricco di pregi, tale
Dagli anziani venia risposta a lui,
Se cade estinto il nuovo re, fia d’uopo
Che da noi si precipiti a rovina
Per tanta colpa. Or tu, per le parole
Di principe Guràz, cosa sì rea
Non far, ma d'opre oneste arte ti cerca
E al foglio di colui, quale s'addice,
Fa una risposta e dal suo tristo sonno
Desta la mente rea. « L'alto consiglio
Di Dio signor, tu gli dirai, non sperdere,
Fino al tuo cor non schiudere tu il varco
A _ un tristo Devo e pensa al mesto caso


<pb n="8.383"/>
_ 383 —

Di re Perviz, alla ignobile impresa

Che a morte il trasse. Che se tu dal trono

Traggi in basso Ardeshir, cade fortuna

De’ re Sassàni tutta a un tratto. Allora

Che al trono suo regal Shirùy si assise

E la cintura imperial de’ Kay

Si cinse a’ fianchi, altro desio non ebbe

Che de’ bei giorni di Perviz trascorsi,

Chè la sua mente in ogni impresa sua

Precipitava. Che se in questa guisa,

Quale allor fu, si resse il mondo, frutto

Già non ebbe Shirùy da l’opra sua

Grave e tremenda. Le terrene cose

Per l'opra stolta ch'egli fea, si volsero

Di tal foggia così, che sparve a un tratto

Ogni sperato frutto. Or che si assise

Qual re sovrano su quell’alto seggio

Ardeshìr giovinetto, all’alto loco

Di re Kobàd, per la grandezza sua

Godon le genti e la terra gioisce,

Gioisce il fato per la sua che il cinge

Inclita maestà. Deh! che val mai

Che vostra terra che tranquilla posa,

Vadasi tutta per novella doglia,

Per nuova guerra, in iscompiglio? Oh! voi

Di vostra man non battete alla porta

Della sventura! Non è fausta cosa

Un re innocente trucidar, nè vuolsi

Che questa volta rapida del cielo

Tutta Irania diserti. E temo assai

Che per quest'opre lagrimose e triste

Fine agl’Irani non imponga il fato! ».
Pirùz, questi consigli allor che intese,

Un'epistola scrisse apportatrice

Di buon frutto a Guràz,.tristo e malnato. —

Deh! mai non sia che re come costui


<pb n="8.384"/>
— 384 —

Tocchi alla terra! — Ma di ciò sentore
Com'ebbesi Guràz, che con la force
Alcun gli avesse attanagliato il core,
Detto avrestù. Forte disdegno egli ebbe
Per Pirùz di Khusrèv, tutte dispose
L’altre sue cose, ei principe d'’eroi,

E cenno fe’ che in armi le sue schiere
Uscissero d’un tratto alla campagna,
Dalla città venendo. Ecco, l'annunzio
Anche a Pirùz ne corse, ed egli in via
Rapido pose un messaggier che venne
A Tokhàr, il chiamando. Ei fe’ parole
Su cotesto d'’assai, diègli novelle

Di Guràz del disegno e de la guerra
Che al serto imperial movea costui.

A Pirùz di Khusrèv questa risposta
Da Tokhàr venne: Per sangue di prenci
Dell’iranico suol, duce famoso,

Tanto non ti crucciar. Quelle parole

Che Guràz già ti disse, ecco tu ascolta.
Ma se scritto gli hai tu quel foglio tuo,
Sol verrà contro a te per sua vendetta.

Il foglio di Tokhàr tosto che vide
Pirùz figlio a Khusrèv, posa non ebbe
Per malvagio pensier quel cor turbato,
L'anima sua chiara e serena in pria
Fosca divenne, modo ripensando
Ch’egli al suo prence qualche danno fesse.

Ardeshir a ogni tempo a sè chiamarlo
Solea, ch’egli era in favellar facondo
E memore ed accorto; eragli in guisa
Di ministro, era a lui de’ suoi tesori
Anche custode. In un'oscura notte
Venne Pirùz ed ebbe accesso, e vino
Luccicante trovò nel regio ostello
E dolci detti. Nelle stanze sue


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— 385 —

Stava seduto re Ardeshir, con lui
Erano alquanti giovinetti e vecchi;
Ma ratto che da lui così venìa
Pirùz, il figlio di Khusrèv, la fronte
Detto avvestù che più del ciel levava
Per la gioia Ardeshir. Tosto ei fe’ cenno
Che concento festoso incominciasse,
E di canti e di suoni incontanente
L'aula fu piena. Della notte oscura
Come fùr corse l’ore medie, il sire
Bevuto avea di purissimo vino
Una misura ed ebbro stava, ed ebbri
Erano d’Ardeshìr tutti gli amici.
Niun de’ musici là, niun si restava
Savio di mente. Ma del re gli amici
Fuori cacciava l’'uom perverso allora
E soli si restàr nell'aula regia
Ardeshir e Pirùz. Balzò d’un tratto.
Il violento dal suo loco e chiuse
Al re le labbra con la man repente,
E tenne sì, fin che Ardeshir spirava.
Piena la casa di freccie e di spade
Allor divenne, ed eran questi i socì
Di Pirùz di Khusrèv, nuovi bramosi
Di gloria e di poter, guerrieri e duci,
Così di quattro e di due mesi il regno
Fu di prence Ardeshìr. Per questa via
Del dolce viver suo termine giunse.

II. Il re GurAz FerAyiîn.
(Eà. Calc. p. 2058-2057).
Pirùz appo Guràz mandava un messo

E con esso un’epistola secreta.
Come giunse quel messo, ecco! che l’anima




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— 386 —

Di Guràz tenebrosa, al nuovo gaudio,
Come sol si fe' chiara. Ei tale esercito
Menò con sè, da quella terra, in armi,
Che chiudere parea valico ai bruchi
E dell’aria e del suol. Corse qual nembo
Vér Tisifuna. Le sue forti schiere
A sparger sangue erano pronte, e allora
Ghe da tal parte dell'irania terra
La sua gente venia, tutti a l’incontro
Vennergli i prenci su la via remota,
Ma niun fiatò di quella schiera, e molta
Gente raccolta inver non era allora.
Guràz nella città rapido entrava,
Non consiglieri, non ministri in essa
Lasciando, ma volea deserto un loco,
E là sedeano i prenci suoi con lui
Tutti in secreto. Come sciolse allora
Pirùz figlio a Khusrèv la lingua sua,
Fe’ questi detti: Eroe famoso in guerra,
Chi mai scegliesti al grado imperiale,
Di tal serto d'onor che sia ben degno?
Nulla in secreto per l'irania terra
Serberem noi, così facea risposta
Belligero Guràz. Novello sire
Diman vedrete, qui seduto in trono,
Bello qual nuova luna. Onor” s’acquista
Per scienza il mortal; tu, fin che puoi,
Non camminar nell'ignoranza tua.
Parole acconce dice l'uom che ha senno,
Senno quand’egli ha in cor, libero sempre
Sen va dal male. Ma prudenza è ancora
Il ben migliore pei mortali, e questa
È pur legge del mondo, e questa è via
Che l'Eterno segnò. Nobile impresa
Non ricordi colui con sermon lungo
Ove indegno ei ne sia, ch'egli sè stesso



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— 387 —

Stoltamente per ciò d’onta fa degno,
Anche se altra fiata opere egregie
Potea compir. Ma poi che da la mente
Il senno si parti, poi che fuggia
Pudor dagli occhi, vituperio e gloria,
Nobile orgoglio e assiderato core,
Son cose eguali. Di tal uom che poco
Ha d’uman senso, alcun non teme, e nulla,
Nulla più val se vivo egli è, se morto
Giace sotterra. Oh! fin che puoi, costume
D'opre egregie ti prendi! In sempiterno
Non resta il mondo per alcun. Soltanto
Sia la tua norma generoso core,
‘Giustizia e verità sian la tua fede.
Ma Guràz Ferayin come sul capo
De' Kay si pose il diadema, quante
Cose vennergli in mente ei disse allora.
Se possanza regal, disse, tu eserciti
In alcun tempo e in trono d'or t’assidi
Beato e lieto, meglio assai ti fia”
Che servir sessant'anni allor che perdesi
Il paterno tesoro e la cervice
Sempre levasi altera. Ecco che omai
Con regal dignità qui anch’io mi assido,
D'auro e di raso con le vesti. E ancora
Dopo di me sederà in trono il figlio,
E la corona imperiale in fronte
Si poserà, signor d'Irania un giorno
Come il padre sarà, levando il capo,
Gloria acquistando. Chi per noi si allegra,
Alla sua gente d'ogni dolce brama
Compimento procaccia, e noi frattanto,
Lieti del cor, nel tempo de’ banchetti
Berrem del vino e farem segno ai nostri
‘Colpi in tempo di guerra ogni nemico.
Secretamente allor così gli disse


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— 388 —

Il maggior figlio: O padre mio, di noi
Chi mai fia re? Quieto e securo mai
Deh! non pensarti e a radunar tesori
Solo t'adopra. Se del mondo sire
Or diventasti, una fiata almeno
Opera e fa. Che se qualcun venisse
Della semenza degli antichi regi,
Lunga stagion qui non staresti. In core
Dolor ti rimarrà, doglia e corruccio,
Pel tuo breve regnar, sarai tu misero
E derelitto e pallido a le gote.

Indi gli disse il minor figlio: Intanto
Che nel mondo sei tu re incoronato,
Di grado imperial cosa è ben degna
Ampio un tesoro ed uno stuol d’armati.
Preso resterai tu dalla rancura
Se tesor non avrai. Fredùn illustre
Che Abtìin per padre avea, forse che regi
Ebbe in sua casa pria di lui? Tu dunque
Col tesoro e ir valor reggi la terra,
Chè non nasce giammai dalla sua madre
Un uom già fatto re. — Piacquero al padre
Ben più d’assai queste parole, ed ei
Al maggior figlio così disse: Cose
Stolte e inconsulte, deh! non far! — Ma poi
De’ prenci ne' scrittoi pose ufficiali
E l’esercito suo tutto alla regia
Dimora sua raccolse e per quel giorno
E per la notte tenebrosa attorno
Donò monete e dispensò suoi doni ’
A molti indegni. In settimane due
Di re Ardeshir nell’inclito tesoro
Cosa pregiata non rimase quanto
D'una freccia è la piuma. Ogni fiata
Che negli orti regali ei discendea,
D’ambra odorosa rilucenti faci


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— 389 —

Sol recava con sè. D'oro e d’argento
I vasellami suoi; che s’eran d’oro,
Aspri di gemme ei si vedean pur anco.
Ottanta eran dinanzi, erano ottanta
Le faci dietro a lui; venìan da sezzo,
Fautori suoi, gli amici; era di lui
Consùeto costume ad ogni notte
E bevere e cibarsi, e ai prenci tutti
D'odio era piena l’anima sdegnosa
Contro a lui sì, che per l’oscura notte
Aggiravasi attorno ad ogni tempo,
Per gli orti e per le piazze ei s’'aggirava,
Nulla sapea di cotest'uom sì vile
La mente insana fuor che dolci sonni
Sfiorar poltrendo e correre impazzando
E bevere e mangiarsi e far rapine.
Ebbro pel molto vino ei si dormìa
Costante e avvolta in pannolin di Cina
Tenea la fronte. Così fu che sdegno
Ebbe di lui l’esercito raccolto,
Piena di doglia e di tumulto piena
Fu la sua terra. Ferayìin superbo
Non generoso anche mostrossi intanto
E per opere ingiuste ebbesi poi
La sorte irata e il frutto suo disperse;
Danno le genti avean, danno ed offesa,
Per l’opre sue non giuste, e sotto al pondo
Del grave suo poter fieri lamenti
Aveano e lai. Degl’innocenti il sangue
Versava il tristo, e però n’ebbe sdegno
Alto e implacato la sua gente. Tutto
Guràz avventurò, pur che in sua mano
Oro in copia venisse, ei che potè
Vender per le monete il regno ancora.
Ad imprecar contro costui le labbra
Sciolse la gente e disiò sua morte;


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— 390 —

Indi gl'Irani a un appartato loco

Si congregàr secretamente ed ebbero
Per l’opre di Guràz parole assai.
Hormuzd Shehràn Guràz molte in secreto
Parole disse in una notte oscura,

Ei, d’Istakhàr città nobile fiore

Tra ì cavalieri, onde agli irani prenci
Venian gloria ed onor. Famosi eroi,
Disse agl’Irani, grave assai divenne
Questo di Ferayin tempo nemico!

Lieve de’ prenci tutti egli fa stima;
Perchè adunque di voi si fean pusilli

E il cerèbro ed il cor? Ma son di lagrime
Pieni gli occhi per lui, ma pien di doglia
È il sen di tutti e a l’invadente male
Un sanator non anche è in vista. Eppure
Un de' Sassàni egli non è, semenza

Non è de’ Kay. Perchè dovremgli innanzi
Cinger le reni come servi? Certo

Che via dal vostro petto il cor volava

O che nel ventre l’atro fiel svania!

Poi che niuno restò, così rispose
L'accolta gente, di regnar ben degno,
Anche per odio non levasi in mente
Ad alcuno il pensier di romper fede
Al malnato signor. Pur, tutti noi
Con teco ci accordiam, di' ciò che sai
Di questa impresa tua, per qual maniera
Si francheggi per noi l’irania terra
Dall'insano signor, stolto di mente,

Di cui non sono le parole oneste,

Non giuste l’opre. Deh! non sia giammai
Che per giustizia il lodi alcuno! — Allora
Shehràn Guràz così lor disse: Lunga
Stagione inver cotesto degl’ Irani

Stato infelice sì protrae. Se voi


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— 391 —

Nulla in danno di me far vi pensate,
Ma sì con me v’adoprerete, quale

Di generosi è pur costume, lui,

Per la forza di Dio santo e verace,
Dall'alto trono gitterò al suolo.

Questa risposta dagl’Irani egli ebbe:
Deh! maì non sia che danno ti raggiunga,
Nobile eroe! Qui siam, dell’ampia schiera,
Oggi alleati tuoi. Che se t'incoglie
Mal da ciò che farai, rocca e difesa
Qui ti siam noi. — Come cotesto intese
L'eroe fedele a' prischi re, l'assalto
Contro a l’indegno re cercava intento.

Apprestavasi un dì l’iranio prence
E per cacciar dalla cittade uscìa,

Seco venia schiera d’Irania, quale
Prence fosse e qual servo. Il palafreno
Incitò Ferayin dal loco suo,

In ogni parte, rapido qual fiamma
D'Azergashàspe, corse, e i cavalieri
Cerchio attorno gli fean, contro a le belve
Correndo per cacciar. Ma del ritorno
Vér la città nell’ora, ecco che gli occhi,
Senza timor, Shehràn Guràz tenea
Sull'ignobile re fermi ed intenti.
D’acciaio un dardo con la forte punta
Cercava poi dentro al turcasso e intanto
Il bruno suo destrier dal loco suo

Forte spingea. Guardavalo frattanto

La schiera degli eroi. Ma quegli al braccio
Recando l’arco suo, talora al petto

SÌ l’accostava e talora alla fronte,

E qual per giuoco una mortal saetta
Alla corda innestava. Allor che a dietro
L'acuta punta ne fu tratta, il pollice
Levò quel prode e la fulminea freccia


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— 392 —

Venne improvvisa dell iranio prence

Il dorso a trapassar. Cadde la sferza

Ch'egli in pugno reggea, ma la volante

Freccia passò fino a le penne sue

Pel sangue e fuor ne uscì da l'umbilicu

La ferrea punta. Trassero le spade

Subitamente i prenci allora, e tosto

Salì la notte paventosa e tetra

Dall'arenosu campo. Essi le spade

Tutta la notte che seguì, vibrarono,

Nè questi quello discernea. Costui

Ebbesi da colui, quello da questi

E busse e colpi, ed un benedicea,

L'altro imprecava. Come in ciel mostrossi

L’aureo velo de' rai che il sol ricinge

E luci ed ombre ebbe per lui la terra

Qual è di pardo maculata spoglia,

Molti pel campo si vedeano uccisi,

Molti feriti, e cavalieri e duci

Fra lor sdegnosi. Ma l’irania schiera

Ampia si disperdea pel campo attorno,

Qual si disperde, poi che vide il lupo,

Di pecore codarde un ampio gregge.
Lunga stagion si rimanean gl’Irani

Senza monarca allor, nè alcun venia

L’iranio serto a dimandar. D'assai

Cercaron figli de’ regnanti prischi,

Niun fu scorto per lor di sangue illustre.

III. La regina PàrAn-dokht.

(Ed. Calc. p. 2057-2058).

Eravi allora una fanciulla, il nome
N'era Puràn, benchè, se donna regna,
Mal camminan le cose. Ella rimasta


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— 393 —

Era soltanto dell’inclita stirpe
Dei re Sassàni e molte carte avea
D'antichi re già lette. I prenci irani
Lei collocàr sul trono imperiale
E gemme le gittàr plaudendo al piede.
Puràn-dokht così disse: Intorno sperdere
Non voglio il popol mio. Colui ch'è misero,
Ricco farò del mio tesoro, ond'ei
Non sì rimanga alla distretta. Oh! in terra
Dolente alcun non sia, chè a me periglio
Viene dal suo dolor. Ma i rei nemici
Lungi sì manderò da questa terra,
Quale è norma dei re via seguitando..
Di Pirùz di Khusrèv indizio intanto
Ella cercava ed un verace indizio
Uno straniero le recò. Novella
Come ne giunse a Puràn-dokht, assai
Ella trascelse nobili guerrieri
Da l’esercito suo. Come poi tratto
Le fu innanzi Pirùz, così ella disse:
Malvagio capo, o d’indole perversa,
Or sì dell’opra che tu festi, degna
Ricompensa t'avrai, quale sì spetta
Ad uom codardo e vil! Dell'opre tue
Abbiti pena, qual s'addice a tale
Di cui fortuna umiliò la fronte.
Un giovane puledro, anche non atto
A portar sella, da’ presepi suoi
Ella cercava e sul puledro il tristo,
Senza la sella, avvincere ella fea
Con fermi nodi, gittatogli in pria
Aspro al collo un capestro. Allor costei,
Signora omai di sua vendetta, al piano
Della palestra il giovane destriero,
Inesperto di sella e al correr presto,
Fe’ addur subitamente e cavalieri


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— 394 —

A quel piano inviò, con lacci attorno

All'alto culmo di lor selle. Ei videro

In qual foggia traea quell’infelice

Qua e là impazzando il rapido puledro,

Come ad or l’avventasse, indi sè stesso

Giù rovesciasse al suol. Plausi dattorno

Levavansi al destrier furente omai,

Fin che a Pirùz caddero a brani a brani

Le carni tutte lacerate e il sangue

A poco a poco ne stillò; rendea

Lo spirto alfin miseramente il tristo.
Deh! perchè mai ricerchi tu giustizia

Da opera ingiusta? Veramente solo

È il male al male oprar giusto compenso,

E a chi giustizia fa, ciò far si addice.
Resse la terra con amor, con fede,

Regina Puràn-dokht, nè su la terra

Balzò dall’alto ciel vento importuno.

Ma poichè trascorrean di suo regnare

Sole sei lune, di sua sorte a un tratto

Volser le seste tortuose. Giacque

Egra per sette giorni e si moria,

Portando seco il nome suo preclaro.
Questo è costume del rotante cielo,

In ogni opera sua forte e possente,

Mentre siam noi tapini. Oh! che ti vale

Se misero sei tu, se grande e ricco,

Se breve o lungo è il viver tuo, se pago

È il tuo desio per ciò che brami, o tristo

Vai tu per tal desìo che non si compie?

Sia che tesori tu possegga, sia

Che faticando viva, in sempiterno

Mai non fia che rimanga il tuo tesoro,

Non il tuo faticar. Che valgon cento

Anni di regno o mille ancor, che valgono

Sessanta o trenta o dieci o quattro? Allora


<pb n="8.395"/>
— 395 —

Che vital giorno a terminar s'affretta,
Cose pari son queste, anni aver molti,
Anni aver pochi. Sol ti siano amiche
L'opre elette che fai; questo ti basti,
Ch'elle ti sono aiutatrici in ogni
Loco, per sempre. La caduca vita
Lascia libera andar dal poter tuo,
Chè altro loco ti attende assai di questo
Più ricco di valor. Che se t’accingi
Cose egregie a imparar, per sapienza
Spaziar potrai tu per l'alto cielo.

IV. La regina Azermi-dokht.

(Ed. Calc. p. 2058-2059).

Altra fanciulla eravi allor che nome
Azèrm avea. Desio della corona.
Della grandezza imperial la prese,
Ed ella venne e de' regnanti prischi
Si assise al loco e governò la terra.
Diss'ella in pria: Saggi d'Irania, esperti
In tutte cose di quaggiù, possenti
Che molto opraste, a giustizia conformi
Sian vostre imprese, chè una pietra nuda
Farete un dì vostro guancial sotterra.
A chi propizio mi sarà, qual madre
Io sarò veramente, e porgerògli
Valida aita di monete e ancora,
Se fia ch'ei pecchi, pazienza lunga
Avrò per lui. Ma se la legge mia
Alcuno infrange, se da norma o via
Ch'è di ragion, sen va lontano, a un legno
Appendere io faronne il tristo corpo
In turpe guisa, cavalier di Grecia
O d’Arabia egli sia, o borgomastro.


<pb n="8.396"/>
— 396 —

Così per quattro mesi ella sul trono
Rimase, e al quinto rapida sorvenne
Rovina all’alto loco suo. Morìa
Azèrm ancora e senza prence il trono
D'Irania si restava, alla mercede
Abbandonato de’ nemici suoi.

Queste son l'opre del rotante cielo,
Odio egli porta a chi nutriva un giorno.

V. Il re Farrukhzad.

(Ed, Calc. p. 2059-2060).

Da Gihrèm Farrukhzàd chiamava allora
Disiosa la gente e su quel trono
Imperiale il fea seder. Sull'alto
Seggio dei re com’egli fu seduto,

Con alma intègra benedisse a Dio,

Del mondo creator. Figlio mi sono,
Disse, de’ prischi re d’Irania bella,

Ned altro in terra cercomi bramoso
Fuor che de’ miei la sicurezza. Tale
Che danno va quaggiù d'altri cercando,
Fin che prence sarò, non fia che mai
Grande divenga. Ma chi cerca e brama
Verità nel suo cor nè induce mai
Mancamento o difetto in sua giustizia,
Come l’anima mia caro e gradito

Da me terrassi, ch'io non vo' che offesa
Abbia chi offesa non arreca ad altri.
Chi travaglio o fatica avrà per noi,

Al faticar premio s'avrà da noi

Ampio tesoro. Ma gli amici nostri
Farem segno d’onor, ma i prenci tutti
Faremo illustri in ogni loco, e sempre



<pb n="8.397"/>
— 397 —

Fia securo di me chi sta soggetto
Al mio potere, avverso o amico ei sia.
L'esercito de’ prodi alti fe’ voti
Di conserto per lui: La terra e il fato
Orbi giammai non sian di te, signore!
‘Ma ratto si volgea di lui sul trono
Un, mese appena in ciel, quando l’altezza
Di sua fortuna al suol precipitava.
Leggiadro qual cipresso agile e snello
Un suo paggio egli avea, bello, aitante
Ed avvenente. Siyah-ciàshm il nome
Era del paggio che virtù non ebbe
(Deh! mai non sia che il ciel rotante un altro,
Pari a lui, qui ci meni!), ed egli in core
D'un'ancella sì fe’ perduto amante
Ratto che all'improvviso ella ad un giorno
Dinanzi gli passò. Mandò un messaggio
Alla fanciulla e disse: Ove tu meco
Venga ad un loco separato, assai
Ricchezze avrai da me senza confine;
Io la corona t’ornerò di gemme.
Udì l’ancella, nè gli diè risposta.
Ma ricordò la cosa trista e rea
Appo re Farrukhzàd. L'iranio prence,
Tosto che intese, pien di cruccio e d'ira
Fu nell'anima sua, per l'aspra doglia
Sonno e cibo non prese, i piè costrinse
A Siyah-ciàshm in ferrei ceppi e loco
All’uom tristo assegnò l'oscuro carcere.
Poi che alcun tempo corse per costui,
Vile ed abietto, cui di ceppi carco
1] giusto prence avea, que’ gravi ceppi
Tolsegli a un tratto il nobile signore,
Poi che molti per lui gl’intercessori
Vennero a supplicar. Tornò colui
Del re a’ servigi un'altra volta allora,


<pb n="8.398"/>
— 398 —

Ma per lui s'accorciò del viver dolce

‘Tempo al nobil signor. Per sua vendetta

Contro a l’iranio sire acconcio loco

Ei si cercava, ei servo da' consigli

Perfidi e rei, d'opre malvage autore;

E un dì che alcuna parte di riposo

Farrukhzàd si prendea, mischiò per lui

Siyah-ciàshm il velen nel puro vino,

E quei ne bevve e sette giorni ancora

Visse languente. Chi l'acerbo fato

Udì narrarne, lagrimò per lui.

Così giugnea l’antico regno al fine

E d'ogni parte si mostràr nemici

Subitamente. De’ Sassàni il trono

Precipitava omai per l’opre stolte,

Per l’opre triste degl’irani prenci.
Questo è costume del mutevol fato,

E ben farai se d'esso alcuna parte

Non avrai tu. Quello che hai qui, ti godi,

Alla dimane non pensar, chè forse

Altro consiglio avrà diman la sorte.

Ella a te prenderà dando ad altrui,

E veramente instabil cosa il mondo

Tu chiamerai, poi ch'egli fugge e mutasi.

Quello che hai qui, ti godi adunque e dona

Di ciò che avanza, le raccolte cose

Con lungo faticar mai non lasciando

Al nemico in balla, chè ad ogni giorno

Che di te passi, l'accolta dovizia

Passerà come nembo alla pianura

Veracemente, e ciò che sta rinchiuso

In tuo regio tesor, fia che divenga

Del tuo nemico in potestà. Fa doni,

Fa doni adunque, perchè poi non resti

Altrove nel dolor l’anima tua!



<pb n="8.399"/>
4. Il re Yezdeghird.

I. Principio del regno di Yezdeghird.

(Ed. Calc. p. 2060-2061).

Fu prence Yezdeghird, poi che si giacque
Estinto Farrukhzàd, nel giorno lieto
D'Ird, nella luna che la gente chiama
Sifendarmùdh. Che disse mai quel grande,
Animoso, eloquente, ei che già stanco
Del tramutar parea della fortuna?

Deh! non m'avesse mai dato alla luce,
Disse, la madre, nè su me si fosse
Volto mai questo cielo alto e sublime!
Lungamente non dura pe’ mortali
Della distretta il di, lungo non dura
Di lor grandezza la giornata! Dura,

Se ben tu vedi, brevissimo istante

Il viver nostro, e niuno ha l’armi seco
Il fato a contrastar. Bevi tu adunque
Ai colmi nappi e imbandisci le mense,
Nè fa parola del dolor che ovunque
Alberga in terra. Se qual servo umile
Anche potesse la mutevol sorte
Acconciarti la sella al palafreno,

Sarìa pur sempre nel sepolcro alfine
Fredda una pietra il tuo guancial. Di genti
Anche se ti farai prence sovrano,


<pb n="8.400"/>
— 400 —

Al fine che sarà? Se al tuo principio
Hai regal seggio, al terminar de' giorni
Che t'avrai poi? Non render schiavo adunque
Il tuo core al dolor pel viver breve,
Securo non ti dir di questo cielo
Alto e sublime. Che se tristo gioco
Fa la sorte a' leoni, agli elefanti,
Sappi ch'ella ciò fa perchè di nulla
Veracemente ell'ha rancura in terra.
Estinto un dì sarai, mentr'ella ancora
Fia che perduri. Lunga istoria è questa,
Nè te stesso mai devi a intempestiva
Gioia fidarti. Non sei tu maggiore
Di principe Fredùn, pari non sei
A re Pervìz che avea corona e trono,
Come a Gemshìd non sono obbedienti
Al tuo comando i tristi Devi, e l’alma
Sicura in Dio non hai come già l’ebbe
Kàvus regnante. Con profondo sguardo
Mira tu intanto ciò che feano i sette
Cieli sublimi a Yezdeghird in terra!
Come sul trono imperial si assise
Lieto e giocondo e si posò sul capo
Di sua grandezza la corona, ei disse:
Per volgere che fea questa del cielo
Rotante sfera, qui son io legittimo
Figlio di Nushirvàn. Di padre in padre
Venne a me il regno, e m'è propizio il sole
De' freddi Pesci e dell’ardente Spiga
Con le fulgide stelle. Anche mi cerco
Grandezza in terra e sapienza ed opre
D'ira e di guerra e generosi e grandi
Gli atti miei, chè non resta la fortuna
Sempre amica al mortal, non resta il giorno,
Non i tesori suoi restano incolumi,
Non il suo trono o il regal serto. Sola


<pb n="8.401"/>
— 401 —

Resta eterna di noi la fama in terra,
Non il nostro desìo. Lungi tu adunque
Scaccia da te le stolte brame, e solo
Fa grande il nome tuo. Sol per suo nome
Vive eterno il mortal, mentre sotterra
Sta la sua fredda spoglia. Oh! quanto è bella
Religion con integra giustizia
In re sovrano! Piene son di lodi
Al nome suo tutte le età venture!
Or io qui fermo sto, perchè, alla vita
Fin che rimanga questo corpo mio,
L’ime radici d’ogni male in terra
Strappi e divelga con gagliarda mano.

I prenci l’acclamr, sire del mondo
Il disser anco, e in questa via, trascorsi
Fin che furon per lui due volte in cielo
Ott'anni, e luna e sol propizi a lui
Su quel capo regal corpiean lor giri.

II. Invasione di Saad figlio di VakkaAs.

(Ea. Calc. p. 2061-2085).

Avvenne poi che il duce degli Aràbi,
Di cui pel ferro intenebrava il giorno
Qual atra notte, Omàr, principe e sire
Di chi ha fè nel Profeta, egli, che lode
Fbbe da Dio che non ha pari in cielo,
D'eroi con un drappel mandò l’eletto
Saad figliuol di Vakkàs, perchè intimasse
Guerra all’iranio prence. Allor che vinse
Degli Arabi la sorte quella un tempo
Sorte lieta de’ Persi e intenebrossi
L’astro propizio de’ Sassàni, colma
Di questi re dell’ampia terra a un tratto



<pb n="8.402"/>
— 402 —

Fu la misura, sparve l'oro e attorno
Vili monete andàr. Tristo divenne

Ciò che buono era un dì, buono divenne
Ciò ch'era tristo, e dell'inferno schiusa,
D'un paradiso di delizie in loco,
Subitamente fu la via. Diversa

Fu nell'aspetto la rotante volta

Di questo ciel, che a' Persi l'amor suo
Tolse d'un tratto. Ma conforme a legge
Di Dio, fattor dell'universo, è d’uopo
Che operi il servo. Già non ha fermezza
Di contro all'ira sua tapino il servo,
Ché Iddio sol gli donò spirto immortale
E di bellezza gli adornò la fronte.

Re Yezdeghìrd come di ciò novella
Ebbe scienza, da ogni parte attorno
Eserciti raccolse e fe’ precetto
Che percorresse la lontana via
D'Hormuzd il figlio e le adunate squadre
Seco traesse. Rùstem di costui
Era l’inclito nome. Accorto egli era
E sapiente e valoroso e prence,
Conoscitor degli astri e di gran senno
Ricco pur anco, intento alle parole
De' sacerdoti. Venne allora e seco
Tutti condusse que’ prestanti in guerra,
Condusse ognun ch'era vigile e prode.

Per questa via poi che mutate in cielo
Fùr trenta lune, fu cercato al campo
Di Kadésia l'assalto. Oh! ma degli astri
Il computo sapea Rùstem allora,

Egli con fede e con giustizia attento
Degli astri indagator. Propizia a noi
Questa pugna non vien, diss'ei pensando,
Non per quest’alvo di riviera è il corso
Del regal fiume. — Un astrolabio intanto


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— 403 —

In man si tolse e computò le stelle

E crucciossi nel cor, della sventura

Per il giorno vicino. Indi una epistola

Dettando al fratel suo nel suo dolore,

Le cose tutte ricordando, a Dio

In pria fe’ lodi, chè da Lui pur sempre

Ei della sorte e la grazia e l'offesa

Riconoscea. Così, scrivendo, ei disse:
Sospettoso si fa pei mutamenti

Di questo ciel chi li ricerca, ed io

Son l’uom più reo di nostra etade, omai

Captivo d'Ahrimàn. Chè veramente

Questa famiglia de' Sassàni prenci

Orba sen va del regno suo, nè tempo

È questo di splendor, non di vittoria.

Dal quarto cielo a noi riguarda il Sole

Di rissarsi co’ principi bramoso,

Da Venere e da Marte alto periglio

A noi s’annunzia, nè quest'alto cielo

È dato superar. Congiunti sono

E Mercurio e Saturno e là tra i Gemini

Mercurio alberga. Tal del cielo adunque

È l'aspetto, e ben grave innanzi a noi

Si sta l'impresa. Oh! di sua dolce vita

È sazio questo cor! Veggo le cose

Che avvenir dènno, e però scelsi in pace

Tacendo rimaner. Quando fui conscio

D'esto arcano del cielo, onde mia sorte

Sarà soltanto di fatica e duolo,

Miseramente per gl'Irani io piansi

E pe’ Sassàni mi crucciai del core.

Oh! sciagurati la corona e il capo

E il grado eccelso di monarca e il trono!

Oh! sciagurata la grandezza e quella

Di prence maestà con la sua sorte,

Chè d'ora innanzi ci verrà dagli Arabi


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— 404 —

Fonda rottura e non volgonsi gli astri
Fuor che a danno di noi! Quattrocent'anni
Trascorreran dopo cotesto, e niuno
Della semenza imperial di sue

Orme la terra segnerà! Ma intanto
Dagli Arabi a me venne un messaggiero,
D’ogni maniera andàr parole innanzi

Ai prodi accolti. « Da Kadèsia, il messo
Degli Arabi dicea, fino a le sponde
Alte del fiume lascierem la terra
All’iranio signor, purchè dischiuso

Dopo cotesto un sentiero ne sia

Fino a città che abbia a mercarvi loco,
Ove dato ne sia far compre nostre

E vendite cercar. Cosa maggiore

Non chiederem di ciò più mai. Gravosi
Darem tributi e ricche offerte, e quella
Regia corona de’ gagliardi mai

Non brameremo. Obbedirem fedeli

Al re dei re d'Irania vostra e ancora,
Ov'ei li chiegga, darem nostri ostaggi ».
Questi i lor detti, ma non è cotesto

Ciò che far dobbiam noi, chè tortilosa
Discende all'opre sue solo per noi

La sorte avara. Anche sarà una pugna
In ogni tempo, in che saranno uccisi
Cento leoni generosi. I grandi

Che son con meco a la battaglia accinti,
Al favellar de' rei nemici ancora

— Non degnano guardar, Gulbùy che nato
È nel Tabaristàn, Ermeni ardito,

Essi, che d'Ahrimàne entro l'assalto
Recan l’ira e la foga, e Mahùy forte

Di Suràn e que' principi gagliardi

Che han mazze e clave ponderose. « E quali,
Ei van dicendo, e quali son cotesti,


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— 405 —

Superbi e alteri, ed a che son d'Irania
E del Mazènd per le città? Ma noi
Cotesto violar l’alte frontiere,

Questo occupar le vie, se mal, se bene,
Farem cessar con le possenti clave

E i ferri acuti. Arte porremo in questo
E in atto recherem quella di noi
Celebrata virtù. Farem la terra
All’arabo invasor tetra ed angusta ».
Ma, del rotante ciel niun veramente

I secreti conosce, e assai diversa

Ei ci volge la fronte. Allor che letta
Questa epistola avrai, tu co’ tuoi prenci
Ogni cosa raduna e la disponi

E l'esercito adduci e la paterna
Dovizia, quanta ell’è, tutta raccogli,
Con le ancelle e gli schiavi e con le vesti
Pompose della pace. Ogni tua cosa
D'Azerabadagàn reca alla terra, .

Alla patria de’ forti e de’ gagliardi.
Ancor, quante avrai tu di palafreni
Raccolte mandre, tutte a’ guardiani
Affiderai degl’incliti tesori
D’Azergashàspe. E dove schiera alcuna
D'Irania venga o di Zabùl, se alcuno
Verrà cercando sua salvezza, tutti

Tu raccogli e sostieni e amor nel core
Fa in loro di destar con dolci e umili
Parole tue. Del roteante cielo

Mira all’opere arcane; e sol per esso
Qui contenti siam noi e di sgomento
Piena l’anima abbiam, talor salendo,
Talor scendendo. Ciò che dissi intanto,
A nostra madre tu dirai, chè ancora
Ella non rivedrà questo mio volto.
Deh! tu le reca un mio saluto e molti


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— 406 —

Ammonimenti miei, perch’ella in terra

Infelice non sia! Che se qualcuno

Triste di me fia che novelle apporti,

Molto di ciò non ti doler. Deh! pensa

Che qual raccoglie in questa vita breve

Con fatica di mano ampi tesori,

Dai tesori del mondo aspro travaglio

Soltanto aduna, e che di sua fatica

Altri il frutto godrà. Deh! che è mai dunque

Il tuo molto crucciarti e il tuo desio,

Se per crescer che fai, mai non si scema

Il tuo bisogno? Ma tu sempre l’alma

Volgi l'Eterno a venerar, sciogliendo

Libero il core dall'amor di questa

Vita sì breve, chè già viene e incalza

Il fatal tempo, nè l’iranio sire

D’oggi in avanti mi vedrà più mai.

Or tu, con quanti son di nostra casa,

Vecchi ei siano o garzoni, ad ogni tempo

A Dio fa lodi, venera l'eterno

Di questa terra Creator, ch'io sono

Con l’esercito mio alla distretta,

Sono in corruccio ed in travaglio e in grave

Di fortuna scompiglio. Al fin dell'opra

Io scampo non avrò; deh! almen propizia

Sia la fortuna al dolce suol d’Irania!
Ma quando angusta si farà la terra

All’iranio signor, tu i tuoi tesori,

L'anima tua, la tua persona, cari

Al cor tuo non aver, chè di quell’ inclita

Preclara stirpe di regnanti niuno

Rimase a noi fuor che cotesto sire

Nobile e grande. Notte e dì tu a lui

Custode sii, mentr’io qui attendo all’opra

Contro all’arabo stuol. Lento nell'opra

Per travaglio che avrai, deh! non mostrarti,


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— 407 —

Chè solo Yezdeghird restaci in terra

Proteggitor sovrano. Ei de' Sassàni

Rimase erede, ei sol, nè d’ora innanzi

Della sua casa alcun vedrassi. Ahi! misero

Quel capo augusto e quella sua corona,

-Quell’amor suo, quella giustizia sua,

Chè il trono imperîal perdesi omai!

Ma tu, fratello mio, t'abbi un saluto

E vivi sciolto dal dolor. Rimani

Sempre innanzi al tuo re. Che se gl’incoglie

Qualche gran danno, tu dinanzi a lui

Alle spade nemiche il capo tuo

Ratto abbandona e lascia ogni dir vano.
Ma quando incontro al soglio iranio quella

Cattedra si vedrà de’ Mussulmani,

D’Abu-bekr e d'Omàr quando dall'alto

Si grideranno i nomi, il lungo nostro

E diuturno faticar disperso

Andranne al vento. Stassi la rovina

All'altezza dinanzi; e allor non trono

Tu vedrai, non corona e non d’Irania

Le città belle, chè fortuna agli Arabi

Tutto cotesto diede in sorte. Ad ogni

Passar d’un giorno all'altro, egli per molte

Ricchezze accolte non avran travaglio,

E nere vesti una lor schiera intanto

Si vestirà, porrassi attorno al capo

Di pannicelli un’infula. A. quel tempo

Non regal trono resterà, non serto,

Non calzari dorati e non corona,

Non gemme, non vessil che alto per l’etra

Sventoli sovra noi. Questi fatica

Avrassi in terra e quei godrà, nè alcuno

Fia che riguardi a grazia od a giustizia,

De' regi officio, ma verrà la notte

E tal con occhi ardenti a chi si giace


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— 408 —

Queto e nascosto fia cagion di pianto,
Altri sarà che notte e dì s'affretti,
Cinto -dell’armi sue, con la celata
Intorno al capo, ed ambo da le giuste
Leggi e da norme andranno lunge, soli
Restando onrati la menzogna e il falso
E il malvagio operar. Pedone in guerra
Ogni guerrier discenderà, chè biasmi
Avranno e contumelie i cavalieri,

E de’ campi il cultor, ben che pugnace,
Spregiato andrà. Davver! che alto lignaggio
E grandezza di cor non daran frutto!
Ma questi a quello e quello a questi intanto
Furerà, nè fia allor che altri distingua
Benedizion dall’imprecar. Peggiore

Del manifesto ogn’intimo pensiero,

E fia qual pietra, o qual selce montana,
1l cor dell'uom. Di contro al figlio suo
Nemico si farà l'antico padre

E contro al genitor perfide trame
Ordirà il figlio. Servo abietto e vile
Monarca si farà, chè non avranno

Alto lignaggio e d'animo grandezza
Valore all'uopo. E niuno avrà in suo core
Fede quaggiù, d'arti malvage e ree
L'alma e la lingua de’ mortali in terra
Piene saranno. Mescolata stirpe

D'Arabi allor, d’Irani e di Turani,
Sorgerà in mezzo a noi, nè qui saranno
Persi fra lor dagli Arabi divisì

O da’ Turani, e la mista favella

Giuoco inetto parrà. Di sotto ai lembi

. Della sua veste avidamente ognuno

Suo tesor celerà! ma, faticando,

Di sua fatica il sospirato fruito

Al suo nemico lascierà dipoi.


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— 409 —

Alto corruccio e scompiglio e dolore

Tanto saranno allor comuni in terra,

Quanto di Behram-gòr ne’ tempi gai

Era la gioia. Non saranno feste

Allor, non gioia, non tripudi allora,

Non gemme, non onor; ma con gran cura

Altri d’ogni maniera un tristo laccio

All’altro appresterà. Per trarne frutto

Altri ordirà danno d'altrui, pretesto

Recando innanzi la sua fè. Nè allora

Dal tristo invernò scernere la gaia

Primavera potrassi, e il dolce vino

Nell'ora del goder non fia che pongasi

Sovra la mensa. Per desio del molto,

D'avanzar per desio, già non avranno

Senno i malvagi, e d'orzo un tristo pane

Sarà lor cibo e vestimenti attorno

Di lana avranno. Poi che lungo tempo

Trascorso fia della dolente istoria,

A' nobili di Persia umiliati

Nessuno’ guarderà. Sangue per brama

Di ricchezze d’altrui fia che si versi,

E ordito fia della sventura il tempo.
Pieno è di doglia questo cor frattanto,

Pallido è il volto mio, secche le fauci

E sospiroso il labbro. Allor ch'io tolto

Sarò di mezzo, io principe guerriero,

De’ re Sassàni torbida d'un tratto

La sorte si farà. Così mancava

Alla sua fè questo rotante cielo,

Così crucciossi contro a noi, da noi

Togliendo l'amor suo. Che s'io spingessi

Quest'asta mia di ferro contro a un monte,

Il ferreo monte ella passar dovriìa,

Chè ferree membra vanto. Or la mia freccia

E la sua punta che trapassa il ferro,


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Contro a capo ch'è ignudo, ecco! non recano
Giovamento al colpir. La spada mia
Che già degli elefanti e de’ leoni
La cervice abbattea, morti stendeali
Con un sol colpo, or non potrà la cute
Degli Arabi scalfir. Deh! che mi giunge
Per la scienza mia danno su danno!
Questo saper deh! non avessi, ovvero
Non avess’'io di prossima sventura
Tal conoscenza! I principi che vennero
Da Kadèsia con me, son fieri ed aspri,
Dell’arabo invasor nemici in core,
E credon sì che piena andrà di sangue
Nemico la foresta e che la terra
Sarà quale il Gihuùn pei tristi rivi.
Ma de' secreti di quest’alto cielo
Conoscenza ei non hanno, e che non breve
È il nostro faticar, non veggon chiaro.
Quando trapassa d’un’antica stirpe
Il tempo lieto, qual discende frutto
Da contrasti dell'armi e da fatiche?

Ma lieta ed aitante la persona
Di te, fratello, sia! Per te del sire
D’Irania bella il cor s'allieti intanto,
Chè Kadéèsia mi fia del mio sepolcro
Il loco omai, mi fia mortuaria veste
La mia corazza ed elmo atri di sangue
Rappresi grumi. Tal dell'alto cielo
È il secreto voler, ma tu il tuo core
A duol che avrai per me, non far captivo.
Gli occhi tuoì non levar dal re del mondo,
Ma nell’assalto donagli in riscatto
Il corpo tuo. Già vengon d'Ahrimane
Rapidi i giorni, chè nemico a noi
Mostrasi questo ciel che alto si volge.

Poi che il suggello fu a quel foglio apposto,


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— 411 —

Benedizion, sclamò, vada congiunta

AI solerte corrier che al mio fratello
Recherà questo foglio e sol di cose
Che s'addicono a ciò, fia che gli parli!

III. Lettera di Rustem a Saad.

(Ed. Calc. p. 2066-2069).

Rapido allora come tuono o folgore
Un messaggier dal loco suo mandava
Rùstem a Saad. Fu scritta in bianca seta
Un'’epistola acconcia, e piena ell’era
Di parole di speme e di terrore.

Alla rubrica si leggea: Dal figlio
Di Hormùzd sovrano, Rùstem battagliero,
Duce d'Irania, questo foglio vassi
A Saad figlio a Vakkàs, di pugne amante,
Di sapienza e di consigli ricco,
Cauto nell’opre sue. — Ma nell'epistola
Rùstem dicea cotesto: Or senza tema,
Senza sgomento, innanzi a Dio verace
E santo non dobbiam tenerci noi,
Chè sol per Lui si regge e si mantiene
Il ciel rotante ed Ei concede il regno
E fa giustizia e porta amor. Da Lui
Scenda benedizion sovra l’iranio
Principe in terra che di serto è degno,
Di suggello regal, di regal trono,
Qual raffrena Ahrimàne entro a' suoi vincoli
Per la sua regia maestà, signore
Di spada e laccio e di cimiero. Intanto
Venuta è innanzi a noi cosa non grata,
Futile guerra e vano intento! Dimmi,
Dimmi tu chi è il tuo re, av©° © tu sei,


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— 412 —

Qual la tua legge e il-tuo costume, e presso,
Presso a chi tu domandi esto dominio
E cotal signoria, d'ignuda gente

Tu ignudo condottier. D'un solo pane

Ti sazi tu, ma fame hai sempre, e teco
Elefanti non hai, non regal seggio,

Non carchi o suppellettili. Ti basti
Campar la vita in suol d'Irania; il serto
E il suggello regal son veramente
Retaggio di cotal che ha diadema

E trono e maestà, vanta elefanti,

E nobile è signor per ordin giusto
D'antichi padri. Non è re sul trono
Pari all'altezza sua, non è pel cielo
Candida luna dall'aspetto suo;

Ed ogni volta ch'ei sorride in trono,
Sciolte le labbra, e de’ suoi denti mostra
Il bianco argento, fa suoi doni attorno
Che valgon sì quanto la testa altera

Di questi Arabi tuoi, chè i suoi tesori,
Per quanti doni ei fa, non han iattura.
Dodicimila i cani e i falchi suoi

Ed i segugi che dorati al collo

Han lor sonagli e portano orecchini;

E d'un anno pel corso i cavalieri

De’ tuoi deserti, armati d'asta, tanto

Non osano mangiar da questo a quello
Ampio confine, quanto a lui fa d'uopo
Per sostentar suoi.cani e suoi segugi,
Quali ne' campi le inseguite belve
Prendono al corso. Ma per bever latte
Di vetuste cammelle e cibar carni

Di lucertole vili, a cotal punto

Giunse l’'ardir di questi Arabi tuoi,

Che osano ambir di Persia il trono. Oh! spregio
Abbiasi questo ciel se tanto ei soffre!


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— 413 —

Davver! che non è dentro agli occhi vostri

O vergogna o pudor, non è rispetto,

Amore in voi non è che da saggezza

Procreasi in cor, se a te desio sorvenne

Del trono imperial, del regal serto,

Con tal vampo del cor, con questa tua

Indole abietta e questo volto! In terra

Se tu cerchi poter dentro a misura,

Se le parole tue non per insano

Desio gittando vai, saggio, eloquente

Mandami un uom de' tuoi, mandami tale

Di cose esperto e sapiente e prode,

Per ch’ei dichiari a me quale è pur sempre

Il tuo consiglio e chi così ti spinge

Verso ìl trono de' Kay. Un cavaliero

Al prence iranio invierò frattanto

E chiederò da lui perchè tu chiegga

Ciò che più vuoi. Ma tu con tal sovrano

La guerra non cercar, chè onta e dispregio

Al fin te ne verrà. Nipote è il nostro

Almo signor di Nushirvàn monarca,

Per cui giustizia a giovinezza assorgere

Ogni più vecchio parve. E re fùr tutti

I padri suoi, prence egli è pur, nè l'ampio

Della terra dominio hassi un erede

Che gli sia pari. Deh! non far tu adunque

Piena la terra contro a te di biasmo,

Non far te stesso alle tue stesse leggi

Primo nemico, guarda a questa mia,

Che ti consiglia, epistola prudente,

Gli occhi e gli orecchi non frenar del senno.
Sottoposto al suggello il foglio suo,

A Pirùz, di Shapùr nobile figlio,

Rùstem il porse, e l’inclito guerriero

Da Saad figlio a Vakkàs correndo venne -

Con alquanti d’Irania eroi famosi,


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— 414 —

D'alma serena. Chiusi eran cotesti
Nell'or, nel ferro e nell'argento, e scudi
Avean dorati ed auree le cinture.

Saad valoroso, poi che udì cotesto,
Vennegli incontro con un ampio esercito
Come nembo improvviso. ll fiero duce
Balzò di sella in quell'istante e chiese
Novelle sì de le falangi iranie,

Di Rustem prence e dell’iranio sire,

De' suoi ministri e di sue schiere, ancora
De’ prenci suoi di vigil cor, di quella
Ampia sua terra. Di Pirùz allora

Ai piè gittando un suo mantello, ei disse:

Sempre con noi le spade nostre e l’aste
Abbiam, chè di broccati e di tappeti
L'uom che ha valor, non parla mai, non parla
D'oro e d'argento, non di cibi mai,

Non di placidi sonni. In voi l'intento,
No, del valor non è, chè, come donne,
Avete fregi e dipinture attorno

E fragranze odorose. Il vostro pregio
Solo si sta nell'apprestar broccati,
Nel pingere ed ornar soffitti e porte.

Porgeagli allor l’epistola del duce
Pirùz guerriero e tutte ripetea
Di Rùstem le parole, e Saad que’ detti
Ascoltavasi ancora e il foglio ancora
Leggendo si stupìia per quella grave
Epistola pehlèvica. Ma tosto
In arabica lingua una risposta
Ei scrisse e cose vi spiegò ben molte,
Oneste e ree. Dell'epistola al sommo
Scrisse il nome di Dio, di Maometto
Apostolo di Lui, guida a ogni vero,

E favellò de' Geni erranti e ancora
De’ mortali, e ridisse le parole


<pb n="8.415"/>
— 415 —

Del profeta d'Hashèm. Ricordo ei fece
D'unità ch’è di Dio, del suo Corano,
Delle promesse sue, di sue minacce,
Dello sgomento ch'Egli infonde in core,
Di sua legge novella, e della eterna
Vampa del fuoco e della pece ardente
E del gelo d'inferno. Il paradiso
Ricordò co' ruscelli di dolcissimo

Vino e di latte, dell’intatto muschio,
Della canfora eletta e delle chiare
Acque di fonte e degli alberi ancora
De’ suoi giardini, del gagliardo vino,
Del miel soave. Che se il re d’Irania,
Disse, la nostra fè ch'è vera, accoglie,
Questa vita e l’eterna avrà con gioia
E avrassi il regno suo. La sua corona
Ei si terrà con gli orecchini suoi,
Vivrà beato co’ suoi molti doni

In tutti gli anni. Intercessor di sue
Commesse colpe Maometto avrassi,

E puro il corpo avrà come la pura
Acqua che il saggio distillò. Per opra
Di cui per ricompensa un giorno avrai
Il paradiso, non dobbiam le spine
Seminar pel giardin della sventura.
Re Yezdeghìrd e l’ampio regno suo

E i suoi giardini e le palestre e l’alte
Torri e i palagi col suo trono ancora
E col suo serto, con le feste sue

E i suoi tripudi, tanto a riguardarsi
Non valgon già quanto un capel di donna
Dagli occhi neri in paradiso. E tu,
Iranio prence, tieni a questa vita
Breve e caduca intenti gli occhi, tanto
‘Per la corona tua, pel tuo tesoro,
Attonito tu sei. Soverchiamente


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— 416 —

Per questo seggio tuo di bianco avorio
Ti fai securo e pei tesori ancora,
Pel tuo suggello e per la tua fortuna
E il diadema. Che se tanto vale

Il mondo a noi quanto è pur d’onda fresca
Un breve sorso, a che per esso il core
Immerso hai nel dolor? Chi viene in guerra
A_me di contro, non vedrà dipoi
Che dischiuso l'inferno e la sua tomba
E tetra e angusta. Ma s'ei crede, un giorno
Il paradiso fia suo loco, e tu
Vedi e pensa che sia quel che or ti giunge
Nuovo consiglio! Eternamente dura
Di là la vita e questa passa in breve,
E l’'uom che ha senno, ciò ripensa e dice.

Degli Arabi il suggel pose alle carte

E ripetè di Maometto il vero
Saluto. Un messaggier ne andava allora
Di Saad figlio a Vakkès, con fiero incesso
Da Rùstem battaglier forte correndo.
Shòbah Moghéèyrah fu colui che andava
Degli arabi guerrieri appo l'irànio
Principe, Rùstem, e un uom chiaro in armi
D'Irania fra gli eroi per l'ampio calle
Venne al suo duce e così disse: Venne
Qual messaggiero un debil vecchio a noi.
Vere vesti ei non ha, non ha cavallo,
Non armi seco. Una spada sottile
Pendegli al collo e pe' suoi panni attorno
Strappi veggonsi ovunque. — A tale annunzio
Volse Rùstem la mente, e un padiglione
Fe' levar di broccato, e fùr distesi
Intesti d’or cinesi drappi e schiera
Venne innanzi d’eroi quant'è uno stuolo
O di locuste o di formiche. Un seggio
Che d'or splendea, quivi fu posto, e sopra


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— 417 —

Si assise il duce. Assisero dinanzi,

Nel suo cospetto, censessanta eroi,

Come leoni in giorno di battaglia,

E cavalieri, con lor caschi in fronte,

Con vesti violette e con dorati

Calzari al piè. Collane avean lucenti

Ed orecchini, e d'un gran prence in guisa

Di Rùstem duce era la tenda adorna.
Ma Shòbah, come giunse del regale

Padiglione a l'altezza, il piè non pose

Su que’ tappeti già, ma lento e umile

Venne sul nudo suol, fattasi appoggio

La sua spada sottil. Sul nudo suolo

Si assise e niuno ei rimirò, non volse

Al duce iranio ed a’ suoi prenci un guardo.
L’anima tua deh! t’abbi lieta, dissegli

Rùstem allora; e per saper dell’alma

Abbiti la persona e forte e sana!
Shòbah gli disse: Ove tu accolga, o forte

D’inclita fama, nostra fè verace,

A te salute! — Alle parole sue

Rùstem crucciossi ed aggrottò le ciglia

Per ciò che fe’ l'arabo vecchio. Eppure

Prese il foglio da lui, porselo ancora

A chi legger dovea. Tutte gli lesse

L'uom sapiente le notate cose,

Ed ei così rispose: Al tuo signore

Così dirai: « Tu non sei re, non sei

Tal che possa cercar serto regale.

Di mia fortuna non vedesti ancora

L'inclit'altezza e però tosto in core

Il trono mio tu disiasti. Quelle

Parole tue non son davver leggiere

Appo i più saggi e non hai tu sicura

Veduta in ciò. Che se corona avesse

De’ Sassàni regnanti in su la fronte




<pb n="8.418"/>
— 418 —

Saad valoroso, facil cosa e grata

Sarìan per me con seco le battaglie

Ed i conviti. Ma poichè discende

Nostro mal dalla sorte infida e rea,

Che altro dirò se non che questo è il giorno
Della sventura? Se maestro e guida
Maometto mi fosse ed io la vostra
Novella fede anteponessi a quella
Religion de' padri nostri antica,

Del cielo arcato l’opera saria -

Avversa a noi, aspro e sdegnoso a noi

Si volgerebbe ». Ma tu intanto lieto
Ritorna al tuo signor, chè non è loco
Parole a barattar d'armi nel giorno.
Digli che meglio è assai morir con gloria
Pugnando, che gittar parole vane.

IV. Battaglia e morte di Rustem.

(Ed. Calc. p. 2069-2070).

Poi che Shòbah da Ruùstem si partia,
Fe' precetto l’iranio a' suoi guerrieri
D'apprestar l’armi e cenno fe’ che tosto
Fiato si desse nelle trombe e al loco
Destinato al pugnar, da tutte parti,
L'esercito scendesse. Atra la polve
Suscitavasi allor, voci destavansi
E alterne grida e l'uom stordia che acuto
Avea l'udito e penetrante. L'aste
Adamantine in quell’oscura polve
Stelle son, detto avresti, in notte azzurra,
E sugli elmi lucenti le ferrate
Lancie scendendo non avean fermezza
Ne' lor colpi mortali. E la battaglia


<pb n="8.419"/>
— 419 —

Durò tre giorni al designato loco,

E già mancavan l’acque a' forti Irani.

Cadde affranta la man de' valorosi

Per la sete cocente e i palafreni,

Animosi e gagliardi, or ne la pugna

Stanchi erano e cadenti, e già le labbra

Inaridian sì come argilla o creta

A Rùstem battaglier per l'alto ardore,

Si screpolava entro a le fauci sue

L'arida lingua. E tal fu angustia ai prodi

Nell'ora del pugnar, che umido *fango

Presero a masticar destrieri ed uomini.
Grido levossi come tuono in cielo,

E di qua s'avanzò Rùstem gagliardo,

Saad avanzò di là. Dal medio loco

De le schiere compatte elli balzarono

E dal loco dell’armi ambo a un secreto

Campo calàr. Da le restanti schiere

Come fùr separati, a piè d’un colle

Andaron di conserto e corser quivi

Di singolar tenzone a un chiuso campo,

Ambo duci e vogliosi, l’un su l'altro,

Di lor vendetta. Come tuono in cielo,

Venne da Rùstém un tremendo grido,

E la spada ei vibrò contro al destriero

Di Saad gagliardo. Il rapido corsiero

Ei colpì, sì ch'ei cadde a capo innanzi,

E diviso da lui ne fu d'un tratto

Saad bellicoso. Liberava intanto

Rùstem di spada acuta un gran fendente

Per annientar quel suo nemico. Ei volle

Via troncargli dal busto il capo altero,

Ma per la polve del vicino esercito

Questo quell'altro non vedea. Discese

Rùstem allor dal palafren, da quella

Sella vestita della fulva spoglia


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— 420 —

Di leopardo, e de le sciolte redini
Gli estremi capi alla cintura avvinse.

Ma di Rùstem veder dall’atra polve
Fu intenebrato, e Saad rapidamente
Su quel campo dell’armi incontro a lui
Minaccioso avanzò. Dell'avversaro
Ei sferrò a l'elmo con la spada un colpo,
Sì che dall’elmo tepido pel viso
Scese a Rùstem il sangue. Allor che gli occhi
Intenebràr del nobile campione
Del sangué allo sgorgar, l’arabo altero
Vittoria ebbe su lui. Novellamente
Dell’iranio alla testa e alla cervice
Vibrò un colpo di spada e al suol distesa
Abbandonò la marzial sua spoglia.

Nulla di ciò sapean le schiere avverse
Da questa parte e quella, e niun d’andarne
Al duce iìranio ben vedea sentiero.
Eppur, l'irania gente il duce suo
Rapida corse a rintracciar, discese
Al fatal loco dell’assalto. Allora
Che da lunge vedean sparso di sangue,
Pieno di polve, là giacersi il prode,

Di ferite di spada aperto il corpo,
Fuggiîr gl’Irani sbigottiti e molti,

Ben che famosi, nella turba accolta
Fùr trucidati. Molti ancor la vita

Per la sete perdean su l’ardue selle,
Chè misura dei re su questa terra
Già traboccava. La fuggente schiera
All’iranio signor sì ritornava,

In via pel giorno e per la notte oscura
Forte correndo. Ma poichè in battaglia
Rùstem guerriero così cadde acciso

E fortuna mancò de' gloriosi

D'Irania bella, dietro a lor gittossi


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— 421 —

De' Mussulmani il vincitor drappello
A corsa, come son leoni ardenti.

Era in Bagdàd re Yezdeghird, allora
Che intorno a lui la fuggitiva schiera
Si raccolse d’un tratto. Oh! non rimase
Ruùstem a noi, dicean con seco, e il fiume
Parve mancar de' freschi umori suoi
Per il nostro dolor! Molti d'’Irania
Caddero uccisi e si tornaron gli altri
Da quel loco fatal d’assalti e pugne.

In Karkh dal loco dell'assalto omai
Venian le genti armigere, e pel calle
Veniano Arabi e Persi. Allor quel prode
Farrukhzàd, nobil figlio dell’antico
Hormùzde, con molt’ira e con ardenti
Lagrime agli occhi, rapido sen venne
Dal margo dell’Arvènd e in Karkh entrando
Fe’ improvviso un assalto. Alcun guerriero
De' prodi astati d’arabo lignaggio
Vivo non si restò. Gli altri venièno
Fuor di Bagdàd a un tratto. Elli uccideano,
E per essi n’andàr molti crucciosi.

V. Ritirata di Yezdeghird nel Khorassan.

(Ed. Calc. p. 2070-2078).

Farrukhzàd polveroso, ancor portando
L'armi guerriere, al suo signor tornava.

Discese dal destrier, porsegli omaggio,
Ambo con gli occhi lagrimosi e il corpo
Distrutto e attrito. A che pianger cotanto?
Ei disse a Yezdeghird. Forse che il trono
De’ Kay purificar tenti piangendo? |
Niun rimane quaggiù della semenza


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— 422 —

Real de’ Kay, se te pur togli, niuno

Che poi si deggia collocar sul trono

Col serto imperial. Solo tu sei,

Son centomila i tuoi nemici, allora

Che per la terra desterai con l'armi

Fiero contrasto. Di Narvèn tu adunque

Vanne alla selva e là ben fia che tutta

Si raccolga la gente. Indi, lasciando

Come Fredùn guerrier, quell’aspro luogo,

Come fuoco t'appiglia a nuova impresa.
Farrukhzàd così disse, e il re de’ regi

Ascoltavalo intento. Un pensier nuovo

Manifestossi in lui. L’iranio sire

Si assise in trono all’altro giorno e in capo

Si pose il serto imperial. Raccolse

Ampia assemblea di principi e di saggi,

Di sacerdoti vigili del core,

E disse poi: Deh! che vedete in questa

Impresa nostra e qual consiglio in mente

Avete voi da' tempi antichi? Dice

Farrukhzàd consigliando: « Alla foresta

Di Narvèn tu discendi con l'accolta

Degli armigeri tuoi. Son tuoi devoti

In AmÒl città pure, i servi tuoi

Son tutti in Sàri, e come tosto un ampio

Esercito t'avrai quivi raccolto,

Tornati a dietro; puossi far la guerra

Con valorosi! ». Ma cotal disegno

Forse che piace a voi? — Tutti a una voce

Dissero i prodi: Buon consiglio è questo.
Ciò non s'addice a noi, rispose allora

De’ monarchi il signor; dentro al cor mio

Sta ben altro pensier. S'io, mi fuggendo,

Gl'Irani prenci qui lasciassi e tutto

L'esercito fedel, l’irania terra

E il trono e il serto, non grandezza vera


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— 423 —

Ciò sarìa, non.valor, non buon consiglio.

Più assai dell’onta m'è diletta e cara

Col mio nemico la battaglia, e in questo

Una sentenza nobil pardo volle

Tra l’altre belve ricordar. « Da stolto,

Ei disse, non mostrar le terga mai

Al tuo nemico, se pur anche il giorno

Della sventura t’arrivò ». Ma come

Il minor servo a precetto del sire

E in benee in male dee guardar, non vuolsi,

Così non vuolsi che il suo re sovrano

Poi l'abbandoni nel travaglio e volgasi

I suoi tesori a custodir. — Dier voci

Benedicendo i grandi allor: Gli è questo

Nobile intento del regal suggello

E del trono regal. Vedi tu intanto

Qual comando ne dài, che vuoi tu, sire,

Qual novo patto a’ servi tuoi tu imponi.
Per soverchio pensier, così rispose

A’ prenci il re, perde sua forza il core.

Miglior cosa è per noi che noi ne andiamo

In Khorassàn, sciogliendoci da questo

Nemico assalto. Ma colà son molte

Schiere all’intorno d'ogni terra e molti

Eroi vi sono valorosi e grandi.

Sonvi i prenci turani e v'è di Cina

Il gran signor, quali verranno i voti

A portarmi del cor. Ma più d'’assai

Io crescerò loro amicizia, ch'io

Vincol di sangue stringerò con una

Leggiadra figlia del signor di Cina,

Sì che per darmi aita ampia una schiera

Meco verrà, prenci turani ed incliti

Guerrieri in armi. Lor signore e duce

E Mahùy, che ha d’assai sue suppellettili

E cavalieri ed elefanti. Duce


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— 424 —
E de’ nostri pastori, ai guardiani
De’ campi nostri qual maestro e donno.
Io l’esaltai, chè rapido e veloce
Era in andar, gagliardo eroe, facondo,
Esperto in favellar. Poi che donammo
Ad uom di stato umìl nome e valore
E potestà con elefanti ed uomini
E campi e terre, s'egli è ancor di vile
Nascimento e non ha bella persona,

Ezli è pur sempre in nostra casa alunno.

Anche dal sacerdote una sentenza

Udii, qual’ei dicea di tempi antichi

A favellar conforme: « Ecco! da tale

Cuì mal facesti, cui recasti offesa

Per lieve cosa, guàrdati! Ma poni

La tua speme in colui che con amore

AI ciel levasti ». Or io mai non Voffesi,

Non offesi Mahùy, sì che la pugna

Oggi ei vorrà contro a’ nemici miei.
Battè le mani palma a palma allora

Farrukhzàd e gridò: Signor che a Dio

Sei devoto e fedel, deh! non mostrarti

Sicuro mai di chi è malvagio in core,

Chè odierna sentenza è questa ancora

Ch'io ridirò: « Se mille incantamenti

Contro un’indole rea tu adoprerai,

Se industria porrai tu perchè disciolgasi

Dalla trista rubigine, l'Eterno

Poi che tal la creò, bada che mai

Contro a vincol di Dio non troverai

Acconcia chiave ». — E Yezdeghird gli disse :

Animoso lion, per questa prova
Danno ed offesa non avrò, t'accerta.

Così rimase in quella notte, e al primo
Albor del giorno presero lor via
D'Irania i prenci valorosi. Prese




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— 425 —

Da Bagdàd il sentier che lo guidava

In Khorassàn, l'iranio sire, e lievi

Parvergli al cor l'altissimo travaglio

E la rancura. Ma d'Irania i prenci

Tutti pieni di duol partian col sire

Generoso e leal; benedicendo

Così gridarno: Senza te la terra

Mai non si resti, non si resti il fato!
Con gemiti e con lai levossi un grido

Dall’esercito allor, per duol che il prese

Nel partir del suo re. Quanti eran capi

Di villaggi e castella in suol d'’Irania,

Quanti erano a' più forti alto sostegno,

Appo al lor prence venner dolorosi,

Venner con gli occhi lagrimosi e dissero:
O re, servi noi siam; l’anima e il corpo

Dell’amor tuo pieni abbiam noi. Con teco

© Verremo ancor per veder sì qual giuoco

Faccia la sorte a questo re per sua

Frode malvagia. Di qual guisa il core

Per la terra e pel loco di sua pace

Lieto sarà, se del volto del sire

Orbi resterem noi? Noi lascieremo

I figli intanto ed i tesori e i nostri

Campi fiorenti e ci torrem con teco

Ogni travaglio, ogni fatica. In terra

Viver non vogliam noì senza quel tuo

Trono regal. Solo di te la sorte

Propizia resti ed immutata! — Quale

Era là degl'Irani in dir parole

Esperto e saggio, umiliò la fronte

Al negro suolo e così disse: Noi

Abbandonammo i nostri campi ameni

Pensando che protetto il mondo fosse

Da te sovrano. Ed or ten vai fuggendo,

Ferito il cor, dal re di Cina, vai

In turanico suol da suol d'Irania!


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— 426 —

Il re dei re di lagrime fe’ piene
Le ciglia e disse a que' gagliardi illustri:
Voi l'Eterno adorate insiem congiunti,
A vostra adorazion recando sempre
Augumento maggior, chè forse un’altra
Volta vi rivedrò, quando a lor fine
Il travaglio e il dolor del di presente
Saran discesi. Veri a me voi siete
Proteggitori, siete a me il retaggio
De’ vecchi padri miei. Ma non vogl’io
Che danno incolga a voi, che a me voi siate
Nella sventura mia compagni e soci.
Vediam qual sia del roteante cielo
Alto consiglio, quale accrescer voglia
Ed esaltar, ver chi si volga omai
Con sua grazia e favor. Ma verso il cielo
Tal si comporti ognun di voi nell'opre,
Qual si comporta il ciel, chè non è scampo
Da rivolger ch’ei fa suoi tristi arcani.
Di Cina a’ mercatanti anche si volse
E così disse: Nell’irania terra
Deh! non restate voi per alcun tempo,
Chè danno a'lucri vostri or fia che tocchi
Degli Arabi al venir. — Con doglia e affanno
Separàrsi da lui, con pianti e gemiti
E con lamenti. Farrukhzàd, illustre
Figlio d'Hormùzd, l’esercito guidava,
Dall’iranico suol tutti raccolti
I più esperti guerrieri. Ecco! ne andava
Re Yezdeghird con gemiti e sospiri,
E il precedea con le falangi sue
Il maggior duce. D'una in altra andando
Stazion per la via, giunse alle mura
Di Rey lontana, e là restò, diserto
Del dolce vin, de’ suoi tripudi usati
Fra canti e suoni. Rapido qual nembo,


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— 427 —

In Gurgàn ei venia da Rey e sette
Giorni vi stava or tristo or lieto. Alfine
Di Gurgàn da la terra ei per la via
Scese di Bust, pieno di rughe il volto,
Affaticato alla persona ed egro.

VI. Lettere di Yezdeghird.

(Ed. Calc. p. 2073-2077).

L'iranio sire poi che in Merv scendea,
A Mahùy di Suràn, di Merv custode,
Un'’epistola scrisse, ove il suo cruccio
Era e il suo duol, con lagrimosi gli occhi
E pieno il cor d'alto desio. Chiamossi
Esperto uno scrittor di regie epistole,

E tutta riversò del cor la piena,

Del cor sazio d’affanno. E in pria sue lodi
Fe’ a Dio, sovrano altor, saggio signore,
Signor del sole e delle erranti stelle,

De le belve signor, forti e rubeste,

- E dell’esile bruco. Ei, quando il voglia,

Dal nulla crea, chè per nessuna cosa
Precettor gli fa d'uopo. — Oh! qual ne giunse,
Disse di poi, cosa novella! Ratto

Di questo regno lo splendor disparve;

E poi che Rùstem cadde ucciso in campo
Di battaglia in un dì, per l’aspro affanno
Angusta a noi si fa la terra e grama.
Cadde ucciso per man di tal che ha nome
Saad, figliuol di Vakkàs, che non ha patria,
Non certo nascimento e non ben fermo
Desio, non traccia di saper. Ma intanto

Che a Tisifuna in su le porte esercito

Si sta nemico e di mezzo ne stanno


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— 428 —

E foreste e burroni, alla battaglia
Tu co’ tuoi prodi apprèstati e concordi
Fa l’altre schiere in un intento solo.
Non più di sette dì restar vogl’io
In Nishapùr, chè lunga e travagliosa
Fatica innanzi sta. Verronne poi
In Merv io stesso e per l'impresa mia
De’ Turani al signor, di Cina al prence,
Un messeggiero invierò. L’aita
Lor chiederò di formidabil schiera,
Cercando sì che ritorni a sua via
La caduta fortuna. Ecco, qual nembo,
Io verrò ratto dietro a questo foglio,
Darò consigli quali in mente serbo.

E un messaggier spedia come tempesta
A Mahùy di Suràn. Di vigil core
E di retto consiglio un altro messo
Ei scelse allor ne l’inclita assemblea.

Di Tus alla città scrisse un’epistola
Piena del duolo del cor suo, col volto
Pallido quale è pur resina attrita.
Prima fe’ lodi a Dio, da cui discendono
Virtù, forza e fortuna. Anche da Lui
Vien la vittoria, la possanza, il trono
E la corona imperial. Dall’orme
De’ bruchi ai vanni d'aquile volanti,
Dagli elefanti in su l’arida terra
Dell'acque ai mostri, nulla al suo comando,
Nulla a sua legge si sottrae ; nessuno,
Senza voler di Lui, del suo respiro
Può gli aliti contar. — Dal re del mondo,
Inclito Yezdeghird, figlio di padro
Che fu prence gagliardo e celebrato,
Signor d'Irania, vincitor, custode
Alla sua terra disioso, germe
Della semenza di regnanti, a Dio


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— 429 —

Che fùr devoti, figli ei pur di prenci
Incoronati che sapean del fato

E de le stelle i mutamenti in cielo,
Onde poi questa terra in ogni parte
Andò fiorente e amena (e già splendore
Elli aggiunsero al seggio e alla corona
Ed al suggello imperial), l’epistola

Vassi de le frontiere a’ guardiani,

Incliti prenci che han tesoro e seggio,
Han regia dignità, serto e grandezza

E d’armigeri un pugno, ov'è la terra

Di Shemiràn, di Radeh-kùh, la terra

Di Ruyineh, ov'è ancor da questa banda
Kelàt e son da quella altre guerriere
Genti raccolte. Deh! custode a noi
L'Eterno sia, senza periglio voi

Da sventura del fato! Or veramente
S'intese dagli eroi, pel mondo attorno
Andaron prove manifeste e chiare,

Che in ogni guerra e in ogni evento e sempre
Vèr gli uomini che grande hanno la stirpe,
Pieno d'amor fu il nostro cor, fu pieno
Di giustizia e sollecito per voi.

Giuro pel vostro nascimento illustre,
Che più de’ suoi tesori hassi un monarca
Travagli e cure. Allor che qui ne venne
Behràm protervo apertamente e il capo
Levò ribelle contro a nostra legge

Ed al comando, il vostro cor si. dolse
Per queste ampie città, per le frontiere,
Per li vostri giardini e le palestre

E per le torri. In tal vicenda, voi

L'alte montagne ed i burroni vostri
Feste soggiorno per timor di danno

E di periglio. Ma se Iddio mi dona
Vigor novello e volgesi la sorte


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— 430 —

Conforme al voto del cor mio, maggiore
In ricompensa renderovvi grazia

E Iddio signore adorerò. Ma certo
Annunzio giunse a voi quale ne incolse,
Degli astri per voler, novella cura,

Per cotesti serpenti abietti e vili,
Semenza d'Ahrimàn, che sapienza

Non hanno e non pudor, non han tesori,
Non fortuna, non nome, o nascimento
Ingenuo e chiaro. Ei voglion sì la terra
Perdere e disertar. Così le seste

Si volgono del cielo alto e sublime,
Onde all'impero mio venga periglio

E venga offesa da cotesti vili,

Capi di corvi, senza senno e onore,
Senza nome e saper, senza vergogna,
Senza costume. Ei volsero la fronte

A questo seggio imperial, bramosi

D'un diadema, ei sì, ch’estenuato

Han per digiuno il tristo ventre! Un tempo
Principe Nushirvàn cotesto vide

Ne' sogni suoi, che tosto l'onor prisco
Saria caduto dell’iranio seggio,

Vide che dalle stirpi arabe accolte
Centomila venian ebbri e furenti,

Rotti i bavagli lor, cammelli sciolti,

E del fiume d’Arvènd per l'onde chiare
Un varco rinvenian. Tutto a scompiglio
Ne andava allor l’irania terra, e intanto
Spegneasi ne’ pirei la sacra vampa,
Splendor fuggia della sacrata festa

Del primo dì dell’anno e della festa
Gioconda di Sadèh. Per tutta Irania,

Pei campi di Babìl, da messi e colti
Negro il fumo sala fino alle vie

Alte degli astri, e del nobile ostello


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— 431 —

Del re del mondo tutti e d’un sol moto
Cadean nella palestra alto divelti
I pinnacoli. Ed or, del tristo sogno
Risposta vera si fa chiara e aperta,
E partir vuol da noi del ciel rotante
L’instabile fortuna. Ognun che ha pregio,
Sarà dispetto e vil, chi è vile e abietto,
Grande sarà per sua novella sorte,
Divulgherassi per la terra attorno
Ogn'opra trista, manifesto il male, ©
Celato il bene. In ogni terra intanto
Fian manifeste l’opre violente,
Fia che si mostri ogni misfatto. Vengono
I segni omai di tenebrosa notte
Ben visibili a noi, chè già si parte,
Già si parte da noi la sorte amica!

Or io con vènia de’ ministri miei
E de’ principi miei d'alto consiglio,
Ver Khorassàn mi mossi, andando a quelli
Che son custodi alle frontiere, eroi
Che aman la pugna. Ancor, pel sire illustre
Di Tus città, qui gli elefanti addussi,
Trassi i timpani miei, perchè da noi
Veggasi almen qual sia volger del fato
E che avvinca a tal nodo anche non fermo
La sorte nostra. Disiando in guerra
Scender con l’avversario, ecco! che l’armi
Cinte al fianco mi son, perchè scontrarci
Con gli Arabi possiam. Congiunto è meco
Farrukhzàd per il sangue e la persona,
Amico mio ne l'alleanza sua.
Ora ei si sta, bramando la tenzone,
In Altunia, contro al nemico esercito
Volta la fronte. A questa reggia intanto
Di lui, sì forte e battagliero, giunse
Il figlio Kashmegàn. Disse parole


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— 432 —

Quali a rispetto inverso a noi s'addicono,

Quali son degne d’animo devoto

E ossequioso. Udii ciò ch'egli disse

D'esti vostri confini e degli eccelsi

Lochi e de’ bassi e degli spechi attorno

E de' lochi riposti. Ei del castello

Parlò di Gunbedàn-i-Tegh, del forte

Castel di Germinéh, di quella rocca

Di Lazhivèrdi, a nascondervi acconcia

Le nostre provvigioni; anche ei parlava

D'A1, di Makhzùm, di Desht-i-Ghil, mostrando

Ciò ch'egli avea di buon pensiero in core.
Ma, così grande esercito che nosco

Scende in battaglia, non potria gran tempo

In cotesti castelli aver soggiorno,

Angusti invero. E noi sedemmo allora

E stemmo a favellar coi consiglieri,

Quando tutti gli eroi nosco adunàrsi.

D'ogni cosa parlammo e cose assai

Fùr stabilite, fin che poi in questo

Convenimmo, perchè l’imperiale

Corona e il trono e le gemme e il suggello,

Le vesti di Kashmir, di Cina e Grecia,

Le cose tutte preziose, elette,

Quali vengonci all'uopo, e ciò che a noi

Vien da Kibciàk e da Kirvàn, le cose

Che a vestirsi, a distendersi e a gittarsi

Sul nudo suolo sono acconcie, tutti

Gli ori e le gemme ancora intatte e quante

Son cose ancora che hanno laude e pregio,

I cibi nostri con gli arnesi e quanto

A noi fa d’uopo fin che un giorno dura,

Quarantamila bovi, atti lor carri

A strascinar, trasportino con noi,

Inclito peso, con la spiga eletta

Del frumento ivi aggiunta. Anche si rechi


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— 433 —

A some di giumenti (e saran queste
Dodicimila) quanto è d’uopo a noi

Di nigella; ed il miglio ed i pistacchi,
Le melagrane, esperto un sacerdote
Rechi appo noi. Si mandi, fin che mutisi
Condizion del ciel, d’asini a some

Sale in gran copia ed in egual misura
Miglio nutriente a carchi di cammelli
E mille d'olio puro ampi vaselli

Ed otri corpulenti. Anche di zucchero
Mille carchi e di datteri pur mille

I cammelli di Balkh traggan con seco,
Anche dodicimila il miel soave,

Tutti d’un moto, ne’ castelli nostri
Menino insieme. Ancor quarantamila
Sian le carni salate, e i servi miei

Le adducan sì con altre cose. Rechinsi
Trecento some di cammelli, colme

Di nafta bruna, per due mesi ancora
Carco a noi necessario. Un sacerdote
Con gente eletta verrà poi dai lochi
Di Shemiràn, di Radeh-kùh. Dinanzi
Agli anziani e a’ principi che stanno
Sulle montagne, a’ prefetti dinanzi

E a'’saggi nostri, quale è cosa all’uopo
Traggasi dentro ai nobili castelli

E se ne affidi a' tesorieri miei

Il registro notato. E se que’ grandi
Che son di quella gente, ognì mia cosa
Vorranno seco eustodir, davvero!

Che in quelle valli e tra que’ monti eccelsi
Danno o periglio non verrà da gente
D’Arabia o di Turania. A_ voi frattanto,
In questo tempo fortunoso e reo,
Forte appo noi fa d'uopo aver la mano
E valorosa. Comandò frattanto




<pb n="8.434"/>
— 434 —

A’ nostri tesorieri il saggio e nobile
Nostro ministro d’inviar ben cinque
Vesti di Persia a chi per noi fatica,
Ed una benda ornata d'or, leggiadra,
Chi faticò, dell'’opra al fine, avrassi.

Ma in questo tempo travagliato e tristo
Dramme quaranta avrà ciascun da’ nostri
Tesorieri, e dipoi, chi fia soggetto
E servo a noi, avrassi una di nostre
Dramme lucenti che sessanta valgono,
Anzi di là da le sessanta han sei
E quattro quarti. Ei leggeravvi scritto
Ciò che v'è sculto, ad alta voce; e l'uno
De' lati avrà di Dio santo e verace
L’inclito nome, chè da Dio ci vengono
Ansia e speme e sgomento. All'altro lato
Son la corona e il volto nostro; e scritto
Ivi sarà che per l’amor di noi
Fruttifica la terra. Al dì primiero
Dell'anno che verrà, coteste cose
Apprestate saran, chè le pupille
De' prenci nostri d'un desio son piene
D'incliti doni. Venga da l’ Eterno
Benedizion su chi non fece agli altri
Offesa o danno, su chi pensa in core
A questa nostra imperial corona!

Come supposto alla real sua gemma
Ebbe quel foglio, ai duci dell’esercito
Inviollo il gran re. Venne a que’ prodi
Un cavalier di gloria amante, d'alta
E nobil sorte, e recavasi in pugno
Di Yezdeghìrd l'epistola segnata.


<pb n="8.435"/>
— 435 —

VII. Fuga di Yezdeghird.

(Ed. Calc. p. 2077-2081).

Di là fùr tratti i timpani sonanti
E verso a Tus ne venne il re, partendo
Da Nishapùr città. S'ebbe novella
Mahùy allora di Suràn che ratto
Venia nel Dehistàn pel suo sentiero
L'iranio prence, e corsegli all’incontro
Con ampia schiera di gagliardi, tutti
Armati d'aste e in lor corazze chiusi.
Come da lungi si mostrò la fulgida
Maestà del gran re, con quel vessillo
Di sua grandezza e tanti eroi dattorno,
A piè dal suo destrier subitamente
Mahuùy discese, al re dei re prestando
L’omaggio suo di fedel servo. Innanzi
Lento lento ei venia sul suolo ardente,
Fatti, per verecondia, lagrimosi
Ambo quegli occhi suoi; baciava il suolo
Ossequiando il suo signor, si stava
Lungo tempo là in piè dinanzi a lui,
Quando la gente sua benedicendo
Gridava a Yezdeghird, la fronte al suolo
Umiliava. Farrukhzàd, il volto
Allor che scorse di Mahùy, l’esercito
Tutto ordinò per l’ampie file. In core
Veracemente per Mahùy gioia,
Sì che ben molti ammonimenti e prieghi
Gli porse e disse: A te questo gran sire
Della stirpe de’ Kay, perchè t’'accinga
A. custodirlo, qui t'affido. Mai
Tu non soffrir che contro a lui si sciolga


<pb n="8.436"/>
— 436 —

Aura importuna o che qualcun gl'imponga

Obbligo alcun d'alcun favor. M'è d'uopo

Or discendere in Rey, nè so, nè veggo

Quando mai rivedrò questa de' Kay

Nobil corona, chè dell'armi al campo

Molti a me pari caddero trafitti

Sotto l’assalto di cotesti che hanno

L’aste nel pugno. Un cavalier non era.

Come Rùstem quaggiù, nè mai l'intese

Del saggio a ricordar l'orecchio intento ;

Eppure, ucciso ei fu per man d'un tristo,

Capo di corvo, tanto a noi la sorte

Precipitava! Fra gli eletti un loco

Iddio gli doni e colpo di nemica

Asta dall'alto al nero corvo infligga!
Mahùy gli rispondea: Prence guerriero,

L'anima mia serena e la pupilla

È il mio signore. Questo incarco tuo

Sì, sì mi prendo, e accolgo esto sovrano

Ch'è un ciel per te. — Così ne andava allora

Da quel loco regal, conforme al cenno

Di Yezdeghìrd, a Rey città correndo,

Principe Farrukhzàd. Lunga stagione

Dopo cotesto in ciel si volse, e intanto

Di Mahùy scellerato uscia dall’alma

L'antico amor. Già non osava alcuno’

Contro gli Arabi prodi uscir con l'armi,

Chè a lor propizia era del ciel la volta

Azzurra, e intanto dell’iranio prence

Eran le gote corrugate e smorte,

De’ nemici per l’opre il cor nel petto

Gli si stringea. Poi che sì mesto e affranto

Mahuùy vide il suo re, quando scoverse

Che di lui contro a’ voti era la sorte,

Sollecito si fe' l’iranio trono

A. disiar, diverso ne’ consigli


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— 437 —

E ne’ pensieri e nell’indole sua
Ratto si fece. Egro si fe’ del corpo
Astutamente e parvegli gravosa
La servitù verso cotanto prence.

Un prede eravi allor, di cui ben lungi
Le brame altere si stendean, che nome
Aveasi Bizhen, nella terra aprica
Nato già di Terkhàn. Fi la sua sede
Avea di Samarkanda in sul confine,

E in quel confine molti avea congiunti
Ed alleati. Ribellante al sire

Poi che Mahùy si fe’ tristo e perverso,
Venne a Bizhen da lui ratto un'epistola
Che sì dicea: Figlio d'eroi preclaro

Che sciolto vai dalla sventura in terra,
Or giovevole a te ti viene innanzi

Una battaglia, chè qui sta del mondo

Il re sovrano senza ì prodi suoi

Ea ha sua sede in Merv. Che se tu vieni,
La sua testa e il suo grado e la corona
Son cosa tua, son cosa tua pur anco

I suoi tesori e l'esercito iranio

E il trono imperial. Deh! ti ricorda

La dovuta vendetta agli avi tuoi

E fa giustizia di tal stirpe ingiusta!

Bìzhen, poi che guardando ebbe veduto
Il foglio di Mahùy, s'accorse e vide
Che di Mahùy ribelle era in potere
La terra omai, sì che si volse e disse
Al suo ministro: O il fior d’ogni più giusto,
In tal faccenda che hai tu in mente? Allora
Che aitando Mahùy meco adducessi
I prodi miei, cadria l’alto mio stato
In aperta rovina. E di me biasmo
Faria l’iranio re, me proclamando
Vil di core e di mente. E s’io non vado,


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Si la gente dira: « Della volante

Polve per tema, forsechè in orrore

Ha Bizhen battaglier dell'armi il giorno! ».
Eroe, cuor di leon che ami la puzna,

Così ‘l ministro diè risposta a lui,

Andarne da Mahuùy quale alleato

E ritornarti poi, d'alta verzogna

Cazion ti fia. Ma fa comando a quello

Valoroso Bersàm che al campo d'armi

Vada alleato. Che se in guerra vai

Di quel ch'è di Suràn, solo pel cenno,

Stolido e vano ti dira l’uom sagrio.
Giusto consiglio è ciò, Bizhen rispose,

E ch'io muova di qui, no, non è bello.
Cenno ei fece a Bersam che diecimila

Cavalieri belligeri, le acute

Spade avvezzi a vibrar, seco adducesse

In fino a Merv e apparecchiasse l’armi

Della battaglia, perchè il suo signore

Ezli recasse in suo poter. L'esercito

Da Bukhaàra venia rapido al corso

Quale un augello volator, chè al settimo

Giorno ei discese in Merv città. Nel tempo

Dell’atra notte, allor che intorno s'odono

Galli cantar, levossi da quel piano

Di timpani un fragor. Ma di cotesto

Com'ebbe annunzio il prence iranio? o come

E vide e seppe che Mahùy ribelle

Era al suo re? Levossi alta una voce

In quell’istante e un cavalier sen venne

Al primo albor del dì. Mahùv ne dice,

Gridava il cavalier, che venne esercito

Di turanica gente! Or, qual consiglio

E del nostro signor? Duce di quelli

È di Cina il maggior prence e signore,

E l'ampie schiere non contien la terra.


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— 439 —

Forte crucciossi Yezdeghird monarca
E la corazza si vestì. Da questa
E quella parte radunossi intanto
E questa gente e quella ed ordinossi,
E fiero grido si levò. D’Irania
Il nobile signor fremendo venne,
E la diritta e la sinistra schiera
Dispose ratto, sì che tutto insieme
All’aspro assalto s'avventò l’esercito.

Yezdeghird là nel mezzo era con l'asta
Stretta nel pugno e tosto intenebrava
Per l'’atra polve che levossi, il mondo.
Allora ch’ei vedea qual fosse nerbo
Di que’ Turani che chiedean la pugna,
Stese la mano e dalla gran vagina
Trasse la spada. Innanzi dall'esercito
Come elefante ei s'avanzò; la terra
Ondeggiò allor sì come ondeggia il Nilo.
Rapido e azzurro, ed ei, sì come nuvola
Che alta tuona pel cielo, impeto fece.
Ma dietro a lui già non rimase alcuno
De’ suoi guerrieri, tutti al glorioso
Volser le terga e lui lasciàr soletto
In mezzo ai cavalier. Come da esso
Mahùy s’allontanò, s’avvide il sire
Qual trama ei nascondea. Questo il disegno,
Questo l’intento di Mahùy malvagio,
Perchè cadesse prigioniero il sire
In man di lui. Valor, forza ed ardire .
E fermezza di cor nell'aspro assalto
Il re de’ regi là mostrò; nel mezzo
Delle schiere nemiche a molti ei diede
Rapida morte, ma poichè mancavangli
Arte ed aita, si fuggì. Ben molti
De’ turanici eroi furongli a tergo,
Ed ei ne andava con in pugno un ferro


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— 440 —

Già temprato in Kabul. Per l’atra notte,
Rapido come folgore pel cielo,

Corse, e correndo là su l'acque azzurre
Di Zark vide un mulin. Quivi discese
Dal palafren del mondo il re, celossi
Da’ suoi nemici d'umile mugnaio

Nel gramo ostello, mentre attorno andavano
Lui ricercando i cavalieri. Tutta

Di Zark la villa di tumulto piena

Fu in quella notte. Ma rimasto a dietro
Era di Yezdeghiìrd il palafreno

Con dorate sue redini, e la clava
Rimasta eravi ancor col brando suo
Dal fodero dorato. Alto gridando

I Turani movean cercando il prence

E fremean d'ira, l’armi e il palafreno
In rimirarne abbandonati. Intanto,

Del mulin nell’ostel si nascondea
L'iranio re, sovra dl fastello assiso
D’erbe seccate al sol. — Tale è costume
Di nostra vita ingannatrice; è in alto
L'altezza sua, ma rapida la scesa.
Allor che di costui vigile e desta

Era la sorte, parve il ciel sorreggerne
Il regal trono; ed or, toccògli in sorte
Il gramo ostello d'un mulin deserto,

E il cielo infido più che dolce balsamo
Atro velen gli amministrò. Se in core
Saggezza hai tu, non avvincere il core
Al mondo infido, chè dal mondo nulla
A noi provien fuor che travaglio al fine.
Liscio qual serpe egli è, se l'accarezzi,
Ma tempo ha sì che reo veleno ardente
Intorno spande. A che tu poni il core
A questa vita ch'è futile e vana,

In cui, ad ogni tempo, odesì fremito




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Qual di timballo che il partir ne intima?

E levasi una voce: « Or tu le some

T'appresta omai, chè sol del tuo sepolcro

T'avraìi per trono le commesse pietre! ».
Con digiuna la bocca e lagrimosi

Gli occhi dolenti, Yezdeghìrd là stette

Fin che il sol si levò. Schiuse la porta

Il mugnaio, e recavasi sul dorso -

D'erbe un fastello. Un uom da nulla e vile

Era costui, Khusrèv di nome, e nulla

Si possedea, non senno avea, non brama

Alcuna in cor, non rinomanza. Tutto

Suo scarso cibo ei dal mulin traea,

Non attendendo, fuor di questa, ad altra

Opra in niun tempo. Fi vide là un eroe,

Qual agile cipresso entro un giardino,

Mesto ed afflitto in su la terra assiso,

Con serto imperial sovra la fronte

E col petto che fulgido splendea.

Dì broccati di Grecia. Erano gli occhi

Eguali a quelli di gazzella e il petto

E la cervice qual di leon fero,

Sì che di rimirarlo ancor non erano

Sazi quegli occhi suoi. Ma d’oro i sandali

Avea l’estranio cavaliere al piede,

Con rabeschi e figure, e della tunica

Era adorna la manica di perle

D'una bell'acqua e d'or. Khusrèv guardava

E attonito restò; nel suo stupore

Santo il nome di Dio forte invocando,

Allo straniero così disse: O forte

Che d'un sole hai la faccia, oh! come a questo

Mulin se’ giunto? Dillo omai! Qual loco

È il mulin perchè tu così vi posi,

Il mulin che di polvere e di grano

E d'erbe è pieno? E chi sei tu con questa


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— 442 —

Alta statura e questo volto e questa
Inclita maestà? Davver! che il cielo
Uom come te non vede mai dall'alto!
Degl'Irani son io, ripose il prence,
E qui fuggii dalle turanie schiere.
Nulla è congiunto a me fuor che la trista
Mia povertà, con vergognosa fronte
Disse il mugnaio. Che se a te fa d’uopo
D'orzo un misero pane e l'erba vile
Che a noi cresce ne' fossi, io di cotesto
Ti farò parte. Ma di là da questo
Più nulla è qui di ciò ch'è al mondo, e l'uomo
Che vuota ha la sua man, sempre si lagna.
Da tre giorni per l’orrida battaglia
Atteso non avea del mondo il sire
A prender cibo, a prender sonno, ond'ei
Tosto rispose: Ciò che hai tu mi reca,
Ogni tuo cibo cademi in acconcio
Con un fastello d’esili verbene.
L'uom poverello e d'umil nascimento
Ratto ne andava. D'orzo il tristo pane
E l’erba vil de' fossì allo straniero
Depose innanzi e s’affrettò correndo
Per quello di verbene ampio fastello
E discese alla via là dove è il guado
Della riviera. E di Zark andò in pria
Dal borgomastro per quell’alta sponda,
Delle sacre verbene a lui per chiedere
Ampio un fastello. In ogni parte attorno
Genti mandate avea Mahùy frattanto,
Re Yezdeghird a ricercar; di tanto
Sol sì curava. Il borgomastro allora
Così fe’ inchiesta al semplice mugnaio:
Deh! per chi mai delle verbene il fascio,
O fortunato, vai cercando? — Un prode,
Khusrèv gli rispondea, stassene assiso


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— 443 —

Là dal mulin su l’erbe ivi raccolte,

Nella statura ad agile cipresso

Eguale, come sol nel vago aspetto,

Con molta dignità. Le sopracciglia

Son qual arco perfetto e son dolenti

Ambo quegli occhi suoi, l'anima è piena

D'alto cordoglio e di caldi sospiri

Piena la strozza. Antico un desco mio

Là dinanzi io gli posi, e sovra un pane

D'orzo vil, di me degno. Ei per sue preci

Or mi domanda di verbene un fascio,

E ben si vuol che tu per lui stupisca.
Dissegli il borgomastro: Or di qui vanne

E a Mahùy di Suràn questo racconta,

Chè non si vuol che, come ciò da un altro

Sappia l’uom tristo, l'indole sua mala

Tutta disveli contro a noi. — Lasciavalo

Subitamente il borgomastro a un suo

Fedel servo in poter, quale al cospetto

L’addusse di Mahùy. Quel poverello

Mahùy richiese interrogando: Il vero

Or dimmi tu. Per chi a cercar venisti

Di verbene il fastello? — E timoroso

Così quei rispondea: De’ carchi miei

Facea ricerca a questa mane, allora

Che con rapido moto io del mulino

Schiusi la porta. Sappi omai che un sole

Apparve agli occhi miei. Qual di cerbiatto

Che vinto è da timor, dello straniero

Erano gli occhi e i folti suoi capelli

Neri qual notte di cui già passate

Son tre vigilie. Da fragranza eletta

Che da lui mi venia, venia di muschio

Un sentor vivo e maestà d’un serto

Imperial dal volto suo spirava.

Ma chi di Dio non vide mai con gli occhi


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— 444 —

La maestà, davver! che ora la chiave
Chiederà del mulin per contemplarla!

È la corona sua piena di gemme
Intatte ancora, e gli risplende il petto
Di broccati di Grecia. Ecco! per lui

Si fe’ il mulino fulgido qual sole,

Ma d'orzo un pane è il cibo suo, gli è scanno
D'erbe un fastello. Egli è unà primavera
Di paradiso, tu diresti; e l'uomo

Del villaggio non mai piantò cipresso
Pari d'altezza a lui dentro un giardino.

VIII. Trama per uccidere Yezdeghird.

(Ed. Calc. p. 2081-2085).

Mahùy, come raccolse intento il core
A questi detti, ben s'accorse e vide
Che Yezdeghìrd era colui. T'affretta,
Disse al mugnaio, esci da questa accolta
Assemblea di gagliardi e allo straniero
Togli il capo dal busto; e se nol fai,
Io stesso tronco avrò questo tuo capo,
Di tua famiglia non lasciando in terra
Alcun che viva. — I principi raccolti,
I grandi tutti vigili e gagliardi,

Tutti i guerrieri, come udìr que’ detti,
Intorno al tristo s'adunàr, di sdegno
Pieni e di cruccio, di parole acerbe
Piena la lingua e lagrimosi gli occhi.
Radùy di nome, in essi era pur anco
Un sacerdote, quale all'alma sua
Imposte avea di senno e di ragione
Le redini possenti. Egli a Mahùy

Così parlò: Deh! tu malvagio e reo,


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— 445 —

Perchè mai t’accecò gli occhi protervi

Un tristo Devo? Sappi omai che regia

Possanza e profezia sono due gemme

In un anello infisse e che se d'esse

Una tu infrangi, la ragione e il senno

Dell'uom calpesti e l’alma sua. Deh! mira

Ciò che tu di', cauto ten guarda, e reo

Non dimostrarti inverso a Dio signore!

E primo a te verrà danno e periglio

Da ciò che fai, lasciando un seminato

Campo al tuo figlio, di cui fieno un giorno

Amari i frutti e di sangue le faglie

Intinte e infette! Vedrai tosto in basso

L'altezza tua precipitar. Parrassi

Ignuda allor di te l’opra malvagia,

E per la terra mieteranno i tuoi

Figli del seme che gittasti un giorno.

Religion di Dio n’avrà iattura

Per te soltanto, e ben sarà che biasmo

Faccian di te questa corona e il trono.
Un uom fedele a Dio, casto e devoto,

Eravi allor quale non mai la destra

Avea distesa d’ingiustizia all'opre

(Hormùzd, rampollo di Kharràd, il nome),

Di cui posava l’anima contenta

Della fè nella pace. Ei disse allora

A Mahùy con molt'ira: Oh! tu protervo,

Dalla porta di Dio santo e verace

Non andar lungi come fail Già veggo

Che torbido è il tuo cor, torbido il senno,

Veggo che tristo qual deserto avello

È il tuo perfido sen. Grande di membra

Tu se’, ma privo di cerèbro e l’alma

Hai vile e rea. Non cerchi tu la tepida

Vampa del fuoco, ma il suo tristo fumo.

Veggo che in terra biasimo d’altrui


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— 446 —

Mendicando ti vai, veggo che ardore
Di tua rovina hai tu medesmo e in questo
Ti struggi ed angi. Or sarà la tua vita
Deserta e grama, e, al tuo partirne, avrai
Nel fuoco eterno l’ultimo soggiorno.
Si assise Hormùzd, e balzò in piè d'un tratto
Shehràn e disse vèér Mahùy rivolto:
Tanto ardire a che mai? Venisti in guerra
Contro al re d'ogni re, venisti amico
Di Cina al prence ed al signor! Ben molti
D'esta famiglia di regnanti prischi
Fr visti un dì senz'alleati; eppure
Niun s’affrettava in trarli a morte mai.
Poi che servo sei tu, de' regi il sangue
Non versar, chè avrai biasmo in fino al giorno
Che da le tombe sorgeranno i morti.
Questo egli disse, e per dolor piangendo
Si assise al loco suo, pieno d'affanno
Il cor, con gli occhi lagrimosi. Ratto
Ch'ei si fu assiso, Mihr-i-nùsh innanzi
Si fe’ piangente, pien di doglia al core,
E con pianti e con lai disse all'uom tristo:
Deh! protervo e malnato, che nel core
Non hai giustizia, non consiglio nutri
Pel fin dell'opre, anche rispetto avria
Immane alligator di real sangue,
E se pardo feroce alla campagna
Trovasse ucciso un re, la fredda spoglia
Dilaniar non ne oserebbe. Oh! tristo,
Oh! tristo più d’assai che non le belve
Nella natura tua, nelle tue brame,
Della corona imperial desìo
Dunque ti venne in cor! Quando per mano
Dell’arabo Dahàk giacquesi ucciso
Gemshìd monarca, deh! qual tempo ancora
Dopo cotesto il ciel si volse in alto!


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— 447 —

Ma tosto che Dahàk dell’ampia terra

Si fe' sovrano, Abtin al mondo apparve
E nacque re Fredùn di genitura

Nobile ed alta, onde poi venne al mondo
Ordin novello. Udisti tu qual frutto
Ebbe poi di sè stesso al fin dell'opra
Dahàk ingiusto e reo. Più che mill’anni
Passarono su lui, ma venne al fine
L'’aspro esattor di sua vendettà. Ancora
Quando Tur violento e tracotante

(Cui tormentava dell'irania terra
Implacato desio), stolto ed insano

Eràg' trafisse ingenuo ed innocente

Sì che la grazia del trafitto andava

Per lui sotterra, quando poi mandonne
A Fredùn valoroso il tronco capo

E immerse nel dolor tutta la terra,
Apparve Minocihr della tradita

Stirpe d'Eràg’, e all'empio nodo a un tratto
La chiave si trovò. Terzo fu il prode
Siyavish, de' re Kay nobil rampollo,
Qual contro al suo desio l’armi di guerra
Si cinse ai fianchi. Alle parole triste

Di Garsivèz, e verecondia e onore

Dalla mente e dall'anima cacciava
Afrasyàb truculento, ond’egli uccidere

Il garzoncel potè, figlio di regi.

Ma nemico e crucciato inverso a lui

Si fe’ il mondo però, fin che dal seme
Di Siyavish tradito inclito sire

Venne prence Khusrèv che l'ampia terra
Tutta empì di scompigli e di tumulti.
L'avo suo con la spada egli trafisse

A mezzo la persona e di spavento
Empiè la mente di chi cerca in terra

E litigi e contese. Al quarto loco


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— 448 —

È la vendetta contro Argiàsp che il sangue
Di Lohràspe versò. Quando in battaglia
Isfendiàr con lui discese, tempo,

Per desio ch'egli avea d’aspra vendetta,
Non gli concesse all’indugiar. Fu quinta
Di re Hormùzd la vendetta. Allor che in terra
Ebbe prence Pervìz ben fermo core

E potestà, fe'ciò ch’ei fe' dei tristi,
Gustehemme e Bendùy. Davver! che mai
Da’ moti suoi questa rotante vélta

Non s'arresta del ciel! Non fe’ ricordo
.Perviz allor di quanto ei fean per esso,
Poi che là in mezzo eran del padre il sangue
E l’amore e il natal. Com’ei di mano
Forte divenne, lor trancò la mano
Subitamente. Oh no! leggera cosa
Estimar non possiam della vendetta
L’alto subietto! E te pur anco il fato
Ratto cérrà, quando corruccio avrai

De’ pensamenti tuoi tristi ed insani.

Di ciò che in terra seminando vai,
Mieteranno i tuoi figli, e un solo istante
Non arrestasi il fato, la vendetta

In apprestar. Ti guarda da cotesti

Tesori adorni del tuo re, da queste
Ricchezze sue, da questa che un erede
Chiede soltanto, imperial corona.

Ma tu volgi la mente al rio comando
D'un tristo Devo omai, tu togli il core
Dal sentier ch'è di Dio. Per cosa intanto
Che a te si disconviene, assai dovresti

E intendere e saper che in ciò t'inganna
Un Devo traditor. Deh! l'alma tua,

Deh! la persona tua fa che non ardano
Nel fuoco eterno un dì! Gloria di questa
Corona imperial ch'è luce al mondo,


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— 449 —


Non oscurar, ma le disperse genti
Raccogli intorno a te, volgi tuo intento
In quella guisa che dicesti un giorno,
E di qui per tue scuse al re del mondo
Vanne compunto; tosto che il vedrai,
Patto di servitù con lui rinnova,
Poscia di là contro a’ nemici suoi
La guerra appresta, nè posarti déi
Dal far tue scuse e meditar. Per quello
Che pensi in cor, tristo avrai segno e in questa
Vita e nell'altra, poi che de’ più saggi
Il parlar non ascolti. Opra che in oggi
Compir t'è d'uopo, se a diman rinvii,
Ben sarà che per essa altri ti adduca
[attura manifesta. Al re dei regi,
A prence Yezdeghird, peggior nemico
Inver tu sei d'esti Turani avversi,
A lui, ch'è qual leone entro la pugna
E re sul trono, splendido qual luna
O qual sole su in ciel, de’ re Sassàni
Unico erede, quando niuno in terra
Stringeasi a’ fianchi la regal cintura
Come re Yezdeghird. Di padre in padre,
Da prence Nushirvàn a quell’ illustre
Ardeshìr, con saper saggezza antica
Egli redava, ei che per sette padri,
Da re Ardeshiîr in poi, fu re del mondo
Incoronato fra i Sassàni prenci.
Chè veramente Iddio l’ imperiale
Corona in capo gli posò, di tanti
Regi d’illustre nascimento il serto.
Molti erano quaggiù di te più forti,
Ma niuno in core concepìa giammai
Consiglio al tuo simìl. Behràm Ciubineh,
A cui dinanzi, per un dardo suo,
Volgean le terga abbandonando il campo




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— 450 —

Di lor battaglie ben trecentomila

Cavalieri gagliardi usi le redini

De’ lor destrieri a governar, recanti

Rilucenti gualdrappe, allor che il core

Ebbesi stanco de’ monarchi suoi

Della semenza, vide d'alto scendere

La sua fortuna in pria sì bella e chiara;

E Ferayin che il trono imperiale

Volle agognar, di cui non era degno,

E però s’apprestava empie e perverse

Opre a compir, miseramente ucciso

E turpemente, come sai, si giacque.

Davver! che il fato non sopporta in terra

Insano millantar! Temi di Dio

Alto fattor di questa terra e primo

Autor del trono imperial, del serto

E del suggel di re sovrano, ed onta

A te medesmo non far tu per tuo

Stolto consiglio, chè a te contro un giorno,

E sarà tosto, fia rivolta questa

Impresa tua malvagia! Oh! quei che teco

Non dice il ver, sappi che all’alma tua

Egli è nemico. Ora egro sei, ma in loco

Di medico son io, medico afflitto

Che va piangendo lagrime di duolo.

Che se tu d'ogni servo infimo sei,

Non prenderti, del cor per rio pensiero,

Vano costume di grandezza! Intanto,

Arditamente a Dio santo e verace

Fai guerra stolta e fuor da quella via

Che il senno addita, inclito grado agogni.
Ma di quel figlio di pastori abietti

Pieno era il cor d'una cocente brama

Del trono imperial, sì che gli venne

Sgradito e acerbo il consigliar de’ saggi.
E ciò fu sempre dal principio, e nuova


<pb n="8.451"/>
— 451 —

Cosa questa non è; non ha misura
L'offesa- del destin. Questo ei solleva
Al ciel sublime e quello rende misero
E tapino e dolente. Ei non ha patti

O con questo o con quel ne' diuturni
Assalti suoi, non sapienza, o norma,

Non fè, non legge, non pudor, non senno.
I saggi tutti e i sacerdoti allora, |
Fin che il mondo oscurò salendo al loco

Del sol fiammante la pallida luna,
Porgean consigli e ammonimenti al tristo
Che sua vendetta si cercava; eppure
Giovamento non fu, quanto un capello,
Di lor parole alcun. Come la notte
Fu tenebrosa, È d’uopo omai, dicea
Ai sacerdoti, È d’uopo omai che i saggi
Escan di qui. Nella mia mente, in questa
Notte che segue, la faccenda grave
Io penserò, portando a recar frutto
Ogni maniera di saper. Qui tosto
Adunerem dell'esercito mio
Venti eroi de’ più saggi, onde non sia
Che piangere da noi debbasi un giorno
Di qualche opera trista e sventurata.
Uscìan di lui dalla presenza i saggi,
Allor che venne da sue schiere accolte
Un sacerdote. Ratto che sì assise
Prence Mahùy co’ suoi fidati, ei disse :
In questa impresa, oh! che vedete voi?
Se Yezdeghird vivo si resta, eserciti
Verranno a lui da tutte parti intorno
A radunarsi; e già svelato è il mio
Alto secreto per la terra, insieme
Principi e servi già l’udîr. Davvero!
Che da mal ch'ei farammi, al termin suo
La mia vita cadrà, non la mia terra
Mi resterà, non la persona mia.


<pb n="8.452"/>
— 452 —

Così rispose un uom prudente: Questo
Far tu al principio non dovèi! Nemico
Se t'è l’iranio prence, oh! non è dubbio
Che alla persona mal da lui t'incolga!
Ma se ne versi di tua mano il sangue
E ne resta esattor della vendetta
Iddio nel mondo, affanno e duol da dritta
E da manca ti sta d'ogni maniera.
Guarda tu adunque e vedi ciò che in questo
Oprar t'è d'uopo. — E il figlio disse: O padre
Che hai felice consiglio, or che t'hai fatto
Nemico Yezdeghird, sgombrane il loco.
Di Cina e di Macin verrà per lui
Esercito possente, onde la terra
Farassi angusta a noi. Lieve cotesta
Impresa non stimar. Poi che vincente
Fosti su lui, non vellicar la strozza
Del leon fero. Che se alcun de' prodi
Vessillo si farà del lembo estremo
Di sua veste regal, te dalla terra
Sradicherà con le falangi tue.

IX. Morte di Yezdeghird.

(Ed. Calo. p. 2085-2089).

Mahùy, senza pudor, senza vergogna,
Ratto che udì, con impeto e con vampo
Al mugnaio si volse e fe’ tai detti:

Léèvati, alquanti cavalier ti prendi
E spargi il sangue del nemico mio.

Il semplice mugnaio, allor che intese,
Delle parole di colui non vide
Fine o principio; ma nell’ora istessa,

Nel tardo vespro, in che sì asside in trono


<pb n="8.453"/>
— 453 —

La bianca luna, al suo mulin tornossi

Appo l’iranio re. Com'egli uscito

Fu da l’ostello di Mahùy, con ambo

Gli occhi piangenti e pien d'affanno il core,

Mahùy protervo cavalieri suoi

Mandò subitamente a le sue spalle,

Rapidi sì qual è di negro fumo

Nembo dall’aer sospinto. Ei fe' comando

E disse: La corona imperiale

E gli orecchini col real suggello

E la tunica regia, in niuna guisa,

Si tingano per voi del sangue suo.

Come esanime ei sia, la regal vesta

Via gli togliete. — Il buon mugnaio intanto,

Con lagrimose le pupille, smorte

Ambe le guance come il sol talvolta,

Supplicando venia: Giudice eterno,

Fattor del cielo, ben tu avanzi tutti

I mutamenti della rea fortuna!

Or tu a costui, per suo tristo comando,

Il cor dilania e l’anima, o Signore !
Così, pien di vergogna e di sgomento

Egli andava al suo re, con lagrimose

Ambe le gote, arido il labbro. Allora

Che circospetto gli si fe’ vicino,

Come se confidargli alcun secreto

All'orecchio ei volesse, un suo pugnale

Del re infelice conficcò nel ventre

E al fero colpo disperato grido

Di Yezdeghird uscì dal labbro. Cadde

Il capo suo con la corona al suolo,

Quando là ancora gli giacea d’accanto

Abbandonato il pane d'orzo. — Scampo

Ove dal reo destin ritrovi alcuno

E resti in vita, vero senno in core

Ei non alberga! Non ha senno vero


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— 454 —

Questo mutar del cielo roteante,
Nè si discerne dall'amor ch'ei reca,
Il suo disdegno o il suo corruccio. Meglio
È sì davver che tu al mondo non guardi
Con gli occhi mai, non serbi amor, non ira
Per l’opre sue, chè si fan stanchi e lassi
Di chi un giorno allevàr, questi del cielo
Sette pianeti, e l’innocente ancora,
Come re Yezdeghiìrd, cade trafitto.
Principe incoronato oh! non moria
In tal guisa giammai, nè cavaliero
D'una falange di gagliardi in guerra!
Ma di Mahùy perverso i cavalieri
Videro che giacea lungi dal trono,
Lungi dal loco di sua pace, quella
Nobil pianta regal. Corse ciascuno
E quel volto mirò, poscia i legami
Tutti fùr sciolti alla tunica regia
D'un color violetto e la corona
All'estinto fu tolta, anche il monile
Ed i calzari in fulgid'or. Levaro
AI re dei regi gli ornamenti suoi
E lui in guisa turpe abbandonaro
Sul tristo suol. Deh! sì, giacea per terra
Del re d’Irania la persona estinta
Di sangue intrisa, dal pugnal nemico
Squarciato il fianco. Ma taluno allora
A Mahùy ciò dicea : Dal trono suo
Cadde l’altero, godimenti e pugne
Egli perdette! — Ratto che levàrsi
Dal bieco ostel le genti dolorose,
Sciogliean la lingua ad imprecar, dicendo:
Deh! così giaccia di Mahùy la spoglia
Estinta un giorno, abbandonata al suolo,
Tinta del sangue suo! — Ma l’uom perverso
Fe’ cenno sì che nel tempo del sonno


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— 455 —

Gittata fosse la spoglia regale

Entro l’acque profonde. — E vedi intanto
Meraviglia di cid! — Dal suo mulino
Tolse il mugnaio la regal persona,

Ei nell’acque gittò l’uom grande e forte,
La ’ve il suo capo or sì mostrò fra l’onde
Alto levato, or volto in giù. L’ucciso

Non discernean da folaghe raccolte

Su quell’acque le genti, allor che dentro
A que’ gorghi profondi ei fu gittato.

Ma poi che in giorno si mutò la notte
E le genti mostràrsi, al tristo loco
Giunser due saggi, penitenti antichi
Ed astinenti, e venne un d’essi al verde
Margo del fiume. Dell'estinto sire
Come vide la spoglia entro quell’acque,
Forte crucciossi e ritornò affrettato,
Corse alla porta del santuario e disse
Ciò che pur vide, ai penitenti: Il prence,
Signor del mondo, è là in que' gorghi. Ignudo
Ei del fiume di Zark è dentro all’acque.

Molti accorsero allor de’ penitenti,
Monaci accorser d’ogni schiera e accorse
Il vescovo pur anco. Un fero grido
Per acerbo dolor levossi ratto
Dai monaci raccolti: O incoronato
Signor del mondo, o generoso, o grande,
Niun vide in terra principe sovrano
In sì misero stato, e niuno intese,

Non pur di Cristo pria del tempo, mai

A raccontar che infido servo, cane,
Malnato inver, ramingo per la terra,
Tal cura del suo re con alma finta

Si prendesse, onde poi danno ed offesa —
Di lui toccasse la persona. Mertasi
Maledizion di Dio Mahùy per tanto!


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— 456 —

Ahi! la tua fronte, o nobil re, la tua

Regal corona e la statura bella

E la forza e il vigor! Deh! quel tuo braccio

E l'ampio petto e la tua man possente

E la tua ferrea clava! Ahi! capo estinto

Della famiglia d'Ardeshìr sovrano!

Ahi! gentil giovinetto! ahi! cavaliero!

Eri forte e gagliardo e l’alma tua

Era adorna di senno! Or questa nuova

Tu rechi a Nushirvàn, che il bianco petto,

D'un mulin ne l’ostel, con crudo ferro

Tì squarciarono i tristi, a te che volto

Avéi di luna, principe del mondo,

Amator del tuo serto, e che nell’acque

Ignudo ti gittàr. Davver! che quella

Tomba di Nushirvàn gemiti e lai

Udir farà, che dell'antico sire

A tanta angoscia si dorrà lo spirto!

Anche il sepolcro d’Ardeshìr sovrano

Di doglia gemerà, chè niuno in terra

Udì narrar che ne’ profondi gorghi

Un re perisse, che gittato all'acque

Così fosse un gran prence, insanguinate

Le membra e ignude, a capo in giù travolto!
Quattro monaci allor de' penitenti,

Tolte le vesti, entràr nel fiume e il corpo

Ignudo di cotal, giovane sire,

A prence Nushirvàn tardo nepote,

Trasser dall’acque in loco asciutto, e quivi

Fér gran pianto su lui giovani e vecchi.

Indi apprestàrgli in un giardin la tomba

E n’elevàr la cima alle vaganti

Nubi del ciel. Ma le ferite in pria

Tutte essiccàr del nobile sovrano

Con vischio e pece, con intatta canfora

E con muschio odoroso, e in drappi gialli



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— 457 —

La fredda spoglia ne adornàr. Di sotto
Stesero un pannolin morbido e lieve,
E di sopra una tela ampia e in colore
Qual è di lapislazzuli. In quel loco
Di eterno sonno il vescovo frattanto
Acqua di rose e puro muschio a spargere
Venne e canfora eletta e vin gagliardo
E visco in copia. Oh! che dicea l'illustre
Borgomastro di Merv quando fu ascosa,
Qual cipresso gentil, del re la spoglia?
Per faticar ch'ei fa, disse, riposti
Son pur sempre di Dio grazia e favore
Per l'uom che pago e sorridente e lieto
Via dal mondo sen va! — S'anche ei sorride,
Aggiunse un altro, sappi ancor che dentro
Egli è alla turba de’ dolenti e mesti,
Ch'egli ebbe inganno dal rotante cielo,
Dal ciel che alto l'addusse e in basso poi
Il fe’ cader. — Ma tu non chiamerai
Sapiente colui, soggiunse un altro,
Che col sangue de' regi utile frutto
A sè stesso procaccia e va frattanto
Dovizie ad accattar con tristo nome,
Quando l’alma sua rea male non teme
Che all'ultimo verrà. — Poi che sue labbra,
Un altro aggiunse, chiuse il re sovrano,
Qui non vegg'io la sua corona e il trono
In che sedea, non il regal suggello,
Non i suoi servi entro la reggia illustre,
Non la benda regal, non l'alto scanno
O il diadema o la sua terra! E-allora
Che ciò non giova, questo nostro affanno
Che val per noi, che val la sorte infida ?
Coi saggi detti tuoi, soggiunse un altro,
O prence, sì davver! che di te degna
Veggo la lode! Un agile cipresso


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— 458 —

Del paradiso nel giardin piantasti,
Ed or l’anima tua nel paradiso
L'albero ammira che piantò. — Si tolse
Iddio l'anima tua, rispose un altro,
E la tua spoglia a questo acerbo duolo
Abbandonò. Ma ciò incremento al tuo
Spirto sarà, sarà cagion di danno
Al tuo nemico. Ed or, nel paradiso,
Stato beato è di tal re possente,
Mentre all'inferno viaggiando scende
L'anima trista de' nemici suoi!

Re sapiente, disse un altro, saggio,
Della famiglia d'’Ardeshìr progenie,
Di ciò che seminasti in bel giardino,
Or tu mietendo vai. Splende sovrana
La tua facella imperial. — Deh! giovane,
Deh! giovane signor, soggiunse un altro,
Qui t'addormisti, ma svegliasti altrove
La bell’anima tua. Qui tace il labbro,
Ma l’alma assorse ad inclita assemblea,
La spoglia tua qui abbandonando. Inerte
Qui ti rimani, ma operante e viva
È pur l’anima tua, mentre da un alto
Legno già pende de’ nemici tuoi
Il tristo capo. Se la lingua tace,
L’anima tua favella ancor; se il corpo
É qui ferito, più lucente e puro
Sì fe’ tuo spirto, e se lasciò le redini
La mano tua, l’anima tua si prese
Un’asta e l’impugnò. — Nobile eroe,
Altri soggiunse, tu partisti e innanzi
Come guida ne andàr l’opere tue;
Ed or nel paradiso a un alto soglio
T'assidi, e ad altri si restò in retaggio
Questa misera terra! — E l’uom che uccise
Uom di te pari, un altro disse, or vegga,


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— 459 —

Vegga nemica la fortuna! — Il vescovo

Aggiunse allor: Siam noi tutti i tuoi servi,

Per l'anima tua bella, o re sovrano,

Ossequiosi. Ed or, questo tuo avello,

Con tulipani seminati attorno,

Ti sia come un giardin; funeral coltrice

Questa terra ti sia fiorente e lieta, .

Queste valli all'intorno erme ed apriche!
Detto cotesto, ei sollevàr la bara

E nell’avello da quel campo aperto

La carreggiàr. Contro sua voglia sceso

Nella sua tomba è il re sovrano, e cessa,

Cessa per lui del trono suo regale

Tutta la pompa, del suo serto il fasto,

Di sua corona lo splendor. — Deh! vecchio

Di storie narrator, volgiti a dietro

Dal calle incerto del desire e tronca

La tua parola omai! — Giustizia noi

Qui dimandiam per Yezdeghìrd, vendetta

Qui dimandiam di questi che nel cielo

Errando van sette pianeti. Intanto,

Poi che nulla ei ben sa di tal giustizia,

Di tal vendetta, non mi diè risposta

Chi presso a noi filosofo si dice;

E s'ei men disse, la parola sua

Era chiusa ed incerta, onde rimase

La verace risposta entro a profondo

Mistero avvolta. Or tu, che in cor più sano

Consiglio rechi, se tesori in terra

Vantar non puoi, lieto ti fa del core

Non ripensando alla dimane. Rapido

Passerà il tempo tuo su questa terra,

E già numera il fato al tuo respiro

Ogni breve alitar. Fin che tu alberghi

La tua spoglia mortal, per questi brevi

Giorni del viver tuo, s'altra semenza


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— 460 —

Non vai gittando fuor che d'opre oneste,
Bene sarà. Parco e frugal ne’ cibi
Prendi costume; che se vivo in terra
Anche rimani, chi ti dava un giorno,
Ancora ti darà. Gioia soltanto
Possa tu aver da questa vita e nome
Ilibato quaggiù! Te allor beato!
Fin che tu puoi, malvagie opre evitando,
SÌ vedrai che non scende offesa o danno
Da vero e giusto senno; e vino intanto
Ti reca e godi, chè non molto dura
Nostro giorno vital. Quale a principio,
Tal la vita oggidì, nè per alcuno
Ha cotanta virtù che resti eterna.

Che se a me fosser pari e ciò ch'io prendo
E ciò ch'io spendo, qual fratel d'amore
A me il fato sarìa. Ma, come morte,
Venne in quest'anno la gragnuola, ed era
Della grandine trista a me la morte
Miglior cosa davver! Quest'alto cielo,
Alto e sublime, così a me rapìa
Armenti e legna e biondeggianti messi.

X. Signoria di MaAhfy di Sar.

(Ed. Calc. PD. 2089-2091).

Ora, a Mahùy di Sur venne qualcuno
E così disse: Già nasconde il seno
Dell’ampia terra il re del mondo. Vescovi
E archimandriti e monaci di Grecia,
Tutti di quel castello i penitenti,
Giovani e vecchi, al designato loco
Venner piangendo e tolsero dall'acque
Di Yezdeghird la morta spoglia. A lui
In un giardin costrussero la tomba,


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— 461 —

Alta, sublime, superante il volo
De’ tristi corvi in ciel. — Mahùy malvagio,
Di rea forluna, così disse allora:

Pria d'oggi mai non fu alleata a Grecia
Irania nostra veramente! — Poscia
Genti mandò che trucidàr que' pii
Che il sepolcro elevàr del morto sire,

Che per tal lutto ebber dolor. La terra
Tutta ne disertàr, chè trista voglia
Era cotesta di Mahùy protervo.

Ma poi, pel mondo in giro, ei riguardando,
Della stirpe de’ prenci alcun non scorse
Che vivo fosse. Una corona avca
Del re morto e un suggel, sì che malvagia
Ambizion loco si fe’ nel core
Di quel figliuol d'ignobili pastori.

Tutti i fedeli suoi chiamossi attorno,

Già posti a parte de' secreti, e quante

Avea parole in core, apertamente

Là pronunciò. Deh! tu sagace e sperto,
Disse al ministro suo, venne per noi,

Venne quel giorno di battaglie e d'armi.

Io tesori non ho, nome o regale

Nascimento non vanto, e già di perdermi
Penso nel cor. Di Yezdeghird il nome
Scritto è su questo anel, nè con la spada

Al novello poter vonno acconciarsi

Le genti nostre. Le città d'Irania

Servon fedeli a Yezdeghìrd, ancora

Che li congiunti e gli alleati suoì

Vadan dispersi. L’uom ch'è saggio, il nome
Non mi dà di sovrano, e l'ampio esercito
Già non s'acqueta, del suggello mio
L’impronta in rimirar. Ben altra in core
Speranza avemmo noi! Deh! perchè adunque
Spargemmo il sangue del signor del mondo?


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— 462 —
Tutta la notte di corruccio e d'ansia,
Per il lungo pensar, pieno è il mio core,
E quale ora son io, Dio ben conosce!

Il consiglier gli rispondea : Compiuta
Cosa è cotesta, e già ripieno è il mondo
Della fama di ciò che festi ardito.

Or però tu ripensa all’opra tua
Investigando, chè rompesti vincolo

Che al re già ti congiunse. Ora egli in tomba
Polvere diventò, dell’alma stanca |
Balsamo fu del desolato avello

La trista polve. Tu frattanto aduna
Tutti i principi tuoi di cose esperti,
Indi la lingua a far parole oneste
Rapido aguzza. Tu dirai: « L’anello
Imperial con la corona il sire,

Per grado mio di principe leale,

Mi conferì. Com'egli intese un ampio
Stuol di Turani qui venirne in guerra,
Quando più oscura fu la notte, al suo
Fianco mi volle e dissemi: «« L’orrendo
Grido di guerra poi che qui levossi,
Chi sa, chi vede, verso a chi fortuna

In terra volgerà ? Ma tu mi serba
Questa corona e questo anello mio,

Chè forse in tempo di battaglie e d'armi
Verranno all'uopo. M’ebbi qui soltanto
Vaga una figlia, eppur celata agli occhi
Degli Arabi ella sta. Tu parimente

Al mio nemico il trono imperiale

Non lasciar, ma fedel la legge mia
Difendi e osserva »». Or io questa corona
Ho qual retaggio dal mio re, per suo
Regal comando qui m’assido in trono ».
Per tale astuzia all'opra che tu festi,
Splendore adduci. E chi sa poi se il vero
O la menzogna nel tuo dir s' annida?


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— 463 —

Mahùy, come ascoltò, dissegli: Evviva!
Ministro mio tu sei, nè alcun più grande
A te sopra si sta. — Così adunava
I prenci tutti di sue armate schiere
E in quella via facea parole oneste.

Ma s'avvide l’esercito che al vero

Non era il dir conforme, e ch'ei, per sua
Svergognata iattanza, era omai degno
D’andar tronco del capo. Un degli eroi
Gridò pertanto: Opera tua cotesta,

Se vero o falso è ciò che a noi favelli!

Mahùy, come l’udì, s'assise al trono
Imperiale, e ratto in poter suo
Vennegli Khorassàn per le maligne
Arti che usò. Spartì fra i prenci suoi
Del regno iranio l'ampia superficie
E disse: Qui son io signor del mondo
Con suggello regal. — Quante eran genti
Di sua semenza a sè chiamò dinanzi,

E nel grave subietto ebbe con quelli
Parole assai. Ma come l’ampio regno
Volle intorno spartir, gli astri del cielo
Parean stupirne ancor, chè tutti ei scelse
Quanti eran di natura infima e rea,

Sè conformando al tristo suo costume.

In giù travolse ogni più saggio, e ovunque
Diè a’ tristi potestà. Cadde nascosto

Il vero e il giusto e in ogni parte attorno
La rea menzogna si mostrò. Ma il prence
Donava intanto al maggior figlio suo
Balkh ed Herì leggiadra e in ogni loco
Stuol d’armati spedia. Come fùr grandi
L'esercito raccolto e la dovizia

E fu beato il cor dell’uom protervo,

Orbo di vaghi frutti, ei diè monete

Al drappel de' suoi fidi e il fe' beato


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— 464 —

E di vampo la mente alla sua rea

Stirpe riempì. Guerrieri avea novelli

E armigeri pur anco, e le vedette
Andando il precedean. Duce de' suoi

Era un prence famoso, esperto in guerra,
Ghersiyùn s'appellava. Ecco! a Bukhàra
La nuova schiera di pugnar bramosa,
Così raccolta, si voltò. Ma il nuovo
Signor d’Irania, E Samarkànd e Ciàci,
Dicea, prender vogliam con questa nostra
Gemma real, con la corona, quale

Di Yezdeghird che governò la terra,

De’ sette astri signor ch’erran pel cielo,
Fu già comando. E piglierò vendetta

Col ferro mio di Bizhen reo, per cui
Tristo si fea del re del mondo il fato.

XI. Morte di MAhay di Sar.

(Ed. Cale. p. 2091-2095).

E fu cotesto fin che annunzio venne
A Bizhen battaglier che preso il trono
Della grandezza imperial s'avea
Mahùy protervo, che mandando intorno
La regal gemma col suggel, la terra
Tutta acquetava. Intanto, ei discendeva
Alle correnti del Gihun con ampia
Schiera bramosa di battaglie e d’armi,
Per guerra far. Chiedea Bizhen allora :

Oh! chi gli diè la regal gemma? — Tale,
Esperto in favellar, l’opera trista
Gli raccontò. Come giugnesti, ei disse,
Di Faràb alle arene, allor che il fato
Parea tacer su l’opre de’ mortali


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— 465 —

O giuste o ree, di qui n'andava esercito
Di te, signor, possenti cavalieri,
Di gloria amanti. Asseverando allora
A te disse Mahùy: «Se tu m'invii
Un drappello de' tuoi, nascostamente
T'invierò l’imperial corona,
L'anello e il trono in fulgid’or, chè il regno
Su questa terra a te 8’ addice ». Intanto,
L'esercito de’ tuoi di qui affrettossi
E prence Yezdeghìrd in Merv disceso
Rinvenne. In mezzo a le contrarie schiere
Il re fu colto, e quegl’Irani suoi
Sconfitti si fuggîr. Come rimasto
Fu l’iranio signor senza un’aita,
Ei temèò sì che dal ribelle esercito
Male incogliesse a lui. Là, sul crocicchio
Di quel calle, un mulin stava non lungi;
Là entrava Yezdeghird con quella sua
Di sole maestà. Ma di lui tosto
Ebbe Mahùy novella e tal spedia
Che il re trafisse. Come ucciso il suo
Legittimo signore ebbe il malvagio,
Tutto nel poter suo ridusse il mondo
Col suggello di re. Ma ben due parti
Di questa impresa di te son, chè quelli
Eran pur sempre i cavalieri tuoi
Pugnaci, e quello fu di te un assalto.

Ma Bersàm soggiugnea: Bizhen regnante,
Non io da Ciàci tanti cavalieri
Con meco addussi. Ma da Merv allora
Che tanta preda qui recai, soletto
Quando re Yezdeghird restossi in mezzo
Alle schiere nemiche, a te già detto
Avea Mahùy in pria: « L’aureo suo trono
E il monile ingemmato e la corona
E i suoi tesori invierò di Ciàci




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— 466 —
Alle mura per te, chè a te nel mondo
S’addicon trono e regal serto ». Intanto,
In Merv tre giorni io combattei. Al quarto,
Come splendette il sol, luce del mondo,
Col cor serrato e corruccioso un'aspra
Pugna ingaggiai, ma volsemi le terga
Mahùy ingannator. Poi che rimase
D’Irania il regnator fra l’armi solo,
Come bieco leon contro dì noì
All'assalto gittossi e molti in guerra

Già famosi fra noi col ferro spense.
Come poi non rimase alcun de’ suoi
Alleati ed amici, egli fuggendo

Volse le terga. Nè ben so in qual guisa
L’alma gli tolse un servo reo, del suo
Re sovrano uccisor. Ma come tosto
Dell'estinto signor l'ampio tesoro
Mahùy si prese, quel tesor per cui

Non fatica ebbe, non rancura, e innanzi
A sé il depose, per ricchezze attorno

L' uom reo si mosse. Detto avresti allora
Che me veduto mai non ebbe. Stette

In Merv intanto per due intere lune
L'esercito de’ nostri, ed ei non volse
Mai con atto cortese a noi gli sguardi.
Il suo signor celatamente uccise,

Uccise cotal re, face del mondo,

Tal cavalier, che detto avresti, in mezzo
Alle schiere nemiche, alta la fronte
Fino al cerchio levar di questa luna.
Niun de’ Turani di sua clava ai colpi
Incontro andava, e sì fendea per lui

De’ più famosi il cor. Mai non vid’io
Cavalier di cotanta maestade

E tanta dignità, con tale usbergo

E tal clava e tal elmo e con tal destra


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— 467 —

Forte e gagliarda. Ed or, l’uom tristo e reo,

Come sazio si fu, come pigliossi

L'antico regno, questo ancor si prese

Costume insano. Ma poichè al guanciale

Il tuo nemico battaglier t'è giunto,

Posar non déi co’ tuoi gagliardi. Fiori

D’erbe oziose deh! non siam giammai

Dei re negli orti. Se pur v’ènno, alcuno

Il giardino regal più non ammira.
Bìizhen, come ascoltò, forte crucciossi

Che, per l'uom tristo, dell’iranio prence

S'era oscurata la fortuna. Cenno

Ei fe’ sì che adunarsi ampio un esercito

Ratto dovesse di turani prenci,

In giorno d'armi cavalieri, e tosto

Da Kaciar-bàshi rapido ne venne

In corsa e per la via non cercò indugio

In alcun tempo. Come giunse accanto

A città di Bukhàra, ei per i campi

E pel deserto sparse i prodi suoi

E lor disse pur anco: Or non abbiate

Fretta o vampo all’oprar, fin che il nemico,

Da questa parte del profondo fiume,

Le sue falangi contro a me non guidi

A far battaglia. Forsechè vendetta

Avrem da lui del prence iranio. — Ancora

Ei dimandò: Prole del morto sire

Che venga all’uopo, non rimase adunque?

Fratelli non avea del mondo il prence,

O se figli non ebbe, una fanciulla

Non ebbe forse, che potremmo innanzi

Addurci e protettori esserle e amici,

Tutto compiendo su Mahùy l’intenso

Desio del nostro cor? — Nobil signore,

Bersàm gli rispondea, compiasi tempo

Della semenza imperial. Possanza


<pb n="8.468"/>
— 468 —

Hanno su le città con signoria
Gli arabi prenci, e non rimase un figlio

Di re quaggiù, non un che il fuoco adori.

Bizhen, come l’udì, tutto raccolse
L'esercito guerrier, dolente e tristo
Per l'opre del destin. Vennero intanto
Esploratori. Esercito s'avanza,

Dicean elli, e posàr gli accampamenti
In terra di Baykènd. Passan le schiere
Su navicelli l’acque omai del fiume,

E per la polve che levàr, nel cielo

Il sol disparve. — Innanzi da l’esercito
Bìzhen duce ne venne, ivi ordinando
All'assalto dell’armi acconcio il loco,
Ed a Mahùy di Sur che la nemica
Schiera lungi vedea, detto tu avresti
Via da le membra fuggirsi lo spirto
Per timor di tante armi ivi raccolte,
Targhe cinesi ed elmi, usberghi e clave,
Scuri di Ciàci ed aste. Ei ben si dolse;
Pur le sue file ad ordinar si prese

Là di rincontro, quando già si fea
Oscura l'etra e il suol sparia di sotto.

Bizhen, come ordinò le sue falangi,
A’ guerrieri d’Irania al loco ov'era,
Volle porre un agguato. Oh! ma di tanto
Mahùy ben s’avvedea dal medio loco
Delle sue schiere, e di là volse i passi
Con alte grida. Bizhen riguardando
Il vessillo ne scorse, indi conobbe
Che quei la fuga meditava. Allora
Fe' tal cenno a Bersàm : Dal medio loco
Di nostre genti quelle che hai con teco
Schiere agguerrite, là rivolgi. D'uopo
Non è per noi che la battaglia tema
E volgasi al Gihùn senza indugiarsi


<pb n="8.469"/>
— 469 —

Mahùy ribelle. Or tu, rapido corri,

Gli occhi dal tristo non levar, chè seco

Ben diversa a compir faccenda abbiamo.
Come scoverse di Mahùy da lungi

L'alta bandiera, a quella parte insieme

Bersàm di Gina le falangi sue

Tutte rivolse. Fino al lembo corse

Dell’alte arene di Faràb, le guance

Corrugate per ira e pieno il labbro

D'imprecanti parole. Ivi quel tristo

Raggiunse, di Faràb su l’alte arene,

Ivi puntossi su le staffe e rapido

Al corso si avventò. Come correndo

Più e più gli fu vicin, trasse la spada

E alta prova gli diè d’ardir, di forza,

Chè alla cintola il prese e via di sella

Traendo il tolse e repentino al suolo

D'un sol colpo il battè. Scese d’un balzo

E le mani gli avvinse, indi cacciollo

A sè dinanzi e tornò in sella. Ratto

Vennero allor tutti i compagni e amici,

Sì che il deserto risuonò d'alterne

Voci all’intorno. O tu che ci se’ guida,

A Bersàm ei dicean, qui, sul crocicchio

Dell'ampia via, d'uopo è troncargli il capo.
Ma quei rispose: Ciò non è consiglio

Ch'io seguir debba, chè di tal cattura

Consapevol non è Bizhen illustre.
Novella a Bizhen venne intanto, omai

Esser caduto in suo poter lo schiavo

Perfido e reo. Bizhen intese, e ratto

Gioì quel core e giubilò, disciolto

Andò da cure e da pensieri. Un grido

Levò Bizhen allor come leone,

E vennero da lui correndo in folla

Molti eroi di Turania. Elli fra loro


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— 470 —

Molti disegni avean pensati, e tutti
Volean strage e sterminio. Or, quale ei videro
Di Mahùy della reggia, elli improvvisi
Uccideano; oh davver! che de' trafitti
Fu infinito lo stuol! Tutte dispersero
Le dovizie raccolte e la raccolta

Preda infinita, allor che tutto ignudo
Trasser Mahùy con sè. Come l’uom reo
Di Bìzhen giunse a riveder la fronte,
Parve che la ragion via si fuggisse
Dalla sua mente conturbata. Ei fue,
Per la tema del cor, qual'è persona
Esanime, col capo in giù travolto

Su la mobile arena. Oh! tu malnato,
Bizhen gridò, di cui simile schiavo

Mai non abbiasi alcun, perchè uccidesti
D'Irania il giusto re, signor di trono

E signor di vittoria e re sovrano

Di padre in padre, erede in su la terra
Di prence Nushirvàn? — Così rispose:

Ad uom ch'è reo, che altro s'addice adunque
Fuor che rabbuffi e morte? Or tu, per tanto
Male, colpisci la cervice mia,

Gitta il mio capo all'assemblea de’ tuoi.

Ben io questo farò, Bizhen rispose,

Per ch'io tosto dal cor della vendetta
Fuor mi tragga il desio! — La destra allora
Troncandogli col ferro, Oh! questa mano,
Gridò, nell’opre triste un’altra mano

Pari non ebbe! — Poi che l’una e l'altra
Man gli ebbe tronca, I piè gli recidete,
Gridò furente, perchè immoto ei resti

In questo loco, qui. — Soggiunse poi:

Or gli troncate orecchi e naso. — Intanto
In arcioni ei balzò. Qui su la calda

Arena, disse comandando, voi


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— 471 —

Rattenete costui, fin che l'eterno
Sonno l’incolga in vituperio ed onta.

Dal capo al piè l’avvinser con un laccio,
E di tube un clangor ratto levossi
Dal padiglion di Bizhen; ma un araldo
Anche ne andò pel campo attorno e innanzi
Alle soglie passò de’ padiglioni
Alto gridando: Servi che la morte
Ordite ai vostri re, stolta la mente
Per insano desio non conturbate.
Abbia la sorte di Mahùy, regale
Seggio non tocchi mai chi d’un monarca
Pietà non ebbe nel suo tristo core!

Un prence eravi ancor, Guràz il nome,
Da cui gloria e diletti e buono stato
Già venian di Mahùy, posto alla guardia
Di Merv città in que’ dì. Come in tal foggia
Misera e vile fu Mahùy trafitto,
Ei pel figlio maggior, gioconda luce
Degli occhi suoi, compor di fulgid'oro
Fe’ un regal serto. Ma poichè fortuna
Di Mahùy si fe’ torba all'improvviso
Ed entrarono in Merv da tutte parti
Cavalieri con l’armi e d'alti strepiti -
Risuonò la città, quando levàrsi
Alterne voci di corruccio e tutta
Fu quella terra di tumulti piena
E di battaglie, in quell’eccidio estremo
Anche Guràz ebbesi morte e giunse
Il fatal tempo di sua casa antica.
Eran tre figli suoi nell'ampio esercito,
Eletti figli, tutti e tre onorati
Di regal seggio e di corona. Al loco
Ov'eran elli, una gran vampa accendere
Fe’ Bizhen battaglier; nel vasto incendio
Ardere ei fe’ quel padre e i figli suoi


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— 472 —

Miseramente. Cgsì niuno in terra
Rimase allor di quella stirpe, e alcuno
S'anche rimase, ognun che lo scovrìa,
Lungi ’1 cacciò. Maledissero intanto

La stirpe scellerata i prenci tutti,

Ei che bramosi erano in cor, la morte
Di vendicar del re tradito. Cada,

Elli dicean, maledizion su lui

Che il misfatto compì. Deh! mai non sia
Che tu dal maledir costui ti astenga,

E con giustizia te n’astenga ! — Ancora
Bizhen turanio era di colpe reo,

Sì che di lui pur anco la misura

Tosto fu colma. Si fe’ estrano a lui
L'antico senno, ed io ridir m'’intesi

Che folle e insano diventò, che visse
Alquanto ancor fin che s’uccise. — Oh! cielo
Roteante su noi, su noi ricurvo!

D'ora in avanti volgerassi il tempo
Sotto il nome d'Omàr, da ch'ei ci addusse
Novella fede, in cattedra mutando
Sacerdotal l'antico iranio trono.

XII. Fine del Libro dei Re.

(Ed. Calc. p. 2095-2096).

Poi che su me passati ènno sessanta
Anni e cinque, più grave entro al mio core
Si fe’ il pensier per tante sopportate
Fatiche e stenti. Vennemi già in pria
Brama nel cor di raccontar d'antichi
Prenci la storia, e la mia stella intanto
Lenta e tardiva procedeva. Assai
Grandi di Persia e dotti e generosi,


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— 473 —

Senza premio donar, li versi miei
Trascrivendo venian. Da lungi io stava
A riguardarli assiso, e detto avresti ‘
Ch'uom per mercè condotto er’ io per quelli.
Altro che un « Bene hai fatto! » era la mia
Parte assegnata, e il vigor mio, per quello
« Bene hai fatto! » scemavasi frattanto
E si perdea. Ma chiusi erano i cofani
Degli antichi tesori, e quel serrame
Alto il mio cor feria. Pur, fra que’ prenci
Di quest’alma città grandi e famosi,
Era Alì Dilemita, ei che ben giusta
Sua parte or tocca, ch'egli ognor, sereno
Dell'alma e liberal, l’opera mia
Che bella procedeva, ebbesi cara.
Hussèyn Kotèyb è pur de' generosi,
Qual non sì tolse mai di me un sol detto
Senza premio donar. Vesti da lui
Ebbimi e cibo, ed oro e argento, e moto
Ebbi alle mani e a’ piè. Per lui non ebbi
Di catasti o d'imposte o di tributi
Alcun gravame, e qual dentro a una coltrice
Ravvolgermi io potei con cor tranquillo.

Poi che a settanta ed uno ancor venuti
Son gli anni miei, sommesso il ciel divenne
Al mio sovrano poetar. Per trenta
E cinqu’anni, vivendo in questa vita
Caduca e breve, molto faticai
Con la speranza d’un tesor. Ma tosto
Che fu disperso il faticar, perduto
Anche n'’andava d’anni tanti il frutto,
Ed or che il viver mio già già è vicino
Gli anni ottanta a toccar, la mia speranza
Al vento in un baleno iva dispersa.

Ecco! di Yezdeghìrd l’antica istoria
Oggi compissi, al giorno d’Ird, nel mese


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— 474 —

D'Isfendarmùdh. Quando ben cinque volte
Ottanta fùr trascorsi anni fugaci
Dell’ Egira dal dì, questo compii
Dei Re d’Irania imperial volume.

Di re Mahmùd fiorente la persona
In ogni tempo sia, lieto il suo core,
Chiara la mente sua! Tanto il lodai,
Che il detto mio si rimarrà nel mondo
Eternamente, di secrete cose
Sia ch'ei favelli o di palesi. Laudi
Ebbi dai prenci un dì, ma più d’assai
Furon quelle da me già tributate
Lodi a lui sol fra tutti. In sempiterno
Viva adunque tal uom saggio e prudente,
Sempre beato in suo desio, col core
Atto al bene operar. Questo mio libro
Io gli lasciai qual nobile retaggio,
Quando a sei volte diecimila distici
Ei venne a pareggiar. Ma il tempo intanto
Il mio lungo parlar, ciò che udir féi
Ad altri già, condusse al termin suo,
Chè discendean di giovinezza i giorni
A vecchia età. Poi che l’inclito libro
Così venne al suo fin, del verso mio
Tutta è piena la terra. Ognun che alberga
Senno e fede e saggezza entro al suo core,
Mi loderà dopo la morte mia,
Ned io morrò più mai, ch'io son pur vivo
Da che il seme gittai di mia parola.


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INDICE

I re Sassanidi (seguito)

1. Il re Khusrev-Pervîz.

I. Principio del regno di Khusrev-Perviz pag. 5
II. La domanda del perdono . . » 7
III: Veruta di Behràm Ciùbineh »
IV. Colloquio di Khusrev e di Behràm » 18
V. Consigli di Gordieh PT
VI. Assalto notturno di Behràm . » 50
VII. Fuga di Khusrev e morte di Hormuzd » 55

VIII. Astuzia di Bendùy : » 60
IX. Consiglio di Behràm Ciùbîneh coì “prio-

cipi : ° è A » 68

X. Fuga di Bendùy : » 76

XI. Arrivo di Khusrev-Pervîz in Grecia » 82

XII. Lettere di Khusrev e dell'Imperatore » 93

XIII. Fellonia dell'Imperatore . » 99

XIV. Lettere di Khusrev e dell’ Imperatore » 103
XV. Il talismano dell'Imperatore . . >» 113
XVI. Esposizione della religione degl'Indi » 119
XVII. Invio della sposa e delle schiere . —»‘123
XVIII. Andata di Khusrev in AzeràbAdagfn » 128
X]1X. Lettere di Behràm intercettate . >» 132
XX. Prima battaglia di Khusrev e di Behràm » 137
XXI. Seconda battaglia di Khusrev e di Behràm» 143
XXII. Terza battaglia e sconfitta di Behràm » 155
XXIII. Fuga di Behràm . . .  » 188
XXIV. Il campo di Behràm distrutto . >» 163


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— 476 —
XXV. Alterco di Niyàtùs e di Bendby . pag. 167

XXVI. Partenza dei Grecì : . >» i7l
XXVII. Lamento di Firdusi per la ‘ morte del

figlio . . o + >» Î75

XXVIII. Behràm presso il Principe di Cina » 177

XXIX. Morte di Mekftàreh =. -. . » 182

XXX. Il leone Keppi : . >» 185
XXXI. Lettera di re Khusrev al Principe di

Cina . . . >» 193

XXXII. Andata di Kharréd-Berzîn .- +. >» 199

XXXIII. Morte di Behràm Ciùbineh . . » 208
XXXIV. Messaggio dell'imperatore di Cina a Gor-

dieh . . s +» 219

XXXV. Fuga di Gordieh e... » 223
XXXVI. Morte di Teburg . . .
XXXVII. Nozze di Gustehem e di Gordieh
XXXVIII. Morte di Gustehem .
XXXIX. Nozze di Gordieh e di Khuarev
XL. Oppressione di Rey è.»
XLI. Spartizione del regno
XLII. Nascita di Shirùy. .
XLIII. Richiesta della Croce .
XLIV. Leggenda di Khusrev-Perviz e di Shîrina
XLV. Incontro di Khusrev-Pervîz e di Shîrina
XLVI. Consigli dei principi .
XLVII. Morte di Maria .
XLUVIII. Costruzione del trono detto Tik-dîs
XLIX. Avventura del cantore BArbed
L. Fondazione di Madféin .
LI. Grandezza e gloria di Khusrev-Pervîz
LII. Rivolta dell'esercito
LIII. Cattura di Khusrev-Perviz

FERTPEELITERRETRE

2. I re KobAd-Shirày.

I. Richiesta di perdono dal padre pag. 329
II. Risposta di Khusrev-Pervîz . .  » 339
III. Angoscia di Shîrày-Kobàd » 357
IV. Lamento di BArbed. A » 360
V. Uccisione di Khusrev-Pervîz . » 363
VI. Morte di Shiîrîna e di Shirùy. » 369